mercoledì 27 aprile 2016

Cari Professori del No…


Elisabetta Gualmini
Salvatore Vassallo
L'Unità 27 aprile 2016
Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei
Cari emeriti,
proprio non vi capiamo. Abbiamo grande rispetto per voi e per il documento diffuso qualche giorno fa. Per questo, avendolo letto con attenzione, abbiamo deciso di dedicare uno spicchio del nostro 25 aprile a scrivervi. Siete tutti accademici accreditati, molti di voi hanno ricoperto alti incarichi istituzionali. Essendo però come noi, prima di tutto, dei ricercatori, di sicuro considererete normali il contraddittorio e le confutazioni. Avendo deciso di agire in gruppo per una iniziativa politica troverete anche ovvio che essa sia oggetto di un giudizio pubblico appassionato.
Alcuni tra voi 56 sono membri di un club di cauti riformatori a cui ci siamo sempre ispirati, che però non hanno trovato nel loro tempo la finestra di opportunità per riformare. Altri sono convinti da sempre che la Costituzione sia intoccabile, che fuori dal sistema proporzionale non c’è democrazia, come un tempo fuori dalla Chiesa non c’era salvezza, e che in ultima istanza sulle cose veramente importanti, piuttosto che la politica, sia meglio che decidano istituzioni di sapienti, di nobili coltivati da colte letture, messi al riparo dalla becera necessità di conquistare il consenso e governare giorno per giorno gli interessi in conflitto.
Ci scuserete se abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità – tre nel solo 2011 – su cui si è soffermato Sabino Cassese nel suo istruttivo Dentro la Corte (Il Mulino, 2015) e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di supersaggi, l’età media supera gli 81 anni. Siete tutti invidiabilmente lucidi. Non è questo il punto che vogliamo sollevare. Né noi due siamo particolarmente giovani, a dirla tutta. Ci pare però significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare. A maggior ragione ci pare stonato il messaggio di fondo che proponete, di fronte a un Paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere. Il messaggio suona più o meno così: “noi che deteniamo le massime conoscenze teoretiche sull’oggetto, noi che siamo la quintessenza della saggezza, noi che siamo l’empireo dei Professori ci siamo riuniti in concilio, abbiamo attentamente soppesato i pro e i contro della riforma costituzionale, e abbiamo deciso di dire NO. E poi No.” A pensar male, il primo sottinteso pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-ilplebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa i tecnici e ancora di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un Concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia (come se poi non fossero bastati tutti i precedenti, dalla Bicamerale Bozzi del 1982 alla Commissione dei Saggi del 2013).
Ma veniamo al merito. Il vostro documento, forse per la combinazione di idee tanto diverse, per quanto accomunate dallo status, presenta a nostro parere una serie di contraddizioni evidenti proprio sui punti politicamente più rilevanti.
La prima è che alcuni di voi, nel giro di poche settimane, hanno dovuto sotterrare la bomba-bufala della “svolta autoritaria” e hanno imbracciato lo spadino-di-cartoncino del diavolo che si annida nei dettagli. Il prof. Gustavo Zagrebelsky, in un documento del 31 marzo 2014 intitolato proprio in quel modo, sosteneva che «stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione […] per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali». E in un altro del 6 marzo 2016  parlava della riforma come “la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica”. Il documento dei 56 di cui Zagrebelsky è cofirmatario pone invece questioni minori sulla ripartizione dei poteri tra senato e camera o tra stato e regioni, da cui solo con molta fantasia e una sviluppata propensione alle teorie del complotto si possono far discendere i pericoli di cui sopra.
