Carlo Bertini
La Stampa 28/12/2017
Si chiude una legislatura tra le più
travagliate. Matteo Renzi, quali sono le riforme che più hanno
trasformato il Paese?
«Lavoro, tasse e diritti. Ma nessuna
riforma di questa legislatura ha trasformato radicalmente il nostro
Paese, sarebbe presuntuoso sostenere il contrario. Più semplicemente
l’Italia era in grave difficoltà, a un passo dalla bancarotta: con
l’impegno di questa legislatura siamo tornati in carreggiata. Le
riforme più importanti hanno riguardato il mondo del lavoro con il
Jobs Act e Industria 4.0; il mondo delle tasse con 80 euro, Irap
costo del lavoro, Imu prima casa; il mondo dei diritti, dalle unioni
civili al terzo settore, dal “dopo di noi” al “fine vita”.
Lavoro, tasse, diritti: in questi settori il cambio di passo c’è
stato e nessuno che sia in buona fede può negarlo. Ma è un cambio
di passo, non una trasformazione radicale. La strada è ancora
lunga».
Lei era sceso in campo per cambiare
l’Italia. Dove sente di aver colto i risultati maggiori e quali
sono state le resistenze più difficili da superare?
«Il fatto che la cultura non sia più
giudicata la cenerentola dei bilanci ma richieda investimenti
straordinari, dalla gestione dei musei al finanziamento dei privati è
una piccola cosa nel dibattito pubblico ma per me è elemento di
grande orgoglio. Non siamo invece riusciti a portare con noi la
maggioranza dei lavoratori del pubblico impiego e soprattutto della
scuola: spero che il rinnovo del contratto sia una buona occasione ma
non c’è dubbio che questo sia stato uno dei settori in cui abbiamo
sofferto di più le resistenze».
E ora quale dovrebbe essere una nuova
agenda di riforme per il prossimo governo?
«Non ci sono ricette magiche, ma c’è
solo da continuare migliorando ciò che è stato impostato. Secondo
Istat i lavoratori italiani erano 22 milioni nel 2014, sono 23
milioni oggi. Bene, un milione in più. Dobbiamo creare le condizioni
per arrivare a 24 milioni, certo. Ma dobbiamo anche porci il problema
di come migliorare la qualità di quel lavoro, non solo la quantità.
E per farlo servono gli incentivi e gli sgravi certo, ma anche la
certezza della giustizia o la semplicità della burocrazia. Una
visione di insieme per i prossimi anni. Possiamo permetterci di
parlare di futuro perché abbiamo fatto uscire l’Italia dalle
sabbie mobili. Ma dire futuro non significa sparare promesse in
libertà: oggi ho fatto i calcoli delle ultime tre proposte
elettorali di Berlusconi. Siamo già oltre 150 miliardi e la cosa
folle è che non si scandalizzi nessun editorialista. Come le paga?
Spunta un miliardario cinese all’improvviso come è successo per il
Milan o alza le tasse? Noi del Pd non proporremo riforme
mega-galattiche, non scriveremo un libro dei sogni: siamo coerenti e
concreti».
Solo in Gran Bretagna risiedono 500
mila nostri connazionali, in gran parte giovani che hanno lasciato
l’Italia negli ultimi 15 anni. Quali riforme potrebbero convincerli
a tornare?
«L’Italia deve essere
all’avanguardia nell’attrarre intelligenze. Dobbiamo creare
centri di ricerca globali dove poter far crescere i nostri talenti.
Dove ricollocare chi vuole tornare in Patria, certo. Ma anche dover
invitare i migliori cervelli di tutto il mondo. Non c’è solo
l’emergenza dell’immigrazione da barconi, che abbiamo affrontato
con umanità e onore, a differenza di altri Paesi europei: c’è
anche un’immigrazione diversa, da coltivare e promuovere nelle
università del Sud-Est asiatico o dell’America latina, nei centri
di ricerca europei e africani. Fare dell’Italia un grande centro di
attrazione di cervelli di tutto il mondo, bloccando la fuga e
iniziando a importare ciò che oggi esportiamo».
Obama ritiene che le democrazie
avanzate debbano porsi la necessità di un nuovo welfare per far
fronte all’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro.
Anche l’Italia ha bisogno di un nuovo welfare?
