di Paolo Bellucci
società italiana studi elettorali
Il dibattito sull’idea che stare al governo fino
al voto sia o meno un vantaggio nelle urne. Ecco quanto può valere
per i dem.
Sino a qualche tempo fa si
scriveva di effetto incumbent per descrivere il
vantaggio elettorale del partito di governo all’approssimarsi delle
elezioni. Un effetto che ricorda l’aforisma “il potere logora chi
non ce l’ha”. L’idea di fondo è che i partiti al governo
godano di un possibile vantaggio elettorale, non solo per l’ovvia
ragione che chi ben governa è ricompensato dal voto, ma anche perché
far parte dell’esecutivo ha significato in passato – ma non solo
– la possibilità di favorire con provvedimenti legislativi la
propria base elettorale, stimolando così il consenso nell’imminenza
delle consultazioni. Si pensi ad esempio al lungo periodo che in
Italia ha visto la Democrazia Cristiana al governo da sola o in
coalizione con il Partito Socialista.
Da qualche tempo questo effetto sembra
tuttavia notevolmente
ridimensionato. Anzi, abbiamo assistito a quello che pare
delinearsi come un effetto opposto, cioè alla sistematica
penalizzazione dei partiti di governo, sconfitti
o indeboliti
alle elezioni al termine del mandato. Lo abbiamo visto con
evidenza in parecchie elezioni in Europa durante e dopo la Grande
Recessione del 2008-12. Si dirà che questi esiti non sorprendono,
anzi appaiono ragionevoli e scontati vista la severità della crisi.
E che sono attribuibili al cosiddetto “voto economico”: le
elezioni sono viste come un referendum sul governo, per cui
l’elettorato premia o punisce a seconda di una situazione economica
favorevole o meno, attribuendo ai partiti la responsabilità per
cattivi o buoni esiti collettivi.
L’effetto incumbent negativo,
tuttavia, non è circoscritto alle crisi economiche. Lo studioso
danese Martin Paldam ha definito questo
effetto come il cost of ruling – una sorta di
attrito del governo – e ha calcolato che i partiti di governo
perdono il 3% in media, e sino al 6% i governi in carica da oltre
quattro anni. Perché? Le scelte di voto di un elettorato i cui
tradizionali ancoraggi politici (dalla classe sociale alla religione)
appaiono sempre più in declino dipendono infatti in misura
significativa dai giudizi sull’operato del governo (in carica).
In ciò sospinti dalla marcata visibilità dei
governi e dei leader rispetto a quella più incerta dei partiti, e
dalla crescente personalizzazione della politica. Questo contribuisce
a dare vita ad una campagna permanente nella quale l’operato e
l’efficacia delle azioni del governo sono oggetto di costante
attenzione e scrutinio da parte dell’opinione pubblica e dei media.
Governi e leader politici comunicano incessantemente per diffondere e
pubblicizzare le proprie realizzazioni, così come i partiti
dell’opposizione danno vita ad eventi ed occasioni di visibilità
con il fine di conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Ed oggi i like della rete, che
moltiplica l’effetto comunicativo. Quindi il partito di governo
che, agli occhi dell’opinione pubblica, ha ben operato ha una alta
probabilità di riconferma da parte degli elettori. E viceversa. Un
indicatore attendibile del giudizio dell’opinione pubblica è Il
gradimento del governo, ossia la sua popolarità, rilevata da varie
inchieste d’opinione. La popolarità non è un fenomeno emotivo e
casuale. Al contrario presenta un ciclo stabile e prevedibile, a
forma di U: è alta immediatamente dopo l’insediamento (la
cosiddetta luna di miele), declina man mano che procede nel mandato a
causa della formazione di minoranze scontente di questa o quella
politica, e tende infine a risalire all’approssimarsi delle
elezioni.
Ma cosa influisce sulla popolarità? Anzitutto il
clima di fiducia dei consumatori e le aspettative sull’economia;
quindi il ciclo elettorale nell’alternanza tra elezioni legislative
e altre elezioni (regionali, europee, amministrative); infine la
comunicazione politica e l’esposizione degli elettori ai media. Il
primo fattore è di gran lunga il più importante. Dietro
l’alternanza di governi che l’Italia ha conosciuto dal 1996 è
osservabile, accanto alla differente composizione delle alleanze
pre-elettorali, l’effetto della popolarità. Nessun governo è
stato in grado di compiere il percorso completo, risalendo verso la
fine del ciclo.
E un livello di gradimento inferiore al 30% ha
significato la sconfitta. L’attuale governo sembra conoscere una
situazione migliore, con l’indice di popolarità appena sopra il
40%. Questo potrebbe significare un risultato elettorale per il Pd al
di sopra delle aspettative correnti. Non si tratta di una sola
impressione. Infatti le analisi della popolarità sono utilizzate per
effettuare previsioni elettorali con largo anticipo rispetto a quanto
possibile dai sondaggi sulle intenzioni di voto, che si stabilizzano
solo alla vigilia elettorale.
Si tratta di modelli previsionali diffusi in Europa
e negli Stati Uniti, che si basano appunto sulle caratteristiche di
base dei cicli della popolarità (e che non dipendono da
caratteristiche contingenti ancora sconosciute quali campagna
elettorale, alchimie delle alleanze, eventi). Impiegando un modello
simile (che ha come ingredienti di calcolo la serie storica dei
risultati elettorali alle politiche, europee e regionali, la
popolarità del governo nel trimestre precedente il voto, il consenso
medio alle tre precedenti consultazioni) si perviene ad una stima del
voto per il Pd del 34% (con un margine d’errore di +/- 6%).
Si tratta ovviamente di una stima, con un margine
statistico d’errore tipico di tutti i modelli previsionali. Segnala
tuttavia un’occasione di riflessione per il Partito Democratico,
che in passato, a differenza del centro-destra, non si è mai
presentato alle elezioni riconfermando il presidente del consiglio
uscente.