Avreste voluto un Senato con maggiori poteri, ma allo stesso tempo un processo legislativo più semplice. Uno studente del primo anno verrebbe inchiodato di fronte alla banalità della contraddizione. Per dare più rilevanza al Senato bisognerebbe stabilire in quali altre materie ha maggiori poteri, chi ha la prerogativa di smembrare i progetti di legge che le contengono, con quali procedure e quali maggioranze il senato le esamina o le approva. Il sistema proposto dalla Boschi-Renzi è comunque semplicissimo. Ha solo due procedimenti, pienamente bicamerale per norme ordinamentali e di rango costituzionale, a prevalenza della Camera per il resto. E in ogni caso, per evitare in radice le incertezze e i conflitti di cui vi state preoccupando ci sono solo due strade: il monocameralismo o il bicameralismo perfettamente paritario.
Avreste preferito inoltre che in Italia fosse trapiantato il Bundesrat tedesco. Non lo dite apertamente, ma lamentate che nel Senato voluto dalla riforma “non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche”. Ora, l’unico senso che si può dare a questa frase è: “sarebbe stato molto meglio un Senato composto solo dai Presidenti delle Regioni e da loro delegati, come in Germania”. A meno che non pensiate ad un Senato di supersaggi, scelti non si sa come, capaci di rappresentare meglio dei Presidenti, eletti dai cittadini, le Regioni “in quanto tali” e non “in base ad appartenenze politico-partitiche”. Ci chiediamo che cosa avrebbe scritto del Bundesrtat italiano, cioè di un Senato più forte, che sarebbe composto oggi all’80% da Presidenti del Pd-di-Renzi, il prof. Zagrebelsky sul Fatto Quotidiano…
Sembrate considerare una mera eventualità il fatto che il referendum riguardi l’intera legge approvata dal Parlamento, mentre proponete una votazione per parti, mettendo in dubbio quanto scrive a chiare lettere la Costituzione ed è già stato fatto nel 2006. Ci chiediamo sommessamente: quale magistrato della Cassazione o della Corte costituzionale avrebbe il potere di preparare lo spezzatino? Come è possibile che poniate un problema del genere? Sollecitate forse un rimpallo tra Cassazione e Corte costituzionale per rinviare? Ne avete già discusso con qualcuno che siede in quelle istituzioni?
Ma ancora di più ci stupisce, o forse no, quello che nel documento manca.
Non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni, e la necessità oggettiva di dare meditati segnali di sobrietà. Evidentemente per voi i costi della politica non sono un grosso problema e comunque sono altrove. Avreste voluto un altro Cnel al posto del Cnel. E sempre secondo voi non è così importante ridurre il numero dei parlamentari. Decostituzionalizzare le province (che non vuol dire abolire per forza e dappertutto un ente di area vasta, come voi scrivete) non va bene.
Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei. Nessun accenno al fatto che senza l’entrata in vigore della riforma costituzionale e dell’Italicum entro il 2016, cioè almeno 18 mesi prima della scadenza naturale della XVII legislatura, i successivi governi sarebbero destinati a dibattersi tra instabilità e inconcludenza, e il parlamento tornerebbe a essere un suq. Anche a causa di quei giudici della Corte costituzionale che con la sentenza numero 1 del 2014 hanno reintrodotto di loro pugno, contraddicendo la volontà ripetutamente espressa con chiarezza dai cittadini italiani e dal parlamento, un sistema elettorale proporzionale, simile a quello della Prima Repubblica.
Nel documento nemmeno si intravede il fosso in cui Paese si sarebbe piantato senza l’impuntatura a schiena dritta del canuto-Re-Giorgio e il testimone preso dal giovane-Renzi-il-plebeo. Come se voi non sapeste che solo la determinazione congiunta del ragazzo che sta a Palazzo Chigi e dell’anziano ex-inquilino del Quirinale ha potuto rompere le fortissime resistenze sotterranee che hanno impedito per trent’anni di fare quanto Costantino Mortati considerava ovvio già nel 1972, e cioè trasformare il senato in una sede di rappresentanza degli enti territoriali. Perso questo treno, difficilmente ne passerà a breve un altro.
Noi, contrariamente a voi, siamo molto preoccupati per questa eventualità, non per il governo Renzi, ma per chiunque dovrà governare e vivere in Italia dopo. E siamo anche consapevoli, nel nostro piccolo, che le riforme ottime non esistono, come insegnano i buoni manuali di diritto pubblico e di politica comparata, che tutte sono perfettibili e che farle con un governo di compromesso uscito fuori per miracolo da una situazione di completa paralisi non era un’operazione semplice. E quindi diciamo SI. E poi Sì.

