October 14, 2016 Blog Confini
Pierluigi Mele intervista Giorgio
Tonini
Oggi il PD compie nove anni. Per
l’anagrafe è un partito giovanissimo. Eppure è lontano “anni
luce” l’ entusiasmo di quei giorni. Nacquero comitati civici
composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, per
sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che “finalmente
avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità”:
il Partito Democratico appunto. Oggi il PD, come gli avvenimenti dei
giorni scorsi hanno mostrato, è un partito diviso, lacerato. Per
parlare della situazione interna, della lacerazione politica e della
sua possibile soluzione, abbiamo intervistato il Senatore Giorgio
Tonini. Tonini è stato tra i fondatori del PD. Attualmente è
Presidente della Commissione Bilancio del Senato, ed è esponente di
spicco della maggioranza renziana all’interno del partito.
Senatore Tonini, diciamoci la verità:
l’ultima direzione del suo partito è stata come il “canto
del cigno” del PD (così l’ha definita Marcello Sorgi). Insomma,
nonostante le aperture di Renzi sulla modifica dell’Italicum,
la minoranza non si fida del Segretario-Premier. Bersani
smentisce scissioni, e così altri della sinistra dem. Cuperlo
entrerà nella Commissione proposta da Renzi per cambiare la
legge elettorale. Però il clima è degenerato. Insomma Renzi
dovrà pur fare mea culpa se non riesce a tenere unito il partito.
Certo anche la minoranza ha le sue colpe: quella, in primis, di
vivere in perenne stato congressuale. Non è un bel compleanno
(il nono) per il PD. Non è così Senatore?
Non mi convince un’analisi della
discussione interna al Pd che si esaurisce attorno a questioni
psicologiche (il brutto carattere di questo o il risentimento di
quello), o anche solo ad uno scontro di potere e per il potere.
Certo, c’è anche tutto questo: la politica è fatta da esseri
umani e non da creature angeliche. Ma il nocciolo della questione è
un altro: lo ha detto bene Bersani in un’intervista di qualche
settimana fa, parlando di “idee diverse della democrazia”. E in
effetti, nella discussione sulla riforma costituzionale e sul
cosiddetto “combinato disposto” con la legge elettorale, sta
riemergendo, in modo via via più chiaro, la frattura tra chi crede
in un modello competitivo della democrazia e dunque tende a sposare
sistemi elettorali e istituzionali di tipo maggioritario, e chi
invece propende per una visione consociativa e consensuale e
preferisce quindi sistemi di tipo proporzionale. Con tutta la buona
volontà del mondo, e anche mettendo da parte asprezze e spigolosità,
non è facile mediare tra queste due visioni. Si può temperare un
impianto maggioritario con correttivi garantisti per le minoranze. O,
viceversa, si può correggere un sistema proporzionale con soglie
d’accesso e altri meccanismi stabilizzatori. Ma al dunque, si deve
scegliere quale strada prendere. La via intrapresa dalla riforma
costituzionale e da quella elettorale è la prima: è la via della
democrazia dell’alternanza, della competizione tra alternative
politico-programmatiche, incarnate da leadership riconoscibili; è la
via che affida al cittadino elettore il potere di investitura di chi
deve governare. Il superamento del bicameralismo paritario, in favore
di un sistema nel quale la Camera abbia l’esclusiva del rapporto
fiduciario col Governo e per questo eserciti anche un ruolo
preminente nel procedimento legislativo, è il primo pilastro di
questa visione della democrazia, quello contenuto nella riforma
costituzionale. Una regola di elezione della Camera politica, che
selezioni uno schieramento e un leader vincitori nella competizione
per il governo, è il secondo pilastro, affidato alla legge
elettorale, nel nostro caso all’Italicum. La riforma
costituzionale, approvata dal Parlamento, è ora affidata al giudizio
popolare e su di essa non si può più intervenire. L’Italicum,
invece, si può cambiare: la strada è aperta, sia sul piano tecnico,
perché si tratta di una legge ordinaria, sia sul piano politico,
dopo l’apertura di Renzi all’ultima Direzione nazionale del Pd.
