Walter Veltroni
L'Unità 28 febbraio 2016
Battute oscene, proposte assurde.
Eppure il consenso cresce: il magnate fornisce voce a sentimenti
profondi che si fanno strada in tutto l’Occidente
Mentre il nostro paese sembra impegnato
– colonne di pagine dei giornali, televisioni, siti invasi e
mobilitazione dell’Accademia della Crusca – dal decisivo tema
della possibilità che venga introdotto o no il termine “petaloso”
, inventato da un creativo bambino, nei nostri vocabolari , il mondo
rischia di precipitare in una avventura senza ritorno. Donald
Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato
repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta
sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci
è ormai noto : l’essere un imprenditore che si è fatto da solo,
il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione,
l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo,
dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale
delle proposte». Con queste parole, in un editoriale di fine agosto
dell’anno scorso, quando tutti ironizzavano su Trump, cercavo di
richiamare l’attenzione su quello che stava accadendo nella più
importante democrazia del globo. Vorrei tornarci oggi, visto che
quella profezia si sta tragicamente avverando.
Trump sta dominando le primarie , in
beffa agli osservatori radical chic che alzavano il sopracciglio
immaginando che ,come è sempre avvenuto nella storia americana, gli
estremismi fossero costruzioni alla periferia dell’impero. Trump
dice nefandezze che , secondo lo schema del politicamente corretto,
avrebbero dovuto condurlo al totale isolamento politico e morale .
Invece Trump cresce. Se Papa Francesco richiama alla disumanità
della proposta del candidato repubblicano riguardante i muri contro
gli immigrati, Trump vola nei consensi. Se il magnate dice, sempre a
proposito dei migranti, «non possiamo farli entrare. Sono un cavallo
di Troia. Abbiamo già troppi problemi. Angela Merkel ne ha accolti
un milione? Che si vergogni», i suoi voti aumentano.
Se si scaglia violentemente sulla sua
avversaria democratica dicendole: «Se Hillary Clinton non sa
soddisfare suo marito, cosa le fa pensare saprà soddisfare gli
americani?», gli elettori applaudono entusiasti. Se in tv prende in
giro un giornalista disabile, insulta una cronista che gli ha fatto
domande che non ama, e minaccia di picchiare un solitario
contestatore, il suo consenso si impenna. Possiamo distrarci un
attimo dal terribile dilemma su “petaloso” per cercare di capire
cosa sta avvenendo nel profondo della coscienza del civile popolo di
uno dei pochi paesi che non ha mai conosciuto, in tutta la sua
storia, dittature di nessun colore? Cosa è successo in pochi anni
perché la nazione che ha eletto Obama volgesse il suo sguardo verso
il peggio del peggio, la demagogia populista di un miliardario
reazionario che si erge a paladino dell’antipolitica?
Attenzione a valutazioni semplicistiche
, come quella che spiega il successo di queste posizioni con il
presunto fallimento della presidenza democratica. Non sono d’accordo,
personalmente. Obama ha affrontato la più grave crisi economica
della storia del dopoguerra americano e ne ha fatto uscire il suo
paese. Ha approvato una coraggiosa riforma sanitaria, ha capovolto la
politica di Bush nei confronti dell’Islam, ha favorito una politica
di distensione verso l’Iran, ora corrisponde alla promessa di
chiusura di Guantanamo, si prepara ad uno storico viaggio a Cuba. Ha
sfidato le lobby dei costruttori di armi e il consenso degli
utilizzatori , ha difeso un’idea civile del governo dei fenomeni
migratori. Il tempo e la storia si incaricheranno di rendere ad Obama
il ruolo che gli spetta. E se esitazioni ed errori ci sono stati,
come nell’atteggiamento verso il caos nel mondo islamico, essi non
possono essere certo rimproverati da chi, come l’Europa, non ha
fatto altro che disinteressarsene.
Dunque se Trump cresce non è per colpa
di Obama. Sarebbe una analisi frettolosa e riduttiva. Il magnate
candidato fornisce la sua voce a sentimenti profondi che si fanno
strada in tutti gli elettorati dei paesi occidentali. Al fondo, mi si
consenta di dirlo con nettezza, c’è il desiderio di nuovi
autoritarismi. È inutile che ci giriamo intorno. In molti paesi
cresce, in ragione delle difficoltà della democrazie e delle colpe
di partiti politici senza anima e ragione, un desiderio di
semplificazione, di riduzione drastica della inevitabile complessità
dei processi decisionali delle istituzioni. Il populismo è
cresciuto, ovunque, anche per effetto del conservatorismo ottuso di
chi non ha compreso che la democrazia deve innovare se stessa per
inverarsi nel suo tempo storico e che per salvarsi deve accentuare le
sue capacità di decisione esecutiva e di controllo parlamentare.
Ovunque si volga lo sguardo, in Occidente, si trovano fenomeni
analoghi. Basti pensare che, nel paese di Mitterrand, il primo
partito è quello di Marine Le Pen. Quello che sto cercando di dire è
che mi sembra assurdo che non ci si fermi a ragionare e cercare le
contromosse per evitare che questo caos rischi di assomigliare agli
anni venti e trenta in Europa. C’è una gigantesca
sottovalutazione, nel dibattito politico e culturale del nostro
tempo.
Io non so se Trump vincerà, alla fine,
la nomination repubblicana, come tutto sembra far pensare. Nel campo
democratico sta succedendo qualcosa che, in fondo, ha un segno
culturalmente in sintonia con i rivolgimenti politici, culturali,
antropologici che sto cercando di sottolineare. Un candidato
ultrasettantenne, che si è sempre definito socialista, sta
incalzando da vicino Hillary Clinton. Sanders agisce contro la sua
contendente un argomento tipico di questa fase: la polemica
antiestablishment. La Clinton è Washington e Sanders il popolo.
Questo è lo schema semplificato del confronto nel campo democratico,
il cui esito ora non è affatto scontato. Si dice che si stia aprendo
lo spazio per una candidatura indipendente, quella di Bloomberg.
Conosco Michael da tempo, siamo stati sindaci di New York e Roma e le
nostre due città, allora all’avanguardia nel mondo, hanno
collaborato benissimo. Ne conosco il sincero amore per la democrazia
e tanto mi basta. Ma se, facciamo l’ipotesi, un candidato
indipendente vincesse le elezioni presidenziali e poi si trovasse
ostaggio di un Congresso in cui, comunque, sarebbero egemoni i due
partiti storici, cosa ne sarebbe della «presidenza imperiale» di
cui parlava Arthur Schlesinger? Non voglio prendere in considerazione
l’ipotesi che, alla fine, la valigetta nucleare e la più grande
potenza mondiale finiscano nelle mani di Donald Trump. Non voglio
farlo ma tengo gli occhi aperti. Il mondo, in quel caso, statene
certi, sarebbe assai poco petaloso.