martedì 26 aprile 2016

L'”arco nero” che va da Philadelphia a via Bellerio. Ma il Trump italiano annaspa


Mario Lavia
L'Unità 26 aprile 2016
Salvini “benedetto” dal candidato repubblicano alla Casa Bianca ma ha i suoi guai in Italia
E così Donald Trump ha posato la spada sulla spalla di Matteo Salvini con tanto di auspicio (“Diventerai premier in Italia”), una benedizione che da questo momento diventa croce e delizia per l’uomo con la felpa: delizia, perché che un aspirante alla Casa Bianca ti glorifichi non è cosa da tutti; ma anche croce, perché è indubitabile che il capo della Lega ora sia ufficialmente il punto di riferimento italiano dell'”arco nero” che va da Trump a Marine Le Pen a Viktor Orban sotto lo sguardo compiaciuto di Vladimir Putin: passando, appunto, da via Bellerio.
Salvini , il capo di una destra che non ha grande dimestichezza con i principi liberal-democratici ai quali preferisce istintivamente quelli anti-egualitari, anti-solidaristici, anti-europei, anti-immigrati, è dunque l’uomo su cui punta questa specie di Internazionale reazionaria. D’altra parte, è il leader di una formazione politica che dopo la crisi del bossismo ha abbandonato le idee del federalismo per raccogliere l’umor nero che circola con insistenza nel nostro Paese.
L’improvvisa mossa “americana” di Salvini ha perciò un forte valore simbolico perché lo accredita come il Trump milanese – odio per gli stranieri e armi per tutti – in sintonia con il peggiore sciovinismo del Front National e persino con il nuovo fascismo di Orban e Hofer, e attratto, non a caso, non solo dall’autocrate Putin ma perfino dal pazzo che governa la Corea del Nord.
La sua opa sul centrodestra italiano in un certo senso ora è più robusta e dunque più insidiosa: per Giorgia Meloni, che a Roma rischia di finire male, anche perché se la destra perde perde lei, non lui: a conferma del fatto, come notava ieri Gianfranco Fini, che di destra se ne intende, che Fratelli d’Italia è una copia della Lega: e – diciamo noi – fra la copia e l’originale la gente di solito sceglie l’originale.
Ma a Salvini non mancano gli ostacoli. I fatti dicono che non tocca palla nella sua Milano, dove c’è un centrodestra non guidato dai leghisti che compete per palazzo Marino; e che a Roma c’è un certo Silvio Berlusconi che sta mostrando (per ragioni politiche e personali insieme, come sempre) di tenere una barra “moderata”, ostacolando la vittoria della Meloni e comunque contrastando la deriva della destra nelle mani dei lepenisti in salsa italica.
I sondaggi, poi, lo vedono annaspare sotto il 15%, un po’ poco per aspirare a fare il premier (va spiegato a Trump) e soprattutto surclassato dal M5S, partito della rabbia per eccellenza. Lo spazio vero insomma è stretto, per il rappresentante italiano dell’ “arco nero”, malgrado la benedizione americana.

domenica 24 aprile 2016

Davigo smentito dall’intera magistratura italiana. Ma il Fatto nasconde la notizia


