domenica 4 gennaio 2015

«Pensione anticipata, rimborso a rate Convinceremo l’Europa che si può fare».

Corriere della Sera 04/01/15
corriere.it
Yoram Gutgeld, da consigliere economico del premier, cosa la colpisce della vicenda dei vigili di Roma?

«Prima di tutto non vorrei che si facesse di tutta l’erba un fascio: abbiamo una Pubblica amministrazione che numericamente non è superiore alla media europea e che è fatta soprattutto da gente che lavora bene».


Ma...

«Ma la vicenda romana di fatto ci ricorda che qualche problema nella gestione delle malattie nel pubblico impiego c’è se i certificati dal 2011 al 2013 sono aumentati del 27%. Tutto questo richiede una gestione più attenta anche nel rispetto dei cittadini».


Pensa che trasferire le competenze sui certificati dalle Asl all’Inps sia la cura?
«È un’idea che va valutata tenendo conto degli aspetti organizzativi ed economici. I soldi sarebbero sempre pubblici ma l’Inps ha dimostrato di saperli adoperare meglio. Potremmo risparmiarci qualcosa».


La vicenda dei vigili sarà usata come grimaldello per inasprire le regole sul rendimento nel pubblico impiego?

«È materia oggi oggetto di una legge delega che ha l’obiettivo di rendere la Pubblica amministrazione più efficiente».


Pensa che si possa estendere il semplice indennizzo anche ai licenziamenti disciplinari nella Pa? E con quale strumento?

«Non voglio scendere nello specifico. Auspico che la riforma porti a usare i soldi pubblici con un criterio diverso: quello del merito, cioè dare di più a chi fa meglio e viceversa».


I sindacati chiedono di intervenire sulla materia con contratto e non per decreto.

«L’esecutivo è aperto ai contributi di tutti ma le norme che fa il governo poi passano per il Parlamento».


È giusto intervenire sulla struttura della retribuzione variabile quando quella fissa, oggetto anch’essa di contrattazione, è bloccata da anni?
«Il momento economico è difficile, mi rendo conto. Ma è anche vero che chi lavora nella Pa ha mantenuto posti di lavoro che altri hanno perso».

 Intanto l’Istat prefigura per la prima volta una ripresa. 
«Gli elementi positivi ci sono. Alcuni sono esogeni: da un lato la riduzione del costo del petrolio che noi importiamo, dall’altro la debolezza dell’euro e il piano della Bce».

 
Quelli interni quali sono?

«Abbiamo ridotto il costo del lavoro del 70% per i neoassunti a tempo indeterminato, e con il Jobs Act daremo una spinta interna forte per assumere di più».


Non ci sono altre misure per sbloccare la crescita?

«Tutti sanno che c’è il tema europeo dello scorporo degli investimenti dal calcolo del deficit, soprattutto quando questi comportano interventi dei privati. E poi c’è il nostro tentativo di correggere il dato del Prodotto interno potenziale che, secondo dati Ocse, è maggiore di quanto stimato dalla Commissione europea, con il risultato che in realtà noi già oggi non saremmo in deficit».


Finora si è ottenuto poco.

«Che il piano Juncker, per quanto limitato, contempli che i contributi dei singoli Stati non vengano calcolati nel deficit è un primo passo. Ma c’è un altro tema che vorremmo porre all’attenzione dell’Ue».


Quale?

«Quello delle pensioni: la riforma ha messo sotto controllo il sistema, allo stesso modo in cui sono sotto controllo i costi della sanità. Tutto questo crea una dinamica di lungo termine della spesa pubblica migliore di quella di altri Paesi che però non ci viene riconosciuta. Questo perché il sistema di valutazione Ue guarda la contabilità anno per anno e non tiene conto dei risparmi di lungo termine».


Quindi?

«Quindi con il nostro sistema, che ormai è contributivo, se io pensiono anticipatamente un lavoratore con un trattamento inferiore a quello che gli spetterebbe, sto solo anticipando una spesa che recupererò dopo, con un rimborso a rate, non sto aumentando la spesa. Ma l’Ue guarda solo la spesa attuale».


State già discutendo di questo in sede europea?

«Lo faremo: anticipare la pensione sia pure con un trattamento inferiore a molti oggi potrebbe andar bene. Vogliamo renderlo possibile».


Farete un prelievo sulle pensioni più alte?

«Non è in agenda».


