Ilaria Mauri
Zygmunt Bauman ha
appena festeggiato il suo 90° compleanno, ma riesce ancora a
esprimere le sue idee con calma e in modo chiaro, prendendosi tempo
con ogni risposta perché odia dare risposte semplici a domande
complesse. Da quando ha sviluppato la teoria della
modernità liquida alla fine del 1990 – che descrive la nostra
epoca come quella in cui «tutti gli accordi sono temporanei, fugaci
e validi solo fino a nuovo avviso» – è diventato una figura
di spicco nel campo della sociologia. In un’intervista al
quotidiano spagnolo El Paìs ha espresso il suo scetticismo
sull’uso dei social media in ambito politico.
Lei
è scettico riguardo al modo in cui la gente oggi protesta
attraverso i social media, il cosiddetto “attivismo da poltrona”,
e sostiene che internet ci riempie la testa con contenuti
scadenti. Dunque, secondo lei i social media sono il nuovo oppio
dei popoli?
Il fatto è che l’identità è
passata dall’essere qualcosa con cui si nasce a qualcosa da
costruire: è necessario crearsi la propria comunità di riferimento.
Ma le comunità non sono un’invenzione, o appartieni loro o ne sei
fuori. Ciò che i social network possono creare è solo un
surrogato.
La differenza tra una comunità e una rete è che a una comunità si appartiene, mentre una rete appartiene a voi. Se ne ha il controllo. Si possono aggiungere amici quando lo si desidera ed è possibile eliminarli allo stesso modo. Si tengono sott’occhio le persone con cui ci si vuole relazionare.
La differenza tra una comunità e una rete è che a una comunità si appartiene, mentre una rete appartiene a voi. Se ne ha il controllo. Si possono aggiungere amici quando lo si desidera ed è possibile eliminarli allo stesso modo. Si tengono sott’occhio le persone con cui ci si vuole relazionare.
Il risultato è che tutto questo fa
stare bene la gente, perché la solitudine, l’abbandono, è la
paura più grande che affligge la nostra epoca individualistica. Ma è
così facile aggiungere o rimuovere gli amici sui social media che le
persone dimenticano le regole del comportamento sociale, necessarie
quando si va per strada, al lavoro, o quando ci si trova
costretti ad instaurare una relazione empatica con le persone che ci
stanno attorno. Papa Francesco, che è un grande uomo, ha
rilasciato la sua prima intervista dopo essere stato eletto a
Eugenio Scalfari, giornalista italiano che è anche un ateo
autoproclamato.
Era un segno: il vero dialogo non
è parlare con persone che credono nelle tue stesse cose. I
social media non ci insegnano a dialogare perché in quel
mondo è facile evitare le polemiche, quando lo si desidera. La
maggior parte delle persone utilizza i social media non per
collegarsi e neppure per ampliare i propri orizzonti, ma, al
contrario, per rinchiudere sé stessi in una comfort-zone in cui gli
unici suoni sono gli echi della loro voce e le uniche cose che
vedono sono i riflessi del proprio volto. I social media sono molto
utili e piacevoli, ma sono una trappola. La maggior parte delle
persone utilizza i social media non per ampliare i propri orizzonti
ma per rinchiudere sé stessi in una comfort-zone
Ha descritto la disuguaglianza come una
“metastasi”. È la democrazia a essere a rischio?
Potremmo descrivere ciò che sta
accadendo in questo momento come una crisi della democrazia, il
crollo della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni:
la convinzione che i nostri leader non siano solo corrotti o
incompetenti, ma addirittura inetti. L’azione richiede
energia per essere in grado di fare le cose, e noi abbiamo bisogno
della politica, che è la capacità di decidere cosa deve essere
fatto. Ma l’idillio tra il potere e la politica nelle
mani dello Stato nazionale si è rotto.
Il potere ha assunto dimensioni
globali mentre la politica ha mantenuto la sua dimensione locale
ed è rimasta fregata. La gente non crede più nel sistema
democratico perché non mantiene le sue promesse . Lo vediamo,
ad esempio, con la crisi migratoria: è un fenomeno globale, ma noi
ci comportiamo ancora con spirito campanilistico. Le nostre
istituzioni democratiche non sono state progettate per affrontare
situazioni di interdipendenza e l’attuale crisi della
democrazia è una crisi proprio delle istituzioni democratiche.
Si tratta di due
valori tremendamente difficili da conciliare. Per avere più
sicurezza, bisogna rinunciare in parte alla libertà; se si vuole più
libertà, inevitabilmente si ridurranno le misure di sicurezza.
Questo dilemma sarà eterno. Quarant’anni fa eravamo convinti che
la libertà avesse trionfato e abbiamo dato il via a un’orgia
di consumismo. Tutto sembrava possibile, bastava solo un prestito di
denaro: automobili, case… Ogni desiderio era realizzabile senza
doverlo pagare subito. La crisi migratoria è un fenomeno
globale ma noi ci comportiamo ancora con spirito campanilisticoIl
campanello d’allarme è scattato nel 2008, un anno amaro, quando i
finanziamenti erano finiti e le casse prosciugate. La catastrofe, il
collasso sociale che ne è seguito, ha colpito in particolar
modo le classi medie, trascinandole in quella situazione di
precarietà in cui versano tuttora: non sanno se la loro azienda stia
per essere acquisita o se saranno licenziati, non hanno nemmeno la
certezza che ciò che hanno comprato a rate finora gli appartenga
davvero. Il conflitto non è più tra le classi sociali, ma tra i
singoli individui e la società. Non è solo una questione di
mancanza di sicurezza, ma di mancanza di libertà.
Lei dice che ora il
progresso è un mito, perché la gente non crede più che il
futuro sarà migliore del passato.
Siamo in un periodo di interregno tra
un momento in cui abbiamo avuto certezze e un altro in cui i vecchi
modi di fare le cose non funzionano più. Non sappiamo cosa ci
toccherà prossimamente. Stiamo sperimentando nuovi modi di fare
le cose. La Spagna ha cercato di mettere in discussione questo stato
di fatto con il movimento 15 Maggio (15M), quando la gente è scesa
nelle piazze per discutere e confrontarsi, nel tentativo di
sostituire le procedure parlamentari con una sorta di democrazia
diretta. Ma non è durato a lungo. Le politiche di austerità
continueranno, nessuno le potrà fermare, ma queste persone
potrebbero rivelarsi ancora vincenti nel trovare un nuovo modo di
affrontare le questioni politiche.
Lei sostiene che
fenomeni come gli ‘Indignados’ o il movimento internazionale
‘Occupy’ sanno “come spianare la strada, ma non il modo per
creare qualcosa di solido”.
Quando scende in
piazza, la gente è disposta a mettere da parte le differenze in
vista di un obiettivo comune. Se questo obiettivo è negativo, come
ad esempio contestare qualcuno, ci sono più possibilità di
successo. In un certo senso potrebbe essere vista come un’esplosione
di solidarietà, ma la caratteristica di un’esplosione è di
essere molto potente ma di breve durata.
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