Fabrizio Rondolino
L'Unità 23 aprile 2016
Vorremmo ricordare agli amici del Fatto che l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm
Oggi dobbiamo essere delicati e caritatevoli nel rivolgerci a Marco Travaglio: per lui è un giorno di particolare sofferenza. Il brillante Piercamillo Davigo è stato smentito, criticato, isolato e costretto ad un’imbarazzante smentita dall’intera magistratura italiana. E, come se non bastasse, non per l’autointervista di giovedì al Fatto firmata dal suo segretario Travaglio, che nessuno s’è filato, ma per quella di venerdì al Corriere firmata da un giornalista vero, Aldo Cazzullo. Insomma, un completo disastro.
Per rimediare, che c’è di meglio di una sistematica falsificazione dei fatti? Così, in prima pagina il giornale di Travaglio e Davigo titola bellicoso: “Il re è nudo: il leader Anm ricorda che i politici rubano ancora. Legnini e i renziani contro Davigo”. Giovanni Legnini, vorremmo ricordare agli amici del Fatto, non è un passante intervistato per strada, ma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, e le sue dichiarazioni (le parole di Davigo “rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno”) sono state concordate con il Capo dello Stato, nonché presidente del Csm. La notizia, dunque, è un’altra e ben più forte: l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm.
Quanto ai “renziani” additati al pubblico ludibrio nel titolo di prima pagina, fatichiamo a individuarne i nomi. È forse renziano Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano? (“Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi: vederla così è in linea di principio sbagliato. È essenziale è che l’Anm non esca dal suo ruolo. Non ci siamo quando si dice o si fa capire che può essere la magistratura a risolvere questioni di costume o di etica pubblica”). O è renziano Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione? (“Non si rivolve tutto con le manette. Anche la magistratura ha le sue colpe. Dire che tutto è corruzione significa dire che nulla è corruzione”). O magari è renziano Nicola Gratteri, neoprocuratore di Catanzaro? (“Se si dice che sono tutti ladri, facciamo il gioco dei ladri”). Oppure il renziano è Luca Palamara, ex presidente dell’Anm? (“Le generalizzazioni non mi piacciono”).
La Caporetto dei giustizialisti non poteva essere più clamorosa. Ai lettori del Fatto la notizia purtroppo è stata nascosta: ma è anche vero che sono sempre di meno.

sabato 23 aprile 2016

SONO TORNATI I "PROFESSORI"


Sandro Albini
leggo, sul "Corriere" di oggi, la notizia di un documento, sottoscritto da 56 costituzionalisti "di peso", i quali contestano i principali punti della riforma Boschi fornendo argomenti al fronte del no. L'autorevolezza dei firmatari è tale da conferire credibilità a tesi che invece non ne meritano. Non ho letto il documento, mi rifaccio quindi al testo dell'articolo. 1. Ne è uscito un Senato indebolito: ma non era quello l'obiettivo della riforma? Configurare il Senato come "Camera delle Regioni" togliendogli la duplicazione delle funzioni della Camera. Poi magari il testo avrebbe potuto essere migliore, ma a volte l'ottimo è nemico del buono. 2. Si ridimensiona il ruolo legislativo delle Regioni: ma in questi ultimi 30 anni non abbiamo criticato tutti la deriva per cui in Italia ci sono 20 servizi sanitari differenti, una pletora di provvedimenti applicativi regionali degli indirizzi nazionali con la nascita di modelli diversi in tutti i campi dell'agire amministrativo? Con conflitti infiniti dovuti alla legislazione concorrente sulle stesse materie? 3. Si vogliono ridurre i costi diminuendo il numero delle cariche pubbliche, denunciano i professori. Ma non è così che si deve fare dato che ogni carica pubblica diventa necessariamente un centro di spesa? Infine la valutazione politica: è una riforma fatta a maggioranza mentre c'era bisogno di un consenso più ampio. Ma se il procedimento è partito con il 70% di consensi delle forze in Parlamento e poi una parte si è sfilata per ragioni che non hanno nulla a che vedere con il merito della riforma, cosa doveva fare il Governo? Si capisce, alla fine, qual'è il vero obiettivo dei firmatari: mandiamo tutto a monte e andiamo avanti alla vecchia. Dopo che per decenni i "professori" hanno criticato la normativa attuale proponendo soluzioni simili a quelle adottate. Perché? Poi ho capito: siccome il Governo non si è rivolto a loro, unica fonte legittimata a parlare di Costituzione, qualsiasi cosa si faccia non è da fare. Mi ricorda una vicenda personale: quando esattamente 20 anni fa la Giunta Regionale Lombarda approvò il testo della radicale riforma sanitaria della Lombardia (scritta da me, e da un collega, allora responsabile della programmazione sanitaria) la Bocconi diffuse un libello attaccando la proposta, salvo, quando divenne legge regionale n. 31/97 tentare di metterci il cappello (non furono gli unici). Tradotto: qualsiasi cosa venga fatta saltando il corpo accademico (sostanzialmente il vero potere forte in tutti gli ambiti) è per principio sbagliata e va combattuta. Poi delle conseguenze, chi se ne frega, lor signori il loro scranno con relative prebende non glielo toglie nessuno.