Finora la nostra dialettica con Merkel non è parsa diversa dalla solita contrapposizione flessibilità/austerità.

«Riconosciamo che Merkel ha un fronte interno che preme. Ma la discussione sulla flessibilità ormai è in corso e con tutte le riforme che porteremo a casa saremo sempre più credibili: sono ottimista».


Intanto a marzo ci attende un nuovo esame Ue sui conti pubblici. Teme che ci verrà chiesta una correzione?

«L’abbiamo già fatta nella legge di Stabilità. Se poi correggeremo l’ output saremo in surplus».


Dunque niente sfondamento del tetto del 3%?

«Faremo tutto entro le regole, ma vogliamo che cambino».


E se non cambiano?

«Con i “se” e i “ma” non si va da nessuna parte. Escludo scenari negativi».


Il caso Grecia e la paura di un fronte antieuro ci aiuta?

«Non serve guardare alla Grecia, è l’Europa che ha un evidente problema di crescita rispetto agli Usa, ad esempio».


Lo Stato entra nell’Ilva, cos’altro vuole ricomprarsi?

«Non c’è un ritorno allo statalismo ma solo un intervento straordinario per salvare un’azienda competitiva imbrigliata da questioni ambientali e giudiziarie. Anche gli Usa hanno aiutato le banche per un periodo di tempo limitato».


Parte la corsa al Quirinale. Tecnico, politico, outsider?

«Sul Quirinale c’è un metodo, un percorso tracciato: seguiremo quello».


Le spiace da economista che Mario Draghi si sia ritirato dalla corsa?

«Personalmente credo che al Quirinale non ci si possa né candidare né scandidare...».


In un giorno 393 assunzioni 
Quel rapporto del Tesoro su Roma.


Corriere della Sera 04/01/15
corriere.it
Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del 2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato: Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781 pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il 2007 e il 2010.

Il personale
Che nella gestione del personale il Comune di Roma non rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero qualcosa.

Il salario accessorio
A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011, nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna «aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece prende 100.

Le «progressioni»
Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al 2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche: effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato? Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico. Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da 45.640 a 88.707 euro l’anno procapite con una impennata del 94,3%. Premiando, per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato».

Gli incentivi
Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è meglio sorvolare.

NUOVI CONTRATTI 
E PROTEZIONE UNIVERSALE 
I LATI BUONI DEL JOBS ACT.


Corriere della Sera 03/01/15
corriere.it
In meno di un anno, il Jobs act è passato dal libro dei desideri alla Gazzetta Ufficiale. Lo scarno sommario di punti «formulato insieme ai ragazzi della segreteria» ( eNews di Matteo Renzi, 8 gennaio 2014) ha dato luogo ad un’ampia riforma, approvata con la legge delega dello scorso 10 dicembre. Il cammino è stato difficile e turbolento: aver tagliato il traguardo è un indubbio segnale positivo. Verso l’Europa, i mercati finanziari e gli investitori stranieri. Ma soprattutto verso l’interno. Il nostro mercato del lavoro può ora diventare più efficiente e più equo.

Come tutti i grandi cambiamenti, il Jobs act ha suscitato incertezza e qualche timore nell’opinione pubblica e dure critiche da parte sindacale. È perciò utile richiamare alcuni elementi di fatto di questa riforma e interrogarsi sui suoi probabili effetti.

Iniziamo col ripetere che per chi oggi ha un posto a tempo indeterminato non cambierà nulla. Il cosiddetto contratto a tutele crescenti (uno dei piatti forti della riforma) si applicherà solo ai nuovi rapporti di lavoro e offrirà a moltissimi precari, soprattutto giovani, la possibilità di assunzione in forma stabile. Non un posto fisso garantito, a prova di licenziamento. Ma un impiego senza scadenza pre-fissata, questo sì.

Rispetto alla situazione attuale, sarà un grande miglioramento. Con una prospettiva temporale lunga i giovani possono impostare piani di carriera e di vita che non sono neppure immaginabili quando si è costretti a ragionare di mese in mese.