Il problema è come cambiarlo: se per correggere alcuni aspetti,
anche importanti (ad esempio preferenze o collegi uninominali…), ma
senza rimetterne in discussione l’impianto maggioritario, come in
molti nel Pd pensiamo, o se invece si vuole dare al paese una legge
elettorale che non consente ai cittadini di scegliere chi deve
governare, ma vuole riaffidare questa decisione ai parlamentari e ai
partiti ai quali essi appartengono. Nel primo caso, la Commissione
costituita dalla Direzione su proposta di Renzi, potrà formulare
alcune ipotesi sulle quali lavorare in Parlamento. Nel secondo caso,
invece, sarà il referendum a sciogliere il nodo.
Dicevamo del nono compleanno , infatti
il 14 ottobre 2007 nasceva il PD, di un partito che aveva
suscitato grandi speranze. Che è riuscito a rompere un tabù
della politica italiana: quello della Sinistra al governo. Pochi
“anni dopo, quel partito si trova senza radici e senza
orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta”.
Questo è il duro giudizio di Ezio Mauro, in un editoriale di
qualche giorno fa su Repubblica. Forse la “mistica”
renziana della “rottamazione” non è riuscita a creare una
nuova identità di sinistra democratica. Il punto è proprio
questo: la radice dei dissensi politici interni al PD sta qui.
Un partito che è scarsamente curato dal segretario. Troppo drastici
questi giudizi?
L’identità di un partito, ama dire
Alfredo Reichlin, è data dalla sua funzione. La funzione del Pd è
stata in questi anni ed è oggi più che mai, quella di guidare
l’Italia sulla base di una strategia riformista e democratica,
unica alternativa di speranza alle suggestioni populiste e talvolta
reazionarie che la più grave crisi economica e sociale del nostro
tempo ha fatto sgorgare dal corpo provato e spossato del paese. Una
strategia che si è segnalata in Europa come l’unico esempio di
sinistra riformista al governo, mentre la socialdemocrazia in quasi
tutti i paesi del vecchio continente sprofondava nella crisi più
grave della sua storia. Altro che partito senza radici e senza
orizzonte! La verità è che la storia di questi anni ha dato ragione
alla intuizione culturale che sta alla base del progetto originario
del Pd, concepito nell’esperienza dell’Ulivo guidato da Romano
Prodi, sbocciato con la leadership fondativa di Walter Veltroni e
portato da Matteo Renzi al governo del paese in uno dei passaggi più
drammatici della storia d’Italia: l’intuizione per cui solo
dall’incontro tra le culture riformiste del Novecento si sarebbe
potuto formare e strutturare quel pensiero nuovo, democratico senza
aggettivi, che avrebbe potuto guidarci nell’affrontare le inedite
questioni proposte dal mondo del Duemila. Certo, questa intuizione ha
bisogno di essere coltivata e curata, tradotta in formazione
culturale e in una innovativa forma di organizzazione politica. Su
questo il Pd è in ritardo. Ma raramente i partiti al govern riescono
a trovare energie sufficienti per occuparsi di se stessi: è normale
che il nerbo dell forze disponibili sia usato nel e per il governo.
Ora infuria la battaglia sul
Referendum. Lei è schierato per il SI. D’Alema ha accusato il
vostro fronte di alimentare un “clima intimidatorio” e di essere
espressione di un blocco di potere. Anche il vostro fronte non
scherza in fatto di esasperazione e provocazione: sul sito
“bastaunsi.it” è uscito un articolo che non lascia spazio a
molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale
e programma del Pdl 2013”. Con il clima che c’è nel vostro
partito, una cosa così è un “capolavoro” all’incontrario
di comunicazione politica. Il clima è davvero esasperato.
Rischia di produrre, il giorno dopo il Referendum, macerie
politiche, da qui il richiamo del Presidente Mattarella. Lei non
è preoccupato?