martedì 19 aprile 2016

Gli sconfitti che si nascondono


Mario Lavia

L'Unità 19 aprile 2016
Il giorno dopo da parte di chi ha scambiato il referendum come occasione di sferrare un ko al governo ci si aspetta qualche riflessione. E invece niente
Il giorno dopo, ti aspetteresti qualche autocritica o – più dolcemente – qualche riflessione. Invece è rimasto sulla scena solo Michele Emiliano, oltre ogni ragionevole dubbio impavido a rivendicare una performance solo per lui “straordinariamente positiva”, provando a fare un mesto gioco delle tre carte (“Prima del voto avevamo già vinto 5 a 0”: ma che vuol dire?).
Però a Emiliano in qualche modo va dato atto di saper tenere alta la sua bandierina, anche se lacerata dal vento delle astensioni, a differenza di tutti gli altri compagni di cordata, uno dopo l’altro repentinamente spariti, chi con una scusa chi con un’altra come alle feste piene di gente antipatica. Una sfilza di io non c’ero e se c’ero dormivo, vero Salvini? Dove l’hai messa la maglietta con “Io voto”? E lei, gentile Brunetta, dov’è finito con i suoi amici o ex amici di Forza Italia e di Fratelli d’Italia (eh già, dov’è Giorgia Meloni, sempre combattiva tranne quando si perde). E soprattutto, dove è Grillo e dove sono i grillini?
Quelli che avevano scambiato il referendum per una specie di Ok Korral dove far sparire il governo. Dove sono il Dibba e la Lombardi che sui social evocava il povero Borsellino per motivare al voto? E dov’è il potenziale ma già bocciato premier Di Maio? Ecco dov’era ieri mattina: a teorizzare che il referendum in fondo non era roba loro ma un episodio della “guerra per bande” interna al Pd, insomma chi se ne importa se non siamo riusciti a convincere nemmeno i nostri cari e i nostri elettori ad andare a votare, l’importante è gettare vangate di contumelie sul Pd, sui suoi dirigenti, sui suoi militanti, intossicando social e talk – e bisognerà che le persone serie si adoperino per riportare un minimo di civiltà politica in ogni ambito, compresi talk e social, perché questa isteria non fa bene a nessuno, tantomeno al Paese.
E questi qui vorrebbero governare l’Italia muovendo guerra (a parole o parolacce) contro tutti quelli che non la pensano come loro? Politici che fuggono dinanzi alle difficoltà, alle proprie sconfitte, ai propri errori, quanto è affidabile? E purtroppo qui il discorso vira anche sulla sinistra più a sinistra. Quella esterna al Pd e quella interna. C’è proprio da usarla, l’espressione “purtroppo”.
Già: purtroppo a questa sinistra sta clamorosamente venendo meno l’abc di una grande storia politica, rifiutandosi di aprire una riflessione vera su quel che accade fuori di sé, sulle ragioni per le quali non riescono a persuadere una parte rilevante del popolo italiano, sul perché a fronte di tante critiche e denunce all’indirizzo di Renzi non riescano a crescere né politicamente né organizzativamente.
Ma è destino che tutto ciò che nasce a sinistra debba sempre rifluire nel settarismo e nell’autoreferenzialità? Che non ci sia mai un granello di autocritica? Spiace ricordarlo, ma quando nel 1978 il Partito comunista italiano perse le amministrative di Castellammare di Stabia (non di Milano o Roma: di Castellammare di Stabia) tenne una riunione della segreteria e poi della direzione per discuterne. Questi di oggi stra-perdono un referendum e sono contenti, o al massimo danno la colpa del proprio insuccesso agli altri.
E sulla sinistra Pd il problema resta quello, mai risolto compiutamente, del senso di una battaglia politica che ormai viene condotta in permanenza pur senza vincere mai, senza allargare mai il proprio perimetro. Sia chiaro: il giorno dopo un risultato così chiaro pensavamo di non polemizzare con nessuno. La campagna elettorale è finita, i cittadini non hanno seguito i referendari bensì l’indicazione di Renzi ad astenersi. Stop alle discussioni, è un altro giorno. Poi, però, vedi la voglia di rivincita, le bocche che schiumano rabbia, la tensione che non si allenta, la caccia alla prossima imboscata. Lezioni da trarre per loro dalla sonora sconfitta? Nessuna. Ecco, questa è cattiva politica.

