Il vero nemico da battere, le strategie
del Signori della Paura, il ruolo dei cristiani: Cristina Uguccioni
intervista con lo storico fiorentino
Vatican Insider 3 gennaio 2017
Questa Europa «stanca e invecchiata»
(come l’ha definita papa Francesco), minata da una pervasiva
dissoluzione del legame sociale, insidiata da un dilagante
individualismo autoreferenziale e governata dalla religione globale
del denaro (fenomeno decisivo per comprenderne le dinamiche), da
alcuni decenni si trova alle prese con l’Islam. È un termine,
questo, rispetto al quale nessun europeo si sente ormai estraneo e
intorno al quale si accendono discussioni pubbliche che spesso
assumono toni scomposti, persino violenti. E tratti molto
superficiali. In questo passaggio d’epoca urgono riflessioni
pensate e pacate, conoscenze storiche e religiose corrette, analisi
accurate, capacità di visione, cuore saldo nella compassione
(indispensabile affinché ogni comunità umana resti “comunità”
e “umana”): un lavoro non frettoloso, che si mostri in grado di
far fronte con intelligenza e sensibilità ai molti mutamenti in atto
e agli interrogativi che si levano nella società europea.
Sull’Islam abbiamo rivolto alcune
domande allo storico Franco Cardini, autore del volume di recente
pubblicazione “L’islam è una minaccia? [Falso!]” (Laterza).
Già docente di Storia medioevale all’Università di Firenze e in
altri atenei europei ed extraeuropei, Cardini attualmente è membro
del Consiglio direttivo dell’Istituto Storico Italiano per il
Medioevo e professore emerito dell’Istituto di Scienze Umane e
Sociali annesso alla Scuola Normale Superiore.
Può illustrare brevemente la tesi
centrale del suo volume?
«L’Islam è una religione che conta
oltre un miliardo e mezzo di fedeli ed è quindi la seconda religione
più diffusa al mondo, dato che i cristiani ammontano a poco più di
due miliardi. I musulmani nella stragrande maggioranza sono insediati
tra l’Africa occidentale e il Sud-est asiatico (nel senso della
longitudine) e tra Caucaso, Asia centrale e Corno d’Africa (in
quello della latitudine). Essi fanno parte, nella quasi totalità, di
quell’85-90% del genere umano che, secondo i dati più recenti
diffusi dall’ONU, vive gestendo appena il 10-15% delle ricchezze
mondiali. E qui sta il punto. A mio giudizio nella nostra epoca il
vero nemico da battere non è l’Islam (che oggi è realtà
polimorfa e in cammino per superare alcune contraddizioni) e neppure
la sua tragica e brutale deformazione, il fondamentalismo islamico
(che, ovviamente, va contrastato).
Il vero nemico, il verme che sta
corrompendo la terra è l’ingiusta ripartizione delle ricchezze del
pianeta, l’assurdo, osceno squilibrio di una umanità divisa tra
pochi ricchi e una sterminata moltitudine di poveri. Papa Francesco
non perde occasione di ricordarcelo: l’Enciclica Laudato si’,
sotto questo profilo, è esemplare. La nostra economia uccide e
occorre perseguire la giustizia, che non consiste solo in una equa
distribuzione delle risorse ma passa attraverso un mutamento radicale
di valori e stili di vita. E, aggiungo, attraverso, ad esempio, il
rispetto del diritto internazionale».
A cosa si riferisce in particolare?
«Mi riferisco a quel comma
importantissimo e sempre disatteso secondo il quale le ricchezze del
suolo e del sottosuolo di una determinata area appartengono a coloro
che lì sono insediati. Da quando, mezzo millennio orsono, è
iniziato il colonialismo e quindi la globalizzazione (perché essa è
iniziata allora) questo principio è stato costantemente violato. Ora
siamo arrivati alla fase del redde rationem e l’imponente afflusso
di migranti nel ricco Occidente ne è una delle espressioni più
vistose. Il nemico da battere, lo ripeto, è questo ingiusto sistema
economico: esso ha innegabilmente reso prospero l’Occidente, ma ha
generato uno squilibrio che è ormai improscrastinabile curare, anche
nel nostro stesso interesse. Invece, in Occidente, ci siamo
concentrati di volta in volta su altri nemici che ci hanno distratto
da quello più feroce: dapprima, tutto il male del mondo era causato
dal nazismo e dal fascismo, poi, caduti quei regimi, tutte le colpe
furono dell’Unione Sovietica e del comunismo; finito l’impero
sovietico e il tramontato il comunismo, ora si è passati al
fondamentalismo islamico (fingendo di non sapere che è stato tenuto
a battesimo dalle potenze occidentali) e, più in generale,
all’Islam.
