Pierluigi Castagnetti - Lettera al direttore di Avvenire
18 gennaio 2019
Caro direttore, il disorientamento dei
tempi che viviamo, assieme alla consapevolezza che la politica debba
riallacciare un rapporto nuovo con i cittadini, sta riportando nel
dibattito culturale e politico il tema del popolarismo. Popolarismo
versus populismo. Spesso lo si fa giocando sui nomi, a volte anche
senza una precisa consapevolezza delle differenze. C’è l’occasione
concreta della celebrazione, il 18 gennaio, del centenario
dell’«Appello ai Liberi e Forti» che segnò la nascita del
Partito Popolare Italiano, a opera di un gruppo di cattolici
coraggiosi e intelligenti guidati da don Luigi Sturzo, che può
aiutarci. Sia chiaro, non credo che oggi si possa riproporre sic et
simpliciter la stessa operazione, essendo assai diverse le condizioni
storiche, anche se vi sono alcuni insegnamenti preziosi che si
possono trarre da un’iniziativa politica che non a caso alcuni
osservatori, anche avversari politici, definirono sin da subito come
«la più rilevante novità» della politica italiana all’inizio
del Novecento: alludo ai giudizi di Gramsci, Salvemini, Turati, senza
dire di quelli di importanti studiosi a partire da Federico Chabod
sino a Emilio Gentile, ancora pochi giorni fa.
Perché fu un’iniziativa politica
importante? Perché delineò una modalità strutturata di superare
quel Non expedit che aveva impedito per decenni ai cattolici italiani
di partecipare pienamente alla vita politica del Paese. Ma,
nondimeno, perché nacque un partito a quel tempo sicuramente
inedito, un partito che non c’era, né clericale né laicista, a
ispirazione cristiana ma aconfessionale, 'verticale' non solo perché
fatto di uomini liberi e risoluti, ma perché univa la profondità
del pensiero all’altezza di un disegno di futuro, non ideologico,
non rivoluzionario, non velleitario, ma modernamente riformatore, un
partito del territorio ma anche dello Stato, non internazionalista ma
con uno sguardo europeo, pacifista ma non neutralista, non liberista
ma costruito attorno al principio-cardine della libertà, non
centralista ma profondamente autonomista, un partito che non
mitizzava l’idea di popolo sino a farne una categoria astratta e
strumentale, ma profondamente radicato nel tessuto sociale e
popolare. Un partito non improvvisato: Sturzo ne delineò infatti i
contorni nel famoso discorso di Caltagirone del dicembre 1905 e lo
condusse in porto quasi quattordici anni dopo, il 18 gennaio 1919,
appunto.
Ma, cos’era per Sturzo il
popolarismo? Era essenzialmente il protagonismo sociale del popolo e
la capacità della politica di sentirsene espressione. Se il popolo
era dunque il motore del processo politico, gli uomini politici
dovevano dimostrare di sapere mettere 'le mani nella morchia' di quel
motore. Se per Sturzo lo Stato era la struttura organizzativa della
società, potremmo dire che il popolarismo rappresentava invece la
dimensione politica del popolo-attore sociale. Il prete di
Caltagirone era infatti solito elencare con numeri precisi le
migliaia di cooperative agricole ed edilizie realizzate in tutto il
territorio nazionale dai cattolici durante i faticosi anni del Non
expedit, delle casse rurali, delle mutue assicurative,
dell’associazionismo culturale e sociale, sicché quando comparve
sulla scena politica il Partito Popolare nel 1919 poté limitarsi a
raccogliere, cioè mettere insieme questa densissima rete sociale e
darle rappresentanza e proiezione politica. Il popolarismo è,
dunque, il popolo che si fa attore po-litico, mentre il populismo è
l’utilizzazione- strumentalizzazione del popolo civicamente passivo
a fini politici.
Per questo l’idea centrale che il
popolarismo porta alla politica di quegli anni è stata la lotta al
centralismo e la valorizzazione dell’autonomismo comunale e
regionale. Che era un’idea di Stato democratico, 'vissuto',
soprattutto nelle sue periferie, attraverso una politica partecipata
e preparata a livello locale dove la politica è veramente
democrazia. E, conseguenza logica, la richiesta di passare a un
Senato elettivo che si aggiungesse alla Camera, con l’introduzione
del suffragio universale vero, cioè con anche il voto alle donne, e
un sistema elettorale proporzionale. Il popolarismo fu poi un
tentativo intelligente di riconoscere e collocare in modo corretto le
soggettività originarie: prima c’è la persona, poi i corpi
intermedi, poi la comunità locale, poi quella provinciale, poi
quella regionale, poi quella statale nazionale, poi quella
sovrastatale europea. E in tal modo, diremmo oggi, viene delineata
una corretta prospettiva federalista. Dal basso. Le istituzioni così
non saranno mai 'non rappresentative della volontà popolare', perché
ne sono naturalmente la sua espressione. Ma perché non vi sia
separazione fra popolo e Stato occorre delineare un severo contesto
di moralità pubblica, che è fatta sia di rispetto dei ruoli
istituzionali (i partiti non possono mai interferire con le
responsabilità autonome del Governo e del Parlamento), sia di
continua educazione al valore della legalità, sia infine di
selezione del personale politico con severi criteri di verifica del
possesso delle virtù etiche soggettive necessarie a gestire la casa
comune.
Sarebbe interessante, se oggi si vuole
cominciare a discutere di una concezione 'popolare' della politica,
cominciare proprio da queste idee sturziane. Per quanto riguarda il
Ppi poi, lo sappiamo bene, le cose andarono in un certo modo: dopo
cinque anni da quelle prime elezioni del 1919 in cui i popolari
elessero un centinaio di deputati, Sturzo fu costretto all’esilio a
causa di una gravissima complicità della Segreteria di Stato con
Mussolini che individuò proprio in Sturzo il più insidioso
avversario del suo disegno politico e due anni dopo, nel 1926, il Ppi
come gli altri partiti d’opposizione, venne messo fuori legge e i
cattolici italiani furono costretti a continuare il lavoro politico
chi in esilio in diversi Paesi europei, chi restando in Italia ma
operando in clandestinità per tutta la durata dell’attraversamento
del deserto del regime fascista.
Sturzo tornò in Italia – dopo le
esperienze di esilio a Londra e a New York e vari soggiorni di studio
e di collegamento politico a Parigi, Bruxelles e Barcellona e con una
produzione bibliografica di una sessantina di testi alcuni dei quali
ancora oggi studiati in università americane – solo nel 1946, ad
Assemblea costituente avviata. Non mancò però, sino alla sua morte
avvenuta nel 1959 (quest’anno ne celebriamo il sessantesimo), di
partecipare al dibattito politico con suggestioni originali e spesso
severe. Ma è doveroso non dimenticare che, di fatto, Sturzo fu anche
importante innovatore sul piano ecclesiale, se si pensa che anticipò
di quasi sessant’anni le indicazioni di alcune costituzioni del
Concilio Vaticano II ( Gaudium et spese Lumen gentium) nel teorizzare
e praticare l’autonomia dei laici cristiani nell’impegno
politico. Lezioni a cui attingere, dunque, ne ha lasciate non poche.
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