lunedì 18 aprile 2016

Non ha vinto Renzi, hanno perso gli antirenziani


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 aprile 2016
Politicizzare il referendum contro il premier è stato un errore clamoroso
Un buon modo per prepararsi alla prossima battaglia, dopo averne perduta una, è ammettere la sconfitta, far tesoro dell’accaduto e provare a correggere gli errori commessi: non a caso fra i discorsi di Renzi che più sono piaciuti (anche ai suoi avversari) c’è quello con cui, quasi quattro anni fa, accettò senza infingimenti e senza alibi la sconfitta alle primarie che scelsero Bersani come candidato premier del centrosinistra.
Fingere di aver vinto – come da ieri sera va urlando in giro Michele Emiliano – non è soltanto un’offesa all’intelligenza degli elettori e dell’opinione pubblica: è un errore politico. Così come è un errore fabbricarsi un alibi e nascondervisi dietro, incolpando gli altri anziché riflettere sulle proprie manchevolezze. Se si perde soltanto per colpa degli altri, vorrei dire a Travaglio e agli altri sconfitti di domenica, non si potrà mai vincere: se invece la sconfitta è anche una mia responsabilità, correggendomi ho la possibilità di rovesciare in futuro il risultato.
“Davide e Golia” è il titolo dell’editoriale con cui il direttore del Fatto assolve gli sconfitti e accusa i vincitori. La tesi è rozza, forse perché né Travaglio né altri perdenti seriali hanno troppa stima dei propri (e)lettori, e si può riassumere così: abbiamo perso perché contro di noi s’è scatenato l’universo mondo e perché i cattivi sono sempre più forti.
A favore della partecipazione al referendum, oltre al Fatto, si sono schierati tutti i partiti presenti in Parlamento, tutti i partiti non presenti in Parlamento, la minoranza del Pd, i presidenti del Senato, della Camera e della Corte costituzionale, i conduttori di tutti i talk show, la magistratura militante, il sindacato, tutti i quotidiani d’opinione. Dall’altra parte c’era Renzi. Il quale sarà anche Superman – Travaglio ha un debole per gli uomini forti, oltreché per le belle donne – ma di sicuro sul referendum di domenica non ha avuto l’aiuto né l’appoggio di nessuno.
Negli ultimi vent’anni ci sono stati 28 referendum in sette tornate. La media dei votanti è stata del 34,4%. Domenica è successo esattamente quello che è successo negli ultimi vent’anni: è così difficile da capire? L’errore dei mujaheddin antirenziani è stato quello di politicizzare contro Renzi un referendum che tutti sapevano del tutto inutile. Non ha vinto Renzi: avete perso voi.

