Stefano Zamagni
16 aprile 2020
Sulle pagine dell'Osservatore Romano di oggi l'intervista al
presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali sul dopo
coronavirus, che includerà "nemici" importanti, a partire
dal neoliberismo, ma anche e soprattutto un'epoca migliore
di Marco Bellizi
Nel “nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il
liberismo. E insieme ad esso, almeno in Italia, la burocrazia,
l'ostinazione nel rifiutare il principio di sussidiarietà, la
resistenza alle opportunità che la tecnologia ha dimostrato di poter
fornire. Nonostante questo compito impegnativo all'orizzonte, secondo
Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia accademia
delle Scienze Sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato.
L'Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi,
nell'immediato, saranno costretti ad arretrare. Perché tutto questo
accada, però, occorrono iniziative tempestive, coraggiose e
lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un think tank, un
gruppo di esperti politicamente indipendenti e desiderosi
di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di
poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si
avvierà finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto mi permetta una domanda
ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in Italia, in tempi
brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche rischio, o
preferisce attendere il via libera degli scienziati?
R. - Il punto è delicato e richiede una risposta articolata.
Circola uno studio recente realizzato da un team di esperti
dell'Università di Alicante, istituzione piuttosto attendibile,
secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile sarà la
data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell'epidemia. Se
questo è vero ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano
scenari diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello
scientifico: questo va detto. I police makers, i governanti, sono
costretti a basarsi su questi dati, che non sono concordi. Purtroppo,
negli anni passati, quando era possibile farlo, gli istituti
scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare studi
che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che
non si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si
risolvesse si potrebbe cominciare a morire anche per
denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza
sanitaria. I modi per riaprire gradualmente ci sono. Occorre iniziare
con le attività che producono valore aggiunto: le partite di calcio,
tanto per intendersi, non sono fra queste. Fino ad ora, durante
questa crisi, abbiamo solo redistribuito valore, senza produrlo. E'
chiaro che così non possiamo reggere. E qui devo dire che le
autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti
organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un
mondo di bene. Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per
avviare il servizio civile universale. Ci sono 80000 giovani che in
base agli ultimi bandi sono pronti a lavorare gratuitamente per un
anno. Lo stesso vale per molte fondazioni sanitarie. Sarebbe un vero
e proprio esercito pronto a scendere in campo. Parliamo di circa 360
mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni settori che
sono contrari al principio di sussidiarietà. C'è troppo dogmatismo
e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della
vulnerabilità, di cui si parla molto in questi giorni. Sfugge una
distinzione fra queste due categorie. Noi in questi giorni siamo
intervenuti a favore dei più fragili, di chi si trova in condizione
di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità è la
condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al
50 per cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi
fra quelli che oggi vengono definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito molti pareri, anche diversi,
in merito agli effetti che il lockdown avrà sull'economia italiana e
su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi linee, quali
saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare
nell'immediato?
R. - In primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare
Society: ammettere anzitutto che la salute non è un bene privato ma
pubblico. Questo virus ce lo sta dimostrando chiaramente: se io mi
ammalo finisco con il fare ammalare anche gli altri. Diventa un
problema comune. Poi occorre passare dal modello della
cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza
scuola-lavoro”, perchè i due mondi non sono alternativi. Nei
progetti educativi bisogna introdurre il termine “conazione”
(conoscenza e azione). Il sapere va usato in senso trasformativo.
Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non riescono a
impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere
l'architettura filosofica che è alla base della scuola. E' lo stesso
concetto attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha
inteso promuovere e che verrà rilanciato nei prossimi mesi. Un altro
punto fondamentale è quello della deburocratizzazione. Nessuno ha
l'onestà di dire che la burocrazia c'è per colpa di tutti i partiti
politici, e sottolineo tutti, che l'hanno creata a colpi di
leggi a partire dagli anni '80 del secolo scorso in poi (il miracolo
economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di
questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in
virtù di quella che viene definita la rentseeking: non è altro che
uno strumento per mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far
partire una lotta senza quartiere contro le posizioni di rendita che
si annidano nella burocrazia. Anche perché per mantenere il
burocrate, per giustificare il suo stipendio, l'unico modo è fargli
produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo. Altro punto
fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia
è calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e
quando dicono “muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano
di mano ad aziende francesi o tedesche pur mantenendo il marchio
formalmente invariato. C'è differenza fra imprenditorialità e
managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager, abbiamo
ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il
manager ha bisogno di tecnica, l'imprenditore ha bisogno di cultura,
di alta cultura. E qui le nostre università hanno delle colpe, sfido
chiunque a dimostrare il contrario. Infine c'è la questione della
“tassazione promozionale”, quella che gli inglesi definiscono
Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare soprattutto chi ha
rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di un
programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi
piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori
della meritocrazia...Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe
essere d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think
tank composto da esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici,
che abbiano a cuore le sorti del paese e che nel termine di tre
mesi siano in grado di elaborare un progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta insegnando, questa pandemia, sotto
il profilo dei rapporti economici e sociali?