La revisione degli ammortizzatori sociali (altro pilastro fondamentale della riforma) offrirà dal canto suo quella protezione universale contro la disoccupazione che l’Italia non ha mai avuto. È davvero strano che le dispute sul Jobs act in seno al Pd e ai sindacati abbiano trascurato questo aspetto, che dagli inizi del Novecento è stato al centro dei programmi e delle lotte politiche di tutte le sinistre europee. La Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego) corrisponderà a chi perde il lavoro una indennità pari a circa il 75 per cento dello stipendio per un massimo di 24 mesi. Verranno inoltre sperimentati due sussidi aggiuntivi: l’assegno di disoccupazione (Asdi) per quei lavoratori con carichi di famiglia e senza altre fonti di reddito che non sono ancora riusciti a ricollocarsi alla scadenza della Naspi; e un assegno (chiamato Dis-Coll) per i collaboratori a progetto che restano senza lavoro.

Quando saranno a regime, gli ammortizzatori sociali italiani diventeranno i più inclusivi e per molti aspetti i più avanzati d’Europa. Certo, serviranno risorse adeguate. Ma nel bilancio pubblico i margini ci sono, soprattutto se si riuscirà a riportare la Cassa integrazione alle sue funzioni «fisiologiche».

Per una valutazione completa del Jobs act bisogna ovviamente aspettare i decreti delegati mancanti. Occorre varare un codice semplificato del lavoro, che sfrondi l’attuale pletora di forme contrattuali (in particolare le «co-co-pro» fasulle). E serve al più presto un’Agenzia nazionale che coordini i servizi per l’impiego e la formazione professionale.

Ma veniamo ai possibili effetti del Jobs act. Crescerà l’occupazione? Questo è ciò che importa agli italiani. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha azzardato una stima: 800 mila posti di lavoro in tre anni. Se così accadesse, sarebbe un bel successo. Tutto dipenderà però dal comportamento delle imprese e, più in generale, dall’andamento dell’economia.

Superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le piccole aziende salteranno il fatidico «fossato» dei 15 dipendenti e ne assumeranno altri utilizzando il contratto a tutele crescenti? Con maggiore flessibilità e forti incentivi fiscali, le imprese medie e grandi smetteranno di delocalizzare e torneranno a creare posti di lavoro stabili in Italia? Arriveranno gli investitori stranieri? E, soprattutto, ripartiranno gli ordini e i consumi? Le risposte a queste cruciali domande non dipendono solo dall’azione di governo: si tratta in ultima analisi di scelte e comportamenti dei vari soggetti economici. Il Jobs act va perciò visto come una condizione necessaria, ma non sufficiente per superare la crisi e far crescere il lavoro.

Agli inizi di un nuovo anno, è giusto mostrare un po’ di ottimismo. Grazie al Jobs act, possiamo dire che il bicchiere delle riforme ha cominciato a riempirsi. Non aspettiamoci miracoli; piuttosto, come ha giustamente detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, «ciascuno faccia la sua parte al meglio». Se la legge delega verrà attuata in tutti i suoi tasselli, è lecito però sperare che nel 2015 l’assillo della disoccupazione allenti la sua morsa, soprattutto sui giovani e le fasce più fragili della nostra società. Con l’aria che tira, sarebbe una realizzazione non da poco.

Le tattiche dei due leader 
che non possono evitare l’intesa.


Corriere della Sera 03/01/15
Francesco Verderami
Tra Renzi e Berlusconi l’accordo è di fare l’accordo, e sul Quirinale per ora può bastare. Non c’è quindi bisogno di vedersi subito, tantomeno prima che Napolitano abbia formalizzato le dimissioni: è questione di galateo istituzionale ma anche di opportunità politica. Il patto del Nazareno regge e lo si vedrà fra una settimana, quando l’Italicum farà da stress test alla corsa per il Colle.
Il vero appuntamento tra il premier e il Cavaliere è fissato l’otto gennaio al «check point Charlie» del Senato sulla legge elettorale: l’accordo prevede che il leader del Pd ottenga l’approvazione della riforma prima del voto sul presidente della Repubblica, e che in cambio al capo di Forza Italia vengano garantite la norma sui capilista bloccati (con cui impedirebbe un’opa ostile nel suo partito) e la clausola di salvaguardia sull’entrata in vigore dell’Italicum (con cui si allungherebbe formalmente la legislatura almeno per altri due anni).

Qualsiasi modifica metterebbe a rischio il patto, ed è evidente che quanti si oppongono all’intesa di sistema tra Renzi e Berlusconi useranno Palazzo Madama come luogo per tendere l’agguato, consapevoli che gli effetti si ripercuoterebbero sulla partita per il Colle. Fino ad allora le sorti dei quirinabili saranno appese alle manovre dei leader di partito e dei loro avversari interni. Perché questo è il punto: lo stesso Parlamento che due anni fa bruciò ogni intesa prima di affidarsi ancora a Napolitano, oggi si ripresenta all’appuntamento maggiormente frammentato. E dunque, chi più riuscirà a tenere uniti i propri gruppi avrà la golden share all’atto decisivo.

