Francesco Tiboni
29 gennaio 2015
Accade
che in un paese come l’Italia, mentre ci si accalora dibattendo su
principi negoziabili e non, confini sigillabili e non, statue
presentabili e non, lento ed inarrestabile un principio cominci ad
insinuarsi, infine, nell’anima dell’elettore medio. Un principio
cui noi, democratici per scelta, e non per comodità, decidemmo di
rinunciare quando, con la nascita del partito del miracolo servito a
priori, non imboccammo la strada della libertà infiocchettata ad
arte, servita su piatti silver plated in feste popolate di
silicone. Al contrario: decidemmo di affrontare anni di gavetta e
sudore, lacrime e rabbia, per poter cambiare le cose.
E allora ripartiamo da
qui, per una volta. Senza pregiudizi di sorta.
L’elettore medio, il
cui numero è in drastico ed inarrestabile calo dall’inizio della
seconda repubblica, oggi più che mai è al centro del pensiero di
governo. E siccome l’elettore medio è palesemente schierato e
quanto mai sensibile alla realtà tratteggiata dai sondaggisti, tre
sono le regole che la politica si è data. Prima regola: non
svegliare il potenziale ri-elettore assopito, perché potrebbe non
essere un ultras schierato. Seconda regola: trasformare ogni
confronto in una battaglia uno contro uno, sempre con avversari
diversi, come fossimo in un girone calcistico all’italiana. Terza
regola: negoziare su tutto il negoziabile, basta che sia utile.
Chi come me, come molti
di noi, ha creduto e crede in questo momento politico come l’unico
momento in grado di dare una sterzata al nostro belpaese, non può
però starsene lì zitto, ad ascoltare e tacere sempre, su tutto. Non
può nemmeno lasciare la parola solo ai maitres-à-penser di prima e
seconda generazione. Perché così come abbiamo parlato quando tutto
questo era da costruire, prendendo schiaffi e sberleffi, allora forse
anche oggi qualcosa dovremmo dire.
E allora proviamo a dire
qualcosa su queste nuove e drammatiche regole del gioco. Perché io
non mi voglio svegliare tra due anni con un miracolo italiano
infiocchettato e travestito da successo progressista.
Primo: basta alla paura
di svegliare il ri-elettore. Perché a noi democratici non è mai
piaciuto vincere facile. Siamo mediani di spinta, persone che lottano
sempre e sudano. E che faticano per quello in cui credono. Ma che un
avversario lo temono, lo rispettano, possono forse arrivare ad
odiarlo, ma, soprattutto: lo vogliono. Perché se tutti siamo
d’accordo i casi sono due: o siamo rimasti in troppo pochi, o le
cose su cui ci confrontiamo sono davvero cose da poco.
Secondo: basta con questo
continuo cambio di prospettiva. Quando sognavamo un orizzonte
democratico, pensavamo a qualcosa di complesso e difficile, talmente
difficile da essere quasi caotico e per questo geniale. Non sognavamo
una cosa informe, in grado di cambiare faccia ogni minuto per
assecondare l’avversario di comodo del momento.
Terzo: basta con questo
utilitarismo. Noi siamo sempre stati democratici per scelta. Anche
quando significava scegliere di perdere. Oggi non possiamo pensare di
essere quelli che negoziano l’idea del matrimonio quando appare
vantaggioso compiacere l’Europa dei presunti migliori perché amici
del progresso, l’idea della cultura occidentale quando appare
vantaggioso compiacere l’Iran o l’agnosticismo mascherato di
intellettualità, l’idea della difesa dei confini quando appare
vantaggioso compiacere l’Isis piuttosto che le destre xenofobe.
Noi, nostro malgrado,
cattolici o no, crediamo da sempre che la libertà sia una scelta.
Dolorosa, ma indispensabile. Sempre utile, ma non utilitaristica.
Qualcuno di noi la chiama partecipazione, qualcuno dibattito.
Ma non diciamoci che alla fine tutto va bene, l’importante è che
si resti al potere. Non diciamoci che in fondo non ci sono principi
negoziabili, perché le regole chiedono negoziati. Abbiamo troppo
spesso condannato chi ha immolato l’idea di libertà sull’altare
del liberismo. Ora non facciamolo noi su quello dell’utilitarismo.
Diciamo basta alla Democrazia della Compiacenza. Perché noi siamo
Democratici per Scelta, non per Comodità.
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