Mario
Del Pero 16 Aprile 2020
Scontato, ma non banale, l’endorsement di Obama a Joe Biden è
infine giunto. Un po’ in anticipo sui tempi, a dire il vero,
accelerato sia dal ritiro di Sanders dalle primarie, e quindi dalla
certezza che sarà Biden a sfidare Trump, sia dalla terribile crisi
sanitaria ed economica provocata dal Covid19.
Oltre che a ricordarci – al netto di tutte le simpatie e le
antipatie politiche – di quale monumentale scarto vi sia tra la
retorica ricca e articolata di Obama e quella ruvida e binaria del
suo successore, l’endorsement è stato significativo per almeno tre
elementi.
Il primo è che Obama ha celebrato l’importanza della scienza,
della conoscenza, dell’expertise. Un affondo, indiretto ma potente,
a un Presidente che nella bufera della pandemia ha speso preteso
d’imporre la voce sua su quella degli esperti e dei suoi stessi
consiglieri scientifici: minimizzando il rischio portato dal virus,
magnificando i poteri di medicinali non ancora testati, proponendo
avventate riaperture di un paese che, il peggio, deve ahimè ancora
vederlo.
Il secondo elemento, quello politicamente più rilevante, è stato
rappresentato dall’apertura forte alla sinistra democratica. Obama,
più fonti lo hanno confermato, è intervenuto nel processo delle
primarie, convincendo diversi candidati moderati a uscire
precocemente dalla contesa per far convogliare tutti i voti su Biden,
l’unico in grado di fermare la corsa di Sanders. Ha giocato insomma
un ruolo cruciale e forse decisivo. Ora si tratta però di rimettere
assieme i cocci di un elettorato progressista diviso, evitando che i
tanti sostenitori disillusi di Sanders disertino le urne in novembre.
Tra questi un segmento decisivo è costituito dai giovani, quegli
under-30 che hanno massicciamente preferito a Sanders a Biden, e che
dalla moderazione di quest’ultimo difficilmente possono essere
conquistati (tanto per intenderci, nel fondamentale voto del South
Carolina, che rilanciò Biden dopo le iniziali sconfitte in Iowa, New
Hampshire e Nevada, l’ex vice di Obama sconfisse Sanders 64 a 11
nel voto degli over-65, perdendo però 43 a 26 quello degli
under-30). Obama questi giovani li ha menzionati direttamente. E
soprattutto ha sottolineato come dalla sanità alla diseguaglianza,
il programma di Biden sia, e debba essere, il più progressista di
sempre. Più di quello di Obama del 2008, che i tempi e le sfide sono
diversi, molti dei progetti obamiani debbono ancora essere completati
e – non detto, ma chiaro – alla Casa Bianca siede un Presidente
pericoloso e finanche eversivo.
Questo invito ad andare più a sinistra è stato integrato, in
modo contraddittorio, dal terzo e ultimo elemento, un classico della
retorica obamiana: l’enfasi sull’interesse e il bene comune; la
necessità di superare divisioni e spaccature. Con un rimando a
passaggi nodali della storia e della cultura statunitense, e con un
riferimento dalle matrici religiose, Obama ha invocato un nuovo
“grande risveglio” contro una politica caratterizzata da
“corruzione, disinteresse, egoismo, disinformazione, ignoranza”
e, talora, “semplice follia”. Nessuna menzione dell’attuale
Presidente, ovviamente, ma anche qui era fin troppo semplice
immaginare a chi, e cosa, Obama alludesse.
Una pia illusione, quella di riunire un paese polarizzato e
lacerato in forme estreme e di certo non ricomponibili, a maggior
ragione in un anno elettorale e con un avversario come Trump. Ma
l’obiettivo di Obama e dei democratici non è oggi quello di
sottrarre voti alla controparte e forse nemmeno di convincere i pochi
indecisi, quanto piuttosto di mobilitare appieno un elettorato
democratico che sarebbe strutturalmente maggioritario nel paese, ma
che rimane assai meno coeso, unito e omogeneo di quello repubblicano.
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