Il 9 aprile 1945 Dietrich Bonhoeffer venne impiccato nel lager di
Flossenbürg. Aveva trentanove anni. Insieme a lui c’erano
l’ammiraglio Canaris, il generale Oster, il giudice Sack e il
capitano Gehre. Da quando la Gestapo aveva scoperto negli archivi di
Zossen alcuni documenti che dimostravano il loro coinvolgimento nel
fallito attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, queste
persone non ebbero scampo. Se le avevano lasciate ancora vive, era
solo perché i nazisti speravano di poter ricavare delle informazioni
da qualcuno di quei detenuti eccellenti. In particolare l’ordine di
uccidere Bonhoeffer partì dal Führer in persona, rinchiuso nel
bunker di Berlino.
Stiamo parlando di un pastore luterano, uno dei più grandi
teologi del Novecento: definizione corretta, benché insufficiente.
Molti anni fa, al termine di un viaggio, consapevolmente spericolato,
sulle sue tracce, mi chiesi cosa avessi imparato da lui. «Spendersi,
contar niente, sporcarsi le mani, lasciarsi trafiggere dal punto di
vista altrui, essere pronto a perdere tutto e ricominciare da capo»:
ecco le prime risposte che mi vennero in mente. Ognuna di esse ha
continuato ad aprire, dentro di me, proficue risonanze: ma sempre più
mi accorgo che queste parole vanno riconquistate ogni giorno, quasi
fossero cime impervie. Non si possono dare per acquisite.
Nella primavera del 1924 Dietrich, con il fratello Klaus, compì
un viaggio in Italia, fermandosi in particolare nella capitale. Nel
diario non mancò di annotare due visite alla basilica di Santa Maria
Maggiore: «Ho visto con piacere così tanti volti seri, per i quali
non vale tutto ciò che si dice contro il cattolicesimo. È molto
toccante vedere che anche i bambini si confessano con autentico
fervore».
Sin da ragazzo sentì l’inadeguatezza di qualsiasi formula
precostituita. Voleva toccare con mano le cose, a costo di bruciarsi
le dita: superò quindi la pura dimensione verbale per affrontare la
realtà.
Tutta la sua esistenza si configura come un’espansione d’energia
che lo spinse ad abbandonare, alla maniera di un rottame sul
bagnasciuga, la semplice cura di sé: dalle lezioni accademiche di
Adolf von Harnack alla scoperta del Don Chisciotte,
dalle aule universitarie ai casali di Finkenwalde, dalle corride di
Barcellona alle chiese nere di Harlem, dalla vanità personale alla
piena consapevolezza del destino comune. Bonhoeffer, come avrebbe
fatto un uomo in corsa che perde sangue, restò nel fuoco dialettico
della terribile controversia storica in cui si trovò a vivere, senza
credere di poter conservare una coscienza immacolata: la mise anzi
costantemente a rischio nelle relazioni personali, a costo di
alienarsi le simpatie di chi gli stava accanto, ad esempio Karl
Barth, il suo primo mentore.
Ciò avvenne nelle scelte supreme (il ritorno dagli Stati Uniti
nel 1939, l’estrema accettazione tragica di Schőnberg, in Baviera,
quando gli scagnozzi di Hitler lo prelevarono per l’ultima volta
per destinarlo al patibolo); ma soprattutto nella quotidianità,
pubblica (i congressi ecumenici degli anni Trenta, la cattedra e il
pulpito) e privata (il culto dell’amicizia, la passione familiare,
il fidanzamento con Maria von Wedemeyer).
La prospettiva che si fa largo in lui a partire dai capitoli
raccolti nell’Etica, specie quello centrale dal titolo
La struttura della vita responsabile, ci consegna
l’immagine dell’uomo completo, integrata, negli anni del carcere,
anche dalla lettura del Witiko, celebre romanzo di
Adalbert Stifter: uno dei lasciti più appassionanti della
straordinaria testimonianza bonhoefferiana. Come dobbiamo intendere
tale indicazione? Non l’individuo delle possibilità, bensì quello
dei limiti. E della tragica consapevolezza del male, nel segno della
statua del Laocoonte, ammirata sin da ragazzo ai Musei vaticani e
subito collegata a Isaia, “uomo dei dolori”. Basta entrare in
quest’ottica per uscire dalla vulgata vitalistica novecentesca del
viaggio senza ritorno, del deragliamento dei sensi, dell’arbitrio
analogico.
La persona a cui pensa Dietrich Bonhoeffer non esegue un programma
teorico stabilito in anticipo a tavolino, neppure si limita a
sviluppare armonicamente le sue attitudini, fossero anche speciali e
rare. Accetta se stesso dentro la sequela di Cristo, rigettando il
criterio del successo (inteso come riuscita) quale misura e
giustificazione dei propri gesti. Aderisce al mondo delle cose
nell’esercizio di una responsabilità attiva dalla quale sarebbe
vano pretendere una salvaguardia individuale.
La fede non è una polizza d’assicurazione. La Chiesa non è una
farmacia. Dio non è un tutore. E neppure un tappabuchi. Dobbiamo
crescere, diventare autonomi, maggiorenni, uscire con risolutezza
dall’eterna indecisione, dagli ossimori che paralizzano, dai
discorsi retorici, mettendoci alle spalle tutti gli alibi interiori.
Un uomo così risulta vulnerabile perché disposto, nell’imitazione
evangelica, a prendere su di sé la colpa; dire la verità non
significa semplicemente dirla: bisogna tener presente le conseguenze
che si producono. Chi vive sbaglia.
L’azione veramente significativa non scaturisce dalla virtù
privata, paga di se stessa, ma cerca ad ogni costo lo sguardo dal
basso: quello degli esclusi, dei maltrattati, degli impotenti, degli
oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Sono questi i
grandi temi presenti nelle sue opere fondamentali: Vita
comune, Sequela, Etica e
soprattutto Resistenza e resa, un libro che può
davvero cambiare la vita di chi lo legge, composto nel carcere
berlinese di Tegel, sotto i bombardamenti dell’aviazione alleata.
Le azioni senza verifica sono destinate a fallire, ma anche le parole
prive di riscontri si trasformeranno presto in piante a cui manca
l’acqua. Spugne secche. Sterili vaticinii. Fino alla dichiarazione
più bella: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come
me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la
vita della generazione che viene».
Nessun commento:
Posta un commento