«L’Italia ha un sistema di welfare
che gli americani si sognano. Però possiamo e dobbiamo fare meglio.
Perché la mancanza di sicurezza non è solo nella paura del crimine,
ma anche nella paura del futuro. La gente è spaventata perché non
ha più le certezze del passato, chiede protezione. E studiare un
paracadute nuovo che protegga il ceto medio spaventato è una delle
imprese più difficili da realizzare. Qui però sta la grande sfida
dell’Europa. E la prossima legislatura dovrà vedere un
protagonismo italiano su questo punto, accompagnando e stimolando la
crescente leadership della Francia di Macron».
Come mai ha scelto di correre per fare
il senatore dopo aver caldeggiato la trasformazione della Camera alta
in Senato delle autonomie? Non le pare una contraddizione?
«Non è un contrappasso dantesco, ma
la scelta responsabile di inchinarsi alla volontà popolare. Continuo
a pensare che questo Paese avrebbe funzionato meglio con una sola
Camera a dare la fiducia, ma ho perso quella battaglia. I cittadini
hanno scelto di tenere vivo il Senato e adesso trovo doveroso
sottopormi al voto degli italiani per entrare o meno in Senato. Anzi:
ho letto che Salvini vuole sfidarmi dove mi candido io: lo aspetto
nel collegio senatoriale di Firenze».
Quale atteggiamento terrà nei riguardi
dell’Europa di qui al voto? In primavera come sempre dovranno
giudicare i nostri conti pubblici...
«Noi diciamo da tempo che siamo per
un’Europa capace di ripensarsi. Europa sì, ma non così. Tuttavia
se guardiamo gli schieramenti in campo noi siamo l’unico polo
realmente europeista. Pur di prendere una trentina di collegi in più
Berlusconi ha imbarcato Salvini, unico caso europeo di popolari e
populisti che stanno dalla stessa parte. Dall’altro i Cinque Stelle
sono impressionanti nella loro assurda visione europea: propongono un
referendum che non si può fare per votare no alla permanenza
nell’Eurozona, sapendo che questa scelta affosserebbe la nostra
economia. In questo scenario il centrosinistra è davvero l’unica
chance di un’Italia europeista che vuole un’Europa diversa, più
forte e più giusta. Quanto ai conti pubblici, abbiamo messo a posto
i conti, nonostante il Fiscal Compact: dall’Europa ci attendiamo
elogi, non polemiche».
In caso di stallo dopo le urne, lei
darebbe il suo ok ad un governo istituzionale, magari a guida
Gentiloni? O chiederebbe un ritorno alle urne?
«Quello che accadrà il giorno dopo lo
deciderà il Presidente della Repubblica dopo aver visto i risultati
e aver ascoltato le forze politiche. Nutro un rispetto non formale
per le attribuzioni che la Costituzione ha dato al Capo dello Stato.
Spero in un Governo guidato da un premier Pd non per spirito di corpo
ma perché lo considero un fatto positivo per l’Italia. L’Italia
è più sicura se guidata dal Pd: non è tempo di apprendisti
stregoni che si qualificano come nuovi o del ritorno di chi ha fatto
schizzare lo spread a livelli record. È tempo di solidità e di
forza tranquilla».
Ritiene possibile dopo il voto un
accordo con il partito di Grasso per formare un governo, se aveste i
numeri sufficienti?
«Non abbiamo niente contro Grasso, ma
vedendo quanto sono accreditati nei sondaggi non mi pare l’ipotesi
più realistica».
Il Pd cala nei sondaggi, anche per via
delle banche. Cosa farà per invertire il trend?
«Sulle banche rivendico ciò che
abbiamo fatto a cominciare dalla riforma delle popolari. Non credo
che i sondaggi calino per quello, ma c’ un solo modo per invertire
la rotta: faremo tutti insieme la campagna elettorale. E appena
partirà la campagna, finalmente, la musica cambierà. Il Pd se la
gioca sul filo dei voti per essere il primo partito contro i Cinque
Stelle: non dimentichiamo che due terzi dei seggi vengono attribuiti
sulla base del sistema proporzionale dove conta il singolo partito.
Sul terzo restante, che viene definito dai collegi, sono fiducioso
del fatto che metteremo i candidati migliori. E che saremo il primo
gruppo in Parlamento: pronto a scommetterci».
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