Così l’Armata è andata a sbattere


Fabrizio Rondolino
L'Unità 18 aprile 2016
Poteva essere un tranquillo referendum di primavera e invece…
Poteva essere un tranquillo referendum di primavera, uno di quelli che non interessano a nessuno, uno spettacolino inscenato in gran fretta da qualche ambientalista apocalittico e dalla Grillo e Casaleggio Associati srl in cambio di un po’ di visibilità: e invece l’hanno trasformato nell’ennesima battaglia finale tutti-contro-Renzi.
Poteva andare a finire come al solito – negli ultimi vent’anni, 24 referendum su 28 non hanno raggiunto il quorum – senza danni per nessuno né effetti collaterali (giusto un’esecrabile spreco di denaro pubblico e l’ennesima picconata ad un istituto in crisi dagli anni Novanta): e invece ne hanno fatto una vittoria politica di Renzi, tanto più grandiosa e destinata a pesare perché si consuma quando tutti gli indicatori – media, sondaggi, Bar Sport televisivi – lo davano per debole, isolato, persino prossimo alla caduta.
Chi sono gli autori di questo capolavoro politico? Chi sono i geni che hanno saputo ridare ossigeno, smalto e consenso popolare ad un governo e ad un leader che essi stessi giudicavano già spacciati? L’Armata Brancaleone degli anti-renziani è, sulla carta, uno schieramento capace di far impallidire gli anni gloriosi dell’antiberlusconismo militante. In ordine sparso, e per limitarsi ai più rappresentativi, ne fanno parte la sinistra radicale e la destra radicale, la Lega e il Movimento 5 stelle, quel che resta di Forza Italia e la minoranza del Pd, i più autorevoli editorialisti e tutti i conduttori dei talk show, la burocrazia sindacale e la magistratura militante, i salotti e i tinelli, la caste e le castine.
Sulla carta, però: perché nel Paese reale, fra le decine di milioni di italiani che non guardano i talk show né tantomeno comprano un giornale, ma lavorano e studiano e vogliono una vita normale, l’Armata Brancaleone dei conservatori e dei garantiti non è altro che una minoranza rumorosa e rancorosa. Intendiamoci: i milioni di italiani che sono andati diligentemente a votare meritano almeno lo stesso rispetto di quelli che si sono astenuti (e che pure sono stati addirittura accusati di tradire il patto di cittadinanza). Ognuno si comporta come crede, e ha sempre le sue buone ragioni.
Ma l’Armata Brancaleone che s’è intestata la battaglia referendaria, e che ieri sera ha assaporato il sapore amarissimo della sconfitta, qualche riflessione dovrebbe pur farla. La politicizzazione di un referendum palesemente inutile è scattata quando il Pd – non Renzi, non il governo – ha formalizzato la propria scelta a favore dell’astensione.
E’ insorta la minoranza del partito, è insorto il governatore Emiliano – che, sbagliando, ha cavalcato il referendum per presentarsi come leader alternativo a Renzi –, sono insorti i grillini, è insorto il Fatto. Se il Pd sceglie l’astensione, devono essersi detti, vuol dire che Renzi ha paura del referendum: ma noi siamo furbi, l’abbiamo capito e adesso spieghiamo agli italiani che bisogna andare a votare sulla chiusura anticipata di una manciata di piattaforme che non hanno mai avuto problemi perché così si dà una bella lezione a Renzi. Da qui la scelta di spostare l’attenzione sul premier, di trasformare il referendum nell’antipasto di quello di ottobre, di personalizzare e politicizzare lo scontro.
Renzi, che è pieno di difetti ma non è stupido, ha colto la palla al balzo, è stato perfettamente al gioco, ha accettato la sfida con baldanzoso entusiasmo, e ha sfruttato, più che la propria, la forza degli avversari per conquistare la vittoria. La scelta dell’astensione non era né una sfida né tantomeno il segno di una paura: era semplice buonsenso. L’Armata Brancaleone ne ha fatto un casus belli, s’è inventata un nemico che non c’era sperando così di ingrossare i consensi, ed è andata clamorosamente a sbattere.
Ora diranno che comunque il risultato è stato buono, che i votanti sono stati comunque più numerosi che nel 2009, che comunque 10 milioni di italiani non seguono gli inviti di Renzi. Contenti loro, contenti tutti. Avversari così farebbero la gioia di chiunque, figuriamoci di un ragazzo impertinente come il nostro presidente del Consiglio.