Sono molto preoccupato. Come è
accaduto in altri passaggi della tormentata vicenda della nostra
democrazia difficile, vedo aggregarsi forze che hanno in comune solo
la volontà di opporsi, di contrastare, di impedire al faticoso
lavoro del riformismo politico e istituzionale di procedere e di
produrre risultati, per quanto limitati, parziali e perfino
imperfetti. Questo grande fronte trasversale può far perdere il
riformismo, ma non può vincere, se vincere significa non solo
battere l’avversario, ma promuovere una visione alternativa. Se
vincerà il Sì, il progetto politico riformista e democratico
riceverà dal consenso popolare la forza necessaria ad andare avanti
nell’opera, al tempo stesso determinata e paziente, di cambiamento
del paese. Se invece prevarrà il fronte del No, ci troveremo in un
vuoto, di visione e di proposta, malamente colmato da un rassegnato
ritorno, un ripiegamento in un sistema politico istituzionale
neo-proporzionale, nel quale nessuno vince, nessuno perde e nulla può
cambiare. Come si possa pensare di affrontare i grandi nodi
strutturali del paese con un sistema politico-istituzionale così
debole e frammentato è per me un mistero. Quanto all’accostamento
della riforma costituzionale sottoposta al referendum, al programma
del Pdl del 2013, non so dire se sia un capolavoro o un infortunio
sul piano della comunicazione politica. Dico però che i nostri
avversari devono decidersi: vogliono contrastare la riforma perché
“approvata a maggioranza spaccando il paese”, o invece perché
“copiata dal programma di Berlusconi”? La verità storica è
molto più semplice: il percorso riformatore di questa legislatura è
nato da un patto tra Pd, Pdl e centristi, lo stesso che ha dato vita,
sotto la guida del presidente Napolitano, al governo Letta. Un
governo che aveva proprio nelle riforme istituzionali il primo punto
programmatico. E le riforme individuate come possibili erano quelle
sulle quali si poteva registrare il più alto livello di consenso: la
riforma del bicameralismo, la revisione del titolo V nelle parti che
non avevano funzionato e la riforma elettorale. Si erano invece
accantonati temi più divisivi, come quello della forma di governo
(premierato o presidenzialismo), per non dire della questione della
giustizia. Dire dunque che la riforma approvata era ampiamente
contenuta nei programmi del Pdl, come per altro verso del Pd, è
ricordare una ovvietà, come è un’ovvietà ricordare che la
rottura con Forza Italia non è si è determinata sul contenuto della
riforma, ma su questioni di quadro politico esterne alla riforma
stessa. Raccogliere il giusto invito del presidente della Repubblica
dovrebbe significare innanzi tutto non nascondere o addirittura
mistificare queste elementari verità storiche.
Parliamo di Economia. Lei è presidente
della Commissione Bilancio del Senato. Organismo importante.
Avete ascoltato il Ministro Padoan. Il governo punta ad una
crescita dell’1%. Cifra che viene contestata
dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ma anche da altri
organismi. A parte i dati di agosto, sicuramente importanti, non
è che l’anno 2016 sia stato all’altezza delle aspettative
del governo. Insomma l’ennesimo spot ottimistico?
Portare il tasso di crescita
dell’economia italiana all’1% nel 2017 non è uno spot
ottimistico, ma un obiettivo programmatico che il Governo intende
perseguire con grande determinazione. L’ufficio parlamentare di
Bilancio, autorità tecnica autonoma, istituita grazie al nuovo
articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, ha espresso dubbi
sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo di crescita,
con un deficit pubblico che voglia mantenersi entro il limite del 2%.
Al momento tuttavia la Commissione europea non ha ancora accolto la
richiesta, da parte delle’ l’Italia, di superare quel limite,
anche se il Governo ha già chiesto al Parlamento di essere
autorizzato a discostarsene di uno 0,4% di PIL. Qualora questo
scostamento venisse in tutto o in parte accettato dall’Unione
europea, anche la divergenza tra il Governo e l’ufficio
parlamentare del Bilancio sarebbe destinata a ricomporsi. Accanto
alla dimensione quantitativa della manovra, decisiva ai fini del
raggiungimento degli obiettivi di crescita sarà la sua composizione
qualitativa: in particolare è decisivo che una parte significativa
delle risorse impiegate nella manovra venga utilizzata per sostenere
gli investimenti, sia pubblici che privati.
Lei è ottimista sulla flessibilità di
bilancio? Non le pare che stiamo grattando il fondo del Barile?
