Davide Rondoni
L'Avvenire 17 dicembre 2017
Il presepe non è un simbolo, è un racconto. A questo
pensavo vedendo ovunque i segni del presepe e, contemporaneamente, nei
media riaffiorare anche quest’anno, per motivi diversi, le discussioni
intorno alla pertinenza del suo allestimento in luoghi pubblici. È così
mentre un preside siciliano lo toglieva dalla scuola, la Regione
Lombardia lo inaugurava in piazza. E altrove lo stesso, tra chi vuol
togliere e chi vuol mettere. Ci divideremo anche sul presepe? Sulla
cosa più semplice e mite, sulla creatura poetica e delicata di san
Francesco – santo che tutti a parole peraltro onorano? Quando lo
inventò, il santo e poeta non volevo creare un simbolo, ma raccontare
nuovamente un fatto.
Anzi il più grande fatto della storia,
l’avvenimento che ha portato nel mondo, come dice Ungaretti, un Dio che
ride come un bimbo, un Dio che non allontana gli infedeli, che non
respinge i poveri, che non evita i fragili. Vorrei che fosse ancora
così, un racconto più che un simbolo. I simboli a volte sono freddi,
utili a fare propaganda, a essere appunto simboli di idee, o addirittura
di ideologie. Certo, il presepe è diventato in un certo senso simbolo
di una storia che segna la vicenda del nostro Paese e territorio e
società in un modo che solo uno stupido può negare.
Ma
innanzitutto si fa per raccontare ancora, per arricchire di particolari
che vengono dalla vita vissuta (da qui le nuove statuine proposte anno
dopo anno a Napoli, nella via degli artigiani del presepe) la grande
scena che nessuno poteva mai prevedere, e che Dio ha creato per noi.
Raccontare un fatto è diverso dal difendere un simbolo. I simboli
procedono spesso verso l’astrazione, sono simboli per quanto importanti
di concetti: identità, civiltà, cultura... Tutte cose sacrosante, specie
in momenti di confusione, ma guai a ridurre il presepe, questo mite e
misterioso racconto, a un simbolo scontato, utile a propugnare idee
invece che a sgranare gli occhi di fronte al fatto che narra.
I
simboli possono essere anche impugnati e difesi, e certo va fatto quando
sono in gioco questioni serie. Ma il presepe non va brandito, va
guardato. Va ascoltato. Con il cuore commosso di chi - come l’innamorato
di fronte al sì, all’eccomi della donna amata - si trova dinanzi a un
dono immenso, sproporzionato ai suoi meriti e alle sue capacità. È
bello, è giusto che uomini e donne, famiglie, persone da sole, o
rappresentanti delle istituzioni sentano il bisogno di raccontarsi e
raccontare ancora questo grande fatto. È come un riverbero che dallo
stupore dei pastori e di san Francesco arriva fino a noi, nelle nostre
case tra le mensole e la tv, o nelle piazze, o dove si vive si soffre si
cresce.
È una notizia che continua a correre, a raccontarsi. Il
più misterioso e affascinante dei racconti. Un fatto vero che, come
accade per tutti i fatti importanti, viene raccontato in molte lingue,
secondo tante sensibilità e culture diverse. Ma un racconto, non un
simbolo ideologico. Infatti mentre i simboli possono scaldare
soprattutto le discussioni, i racconti scaldano i cuori e la conoscenza.
Ogni discussione, se ben argomentata può essere utile, specie se non
nega la storia e la libertà. Ma credo che nel nostro tempo, e nel tempo
di questa nostra Italia sempre ferita è sempre benedetta, sia più
importante oggi la silenziosa commozione che la vivace discussione.
Alzare
i toni davanti al Presepe può essere giusto, se le parole sono
attraversate anche dallo stupore, dalla preghiera e dal silenzio del
cuore. Perciò viva ogni piccolo o grande presepe, ogni piccola o grande
versione d’un racconto del Fatto che ci dà speranza.
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