È questa al momento la priorità del premier e del Cavaliere, sebbene i due già studino la tattica dell’altro. Berlusconi, per esempio, è convinto che «bisognerà lasciar fare Renzi», che «il nome vero uscirà all’ultimo momento». È un’opzione, che però si porta appresso dei rischi. Tuttavia le prime schermaglie consentono al presidente del Consiglio di capire su chi verrà posto il veto. Dicendo che non accetterà di votare «un candidato con la tessera del Pd», il Cavaliere sembra volersi realmente muovere d’intesa con i centristi.

«Dobbiamo fare asse insieme», ha spiegato l’altra sera l’ex premier a un dirigente di Ncd, ripetendo ciò che aveva detto alcune settimane fa ad Alfano. Sarebbe un’operazione «di blocco preventivo» rispetto ai quirinabili di stretto giro renziano, a quei ministri cioè che il leader democratico fa mostra di voler proporre: da Delrio alla Pinotti. Al tempo stesso sembrerebbe un segnale di apertura verso chi — come Veltroni e Mattarella — non è (più) dirigente del partito.

Ma siccome nessuno conosce meglio Berlusconi degli stessi berlusconiani (per quanto ex), sono pochi a volersi già ora esporre. Anzi, ieri il coordinatore di Ncd Quagliariello ha lanciato un messaggio pubblico double face: ha parlato a nuora Renzi, «sul Colle niente giochi», perché ascoltasse suocera Berlusconi. È stato un modo per accreditare le voci da tempo circolanti su un possibile accordo tra il Cavaliere e Prodi grazie agli uffici di Putin: l’intesa garantirebbe quella «pacificazione» a cui i dirigenti di Forza Italia mirano e che cela la richiesta della «riabilitazione» politica del loro leader.

Dal Pd sono arrivate autorevoli rassicurazioni, «non ci facciamo scegliere il presidente della Repubblica dal Cremlino», che sanno tanto di allergia verso il fondatore dell’Ulivo. Peraltro lo stesso capo di Forza Italia aveva pubblicamente smentito, dopo aver spiegato a un vecchio amico come Cicchitto che «a Prodi non ci penso proprio, figurarsi». Semmai, nei colloqui di queste ore, Berlusconi ribadisce in privato ciò che si era lasciato «sfuggire» in pubblico: «Io continuo a stare su Amato e aspetto che sia Renzi a propormi il suo nome». E se Renzi quel nome non lo proponesse, e se fosse anche questa una manovra diversiva? Ma soprattutto, chi avrà davvero la forza di opporre un veto al premier tra l’alleato di governo Alfano, che siede al suo fianco in Consiglio dei ministri, e l’alleato di opposizione Berlusconi, che ambisce ad essere kingmaker nella corsa per il Colle?

Di certo c’è che il premier intende chiudere un’era. Dagli albori della Seconda Repubblica, infatti, gli inquilini del Quirinale hanno giocato un ruolo diretto nelle vicende politiche: Scalfaro arrivò a porre il veto sulla squadra dei sottosegretari del governo Amato; Napolitano spaziò dalla lettera all’allora presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Vizzini, su alcuni emendamenti del lodo Alfano, fino alla telefonata con cui invitò Cuperlo ad accettare l’incarico di presidente del Pd. Che Renzi voglia cambiar verso è indubbio. Ma deve tenere in considerazione lo scrutinio segreto.

L’idea di tener coperto fino all’ultimo il nome del suo quirinabile può risultare pericolosa: tutti lo attendono al varco della quinta «chiama», quella decisiva. Se si andasse troppo oltre, il voto sulla presidenza della Repubblica si trasformerebbe in una lotteria, e quanti oggi si tirano ufficialmente fuori dalla corsa per il Colle potrebbero rientrarci sulle macerie del disegno renziano. Siccome il leader del Pd lo sa, allora può darsi che anche la sua tattica dilatoria sia solo tattica.




sabato 3 gennaio 2015

«Ci giochiamo il futuro in Europa»
Parte la corsa greca.