Penso che dobbiamo creare le condizioni
per spingere la crescita oltre l’1%, per portarla verso il 2, se
vogliamo che se ne avvertano gli effetti positivi nella vita concreta
delle famiglie e delle imprese. Arrivare a questo obbiettivo, che è
poi il senso del nostro lavoro, comporta due condizioni, la prima
delle quali è nelle nostre mani solo fino ad un certo punto ed è
riuscire davvero a cambiare verso alla politica economica europea,
ristabilendo il primato politico della crescita rispetto alla
stabilità. Abbiamo infatti bisogno che, accanto al lavoro di
risanamento, che è necessario venga fatto dagli Stati nazionali, e
che quindi accanto al fiscal compact – che non rinneghiamo, perché
costituisce un principio d’ordine necessario in una federazione di
Stati, che mantengono ancora una forte sovranità sulle politiche
economiche e nello stesso tempo vogliono avere in tasca la stessa
moneta – accanto a questo elemento di disciplina ci sia un motore
espansivo, che si accenda a livello federale. Quando il nostro
Presidente del Consiglio invita a fare come in America, intende
esattamente questo. Negli Stati Uniti d'America, gli Stati
che compongono l’Unione hanno il dovere del pareggio di bilancio:
se non hanno il bilancio in pareggio, vanno in default e nessuno li
assiste. Allo stesso tempo, però, c’è il motore federale che si
accende e c’è un’enorme spinta espansiva, dovuta al fatto che
l’azione del Governo federale e il Tesoro americano favoriscono la
crescita e l’occupazione. Questo è il compromesso su cui si
reggono gli Stati Uniti, che certamente ha i suoi problemi e i suoi
limiti, ma i dati ci dicono che, pur con tutti i problemi, sta
funzionando molto meglio del compromesso europeo, che spinge gli
Stati a rispettare il rigore di bilancio, ma poi non ha il motore
federale che si accende e spinge la crescita. Dunque è stata
inventata la flessibilità, che ci tiene in vita in questo momento.
Se ci togliamo questo ossigeno, soffochiamo. Altro è dire che questo
ossigeno, quel poco che c’è, va usato in maniera intelligente. Qui
le parole chiave sono due: una è la parola “riforme”, l’altra
è la parola “investimenti”. Le riforme sono necessarie, perché
sono gli scarponi che usiamo per camminare su quel crinale così
sottile e scivoloso che separa i due precipizi che abbiamo ai lati
del nostro cammmino: da un lato lo spread, dall’altro la
recessione. Se indossiamo scarpe con le suole lisce, è facile
scivolare e precipitare. Se abbiamo i ramponi, è più facile
camminare con passo sicuro e possiamo anche accelerare il ritmo del
nostro passo. Fuor di metafora, ciò vuol dire che gli 800 miliardi
di euro di spesa pubblica devono essere riqualificati, posto che non
possono crescere, ma semmai devono diminuire un po’. Per farli
diminuire un po’ e produrre crescita e uguaglianza sociale li
dobbiamo riqualificare, ristrutturando la spesa pubblica, attraverso
le riforme, cominciando dall’alto, ovvero dal Parlamento. Se
infatti il Parlamento non funziona, non funziona lo Stato e, se non
funziona lo Stato, l’economia va a farsi benedire. Questo è un
concetto di normale buon senso: poi possiamo discutere sul merito di
come si riorganizzano il Parlamento, il Governo di un Paese e lo
Stato. Dire però che questo sarebbe un diversivo non ha senso,
perché sarebbe come dire che non ci importa nulla della qualità
delle nostre scarpe, mentre dobbiamo camminare su un tratto esposto e
quindi pericoloso.
Renzi a Ventotene ha provato a
rilanciare il sogno europeo. Ma qualche giorno dopo si è
frantumato. Quanto pesa Renzi in Europa?
Renzi si trova a governare l’Italia
nel pieno della crisi più grave del progetto europeo dal 1957 ad
oggi. Ventotene e Bratislava sono due eventi che insieme ci
descrivono perfettamente lo stato attuale della questione europea.
Innanzi tutto ci dicono entrambi che i paesi che hanno sulle spalle
la responsabilità più grande rispetto al futuro dell’Europa sono
Germania, Francia e Italia: se i tre grandi fondatori agiscono in
modo solidale e coeso, gli altri seguono. Se invece si fermano, la
forza centrifuga prevale su quella centripeta e il progetto europeo
entra in crisi. A Ventotene, dinanzi alle radici della più grande
utopia storico-concreta che il Novecento ci abbia trasmesso in
eredità e di fronte alla vista del Mediterraneo, con le sfide
gigantesche che i suoi precari equilibri devono fronteggiare,
sembravano prevalere la consapevolezza, la responsabilità e la
solidarietà. Viceversa, a Bratislava, sono riemersi con prepotenza i
conflitti fra interessi nazionali, secondo il copione tipico del
procedimento intergovernativo. La prossima primavera l’Italia
ospiterà il vertice programmato per celebrare il 60º anniversario
dei Trattati di Roma: anche per questo abbiamo bisogno che il nostro
paese arrivi alla prossima primavera, forte di una confermata
stabilità di governo e di un riaffermato indirizzo politico
riformatore.