R. - La lezione principale è che il modello liberista è il
nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c'era chi ancora
inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la
globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse.
È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la
marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto
quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c'è sempre
una mano invisibile che aggiusta tutte le cose. C'è voluto il
Papa con la Evangelii Gaudium a fare presente che non è così. Oggi
chi ancora sostiene le posizioni neoliberiste o è un incompetente o
lo fa in cattiva fede. La pandemia di questi giorni somiglia tanto
alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter
nel 1912, quella che viene considerata la componente fisiologica del
capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al principio
darwiniano del far morire per ricreare. Secondo l'economista
austriaco, non c'è niente che si può fare per evitarlo. Il problema
è che dalla dimensione economica questo principio si è spostato a
livello sociale. E i più poveri, i più fragili, sono quelli che
pagano. Lo vediamo in questi giorni, anche a livello sanitario, con
la drammatica scelta di chi curare. Questo meccanismo va domato: la
dimensione del creare deve prevalere su quella distruttiva, in modo
che la prima possa compensare gli effetti della seconda. Ma sono
certo che questo accadrà, perchè la gente sta aprendo gli occhi.
Vede, bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di
mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è
una grande falsità. Dovremmo cambiare anche i libri di economia in
uso all'università, che finora hanno insegnato questo. Poi
naturalmente occorre continuare a lavorare anche sull'eccessiva
finanziarizzazione dell'economia, che del resto è già entrata in
crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart working, telelavoro, ecommerce:
meno tempo sprecato, meno inquinamento, maggiore efficienza. Sarà
davvero questa l'eredità positiva che il virus lascerà al mondo o
fatalmente si tornerà indietro?
R. - Se non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero
voluti anni per convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se
non altro, possiamo dire che se dopo l'emergenza un'azienda non si
adatta allo smartworking o al telelavoro la colpa è solo sua: la
tecnologia, come si è visto, c'è e funziona senza particolari
problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si
parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare
criteri di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà
cambiare anche i meccanismi di contrattazione collettiva e le
relazioni industriali. Anche il mondo sindacale potrebbe venirne
rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne siano all'altezza. Si
dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in base ai
progetti, imparare a valutare l'outcome, non l'output, il risultato
finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono alcune note dolenti. O quanto
meno alcune criticità. A suo parere come si sta comportando
l'Europa? E' davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne
uscirà?
R. - Ne uscirà rafforzata. Anche i paesi più ricchi della
comunità si renderanno conto che occorre riscrivere i trattati, da
quello di Maastricht a quello di Dublino. Di fronte a situazioni come
quelle che stiamo vivendo, occorre prendere coscienza che non ci si
può fermare all'unione monetaria ma occorre andare avanti. Torna
anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l'Europa si
è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente
vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni,
che gli antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno
messi a tacere. Almeno per qualche tempo. I nazionalisti
pretendono di essere interpreti del bene della nazione e degli
interessi del popolo. La realtà ci dice invece che la salvezza è
nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni dei paesi
più influenti o emergenti sono guidati però da leader che nel
passato si sono dimostrati un po' refrattari all'idea della
cooperazione...
R.- In effetti, a livello mondiale sono un po' meno ottimista. La
colpa anche qui è tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso
che certi stati diventassero dei giganti economici, potenti ma
fondati su linee di sviluppo così lontane da quelle proprie delle
nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei diritti
umani...Bisogna cambiare registro. E per questo occorre
un'Europa forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci
sarebbero tutte. Eppure continuiamo ad azzannarci fra noi, a
insistere su politiche di austerità che tra l'altro non hanno alcun
vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l'economia civile, l'economia verde, la microeconomia
possono realmente costituire un'occasione concreta di sviluppo?
R. - L'economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato
forse anche perché nasce in ambienti cattolici. Le sue
caratteristiche sono semplici: non esclude nessuno dal mercato;
afferma che il fine dell'agire economico è il bene comune, non il
bene totale; afferma che l'ordine sociale è il frutto
dell'interazione fra stato, mercato e società civile; non accetta il
principio del “Noma”, dei Non-overlapping magisteria (la teoria
secondo qui scienza e religione avrebbero aree di indagine diverse e
non sovrapponibili, ndr). Quest'ultima è una teoria antica. Se ne
può trovare origine sin dal 1829, quando Richard
Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford,
affermava che l'economia è una scienza neutrale che deve essere
separata dall'etica e dalla politica. Un concetto antico ma
assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel guidare questi
processi innovativi?
R.- Questo è un falso problema. È l'uso che dà il metodo,
secondo l'epistemologia: è una delle poche affermazioni di Kant
sulle quali sono d'accordo. Prima di cercare il leader devi creare le
coscienze. A quel punto il leader verrà fuori. Bisogna che la gente
cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù, in fondo,
affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad
andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti
il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.
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