Corriere della Sera 31/12/14
Maria Serena Natale
«È in gioco il futuro della Grecia in Europa», il premier Antonis Samaras getta subito il guanto di sfida. Fallito l’accordo parlamentare sul nuovo presidente della Repubblica, parte la procedura costituzionale che impone lo scioglimento del Parlamento e la convocazione del voto anticipato. Via alla campagna elettorale.

Nell’incontro di rito con il capo dello Stato uscente Karolos Papoulias, Samaras ha ripetuto più volte la parola chiave intorno alla quale si giocherà la partita greca nelle prossime settimane, «responsabilità». «Il popolo non vuole le elezioni. Non sono necessarie, sono il risultato di interessi di parte — ha dichiarato il leader del partito conservatore Nuova Democrazia —. Quando si tratta della sicurezza e della stabilità del Paese, la battaglia è sulla verità e sulla responsabilità. Qui non sono i partiti a venire prima, ma la nazione».

Messaggio ad Alexis Tsipras, leader della coalizione della sinistra radicale Syriza, e ai suoi possibili alleati di governo. Con un vantaggio su Nuova Democrazia che varia fra i tre e i sei punti percentuali, secondo un sondaggio pubblicato ieri Syriza otterrebbe il 28% dei consensi, non abbastanza per governare e difendere in autonomia un programma che prevede lo stop alle politiche di rigore, la ristrutturazione del debito e la revisione degli accordi con la troika dei creditori internazionali (Ue, Bce e il Fondo monetario che ieri ha sospeso gli aiuti in attesa di sviluppi).

Se Syriza vincesse ma non riuscisse a formare una coalizione, si tornerebbe al voto, come già accaduto nel 2012. In prima linea tra i partiti che potrebbero sostenere Tsipras c’è «To Potami», la formazione di centro-sinistra fondata lo scorso febbraio dal giornalista anti-corruzione Stavros Theodorakis, accreditata di un 6% che ne farebbe la terza forza e guardata con interesse dagli elettori delusi dalla socialdemocrazia allo sbando di Pasok — l’ex leader George Papandreou, figura storica della sinistra ellenica, sta per lanciare un nuovo movimento. Uno scenario d’incertezza e forte polarizzazione che penalizza i piccoli partiti.

Cancellerie e mercati tendono a circoscrivere la turbolenza, allontanando lo spettro di un’uscita della Grecia dall’euro ed escludendo possibilità di contagio in forza dei progressi compiuti da Atene negli ultimi anni. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha ribadito che «non ci sono alternative» alla prosecuzione delle riforme richieste dalla troika per chiudere il programma di salvataggio. Si vota il 25 gennaio.




Pagelle agli statali, il piano per sbloccare
le norme di Brunetta.


Corriere della Sera 31/12/14
Antonella Baccaro
«Rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici». Sta sotto l’apparente neutralità di questa frase, contenuta nell’articolo 13 del disegno di legge delega sulla Pubblica amministrazione, approvato a luglio e arenatosi al Senato, il veicolo per introdurre criteri più stringenti di licenziamento nella P.a. Criteri che Matteo Renzi ha invocato nella conferenza stampa di fine anno, dopo le polemiche sorte circa l’opportunità di estendere il Jobs Act ai lavoratori pubblici, indicando proprio in tale delega lo strumento più idoneo da utilizzare per raggiungere lo scopo.

Ma di che licenziamento si sta parlando? La questione è stata già sviscerata durante il governo Monti, quando si aprì un dibattito sull’estendibilità delle nuove norme sul licenziamento economico, introdotte dalla legge Fornero, al pubblico impiego. Era il 2012 e anche allora la querelle produsse uno scontro nel governo tra il ministro Fornero, favorevole all’estensione delle nuove norme e il collega della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, contrario. Fu questi a riepilogare lo stato della disciplina dei dipendenti pubblici, che è rimasta la stessa, non essendo stata cambiata né da Monti né da Letta.

1) il licenziamento per motivi discriminatori è lo stesso sia nel pubblico che nel privato.

2) il licenziamento per motivi economici ha nel pubblico una disciplina ad hoc sugli esodi collettivi con una procedura che porta alla mobilità dei lavoratori presso altre amministrazioni e alla eventuale collocazione in disponibilità con trattamento economico pari all’80% dell’ultimo stipendio per due annualità. Questa norma, che esisteva già nel 2012, è stata resa più stringente dal decreto P.a., diventato legge a agosto, che ha aggiunto il principio in base al quale gli statali possono essere trasferiti in sedi della stessa o di un’altra amministrazione, collocate nel territorio dello stesso Comune o a distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede in cui lavorano senza previe motivazioni. Nel caso si rifiutino possono essere messi in disponibilità, stessa cosa se rifiutano il demansionamento, anch’esso introdotto dal decreto. Per rendere applicabili queste due novità mancano però le norme attuative.

3) il licenziamento per motivi disciplinari, oggetto di battaglia durante il governo Monti, torna centrale in questi giorni. Oggi vige ancora il sistema introdotto nel 2009 dal ministro del governo Berlusconi, Renato Brunetta, che introdusse un sistema di valutazione dei dipendenti da parte dei dirigenti: chi per un biennio viene giudicato scarsamente produttivo può essere licenziato. Durante il governo Monti si ipotizzò di applicare la legge Fornero prevedendo che in caso tale licenziamento risultasse illegittimo ci sarebbe stato solo l’indennizzo e non il reintegro. Fu Patroni Griffi a escluderlo, sostenendo che l’indennizzo sarebbe andato a gravare sulla collettività e avrebbe comportato la responsabilità erariale del dirigente, scoraggiando tali licenziamenti. Il dibattito si arenò dopo un primo accordo con i sindacati, ma oggi torna attuale.

L’intenzione di Renzi è rendere più stringenti le norme di Brunetta, finora disapplicate in mancanza di rinnovi contrattuali che ne specificassero l’applicazione. L’occasione è offerta dall’articolo 13 della delega che, tra le altre cose, intende intervenire sulla «rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici», insomma sulla loro valutazione. Sul cammino delle buone intenzioni si frappone però un macigno: in quella stessa delega è contenuto un meccanismo micidiale: il licenziamento dei dirigenti pubblici che per due anni consecutivi non ricevano alcun incarico. Finora è stata questa la norma-tabù che ha relegato la riforma allo stallo. Febbraio sarà il mese decisivo?




Il caso Napoli e il pasticcio delle primarie.


Corriere della Sera 31/12/14
corriere.it
Il caso è a Napoli ma il tema è generale: le primarie per il Pd stanno diventando un problema. Ieri la direzione campana del partito ha deciso un ulteriore rinvio: si doveva votare il 14 dicembre, poi l’11 gennaio, adesso il 1° febbraio. Un balletto imbarazzante. E chissà, a questo punto, se le urne si apriranno davvero. A Roma infatti non sono per niente convinti, per usare un eufemismo, dei tre candidati finora in lizza: il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca (sotto processo per abuso d’ufficio), Andrea Cozzolino (che nel 2011 vinse a Napoli primarie poi annullate per irregolarità) e la senatrice Angelica Saggese.
Ai vertici preferirebbero di gran lunga un unico nome (magari l’ex capogruppo di Sel approdato al Pd Gennaro Migliore) per evitare l’ennesima battaglia interna con il rischio, visti i precedenti, di accuse e contestazioni. Ieri a Napoli (quasi 300 persone in sala e clima «frizzante») la più applaudita è stata la segretaria regionale Assunta Tartaglione quando ha detto: «Decidiamo noi, non a Roma». Insomma, la Campania per Renzi è una grana e non a caso il vicesegretario Lorenzo Guerini ha preferito non presenziare alla riunione sperando che il rinvio a febbraio porti consiglio.
 Restano invece fissate all’11 gennaio le primarie in Liguria. I candidati stanno litigando su tutto, anche sull’ubicazione dei seggi. Ma i sospetti più velenosi riguardano la partecipazione indiretta alla competizione di ex del centrodestra (in particolare dell’ex senatore pdl Franco Orsi, aperto sostenitore di Raffaella Paita, la rivale più accreditata di Sergio Cofferati). 
Che si tratti quindi del rischio-brogli o del timore che al voto partecipino anche gli elettori del centrodestra, le primarie non sembrano più solo quella «risorsa democratica» celebrata in tante occasioni dai leader del centrosinistra. A settembre in Emilia-Romagna erano state un fiasco di partecipazione, anticipando per molti aspetti il grande flop dei votanti alle elezioni «vere». E poi sullo strumento aleggia anche lo «spettro» di Mafia Capitale. Nei giorni caldi dell’inchiesta il presidente del partito Matteo Orfini (nominato anche commissario del Pd romano) aveva detto: «Con la selezione della classe dirigente dall’esterno, con le primarie o le preferenze, il controllo delle infiltrazioni è molto complicato».