Che l’Islam sia una minaccia sta
ormai diventando un dogma laico, diffuso dai Signori della Paura, i
quali – per fini economici, ma anche in vista di vantaggi politici
ed elettorali – sfruttano le insicurezze e i timori delle persone
istigando all’odio. I loro metodi vanno smascherati».
Nel volume lei afferma che al fine di
far apparire effettivo, vero, reale, irrefutabile alla luce della
ragione questo dogma laico «si tende a rivestirlo di prove o di
qualcosa che loro somiglia». Può illustrare come avviene questo
processo?
«Le tecniche di questi Signori paiono
ispirate al romanzo “Il montaggio” di Vladimir Volkoff: si
spigola fra i fatti di cronaca mettendo in fila eventi orribili,
snocciolando uno dopo l’altro nomi, fatti, date così da dare
l’impressione che i musulmani siano ovunque e sempre una minaccia.
Ogni fatto di cronaca nera, anche minimo, il cui protagonista è un
musulmano, viene ingigantito e proposto a modello. Si passa quindi
senza scrupolo alcuno dalla presentazione analitica e casistica,
fondata magari su un numero circoscritto di episodi, a un’indebita
generalizzazione sulla base di una arbitraria selezione degli eventi
proposti come esemplari: si descrive un albero ma lo si presenta come
fosse uno qualunque di una foresta di centomila alberi tutti uguali.
E così non si riconoscono, consapevolmente e colpevolmente, le
migliaia di casi di onesti musulmani che vivono pacificamente nelle
nostre città e che stanno cercando (concediamo del tempo) o hanno
già trovato il modo di essere bravi musulmani non solo in Europa, ma
d’Europa. Queste migliaia di persone inappuntabili non fanno
notizia, si parla pochissimo di loro. Eppure esistono! Così come
esistono, ma sono quasi del tutto trascurati, i molti pronunciamenti,
incontri, documenti in cui i musulmani condannano apertamente l’uso
della violenza in nome di Dio e prendono le distanze dal terrorismo.
I mass media hanno una responsabilità enorme. La disinformazione
genera squilibri gravi che danneggiano la democrazia».
Europa e Islam sono nemici da sempre:
questa è una delle affermazioni che circolano con maggior
insistenza; ma, lei afferma, non è fondata.
«Persino non pochi libri di storia in
uso nelle nostre scuole sostengono questa tesi. È falsa. Quello
compreso tra il 1200 e il 1500, pur segnato da numerose guerre, è
stato uno dei periodi più gloriosi della civiltà europea. È stato
il tempo delle grandi cattedrali, della nascita delle università, di
importantissime acquisizioni scientifiche, di uno straordinario
sviluppo dell’arte. Tutto ciò avvenne grazie a una grande
floridezza economica che, nata sotto l’impulso operoso dei comuni,
delle repubbliche marinare, delle città mercantili europee, fu
determinata in gran parte dai costanti, intensi traffici con il
vicino Oriente musulmano».
In questo contesto, che rilevanza
ebbero le crociate?
«L’immensa ricchezza duecentesca
dell’area mediterranea fu dovuta al commercio tra i paesi cristiani
e musulmani e questo fenomeno macroscopico, quasi del tutto ignorato
da molti media e da non pochi insegnanti, è ben più rilevante delle
crociate che si possono considerare punture di spillo. L’Islam, nel
suo complesso, non si è veramente reso conto di quanto era accaduto
sino all’Ottocento, tanto che non esisteva neppure un termine arabo
per definire le crociate. Nell’Ottocento i musulmani utilizzarono
un neologismo (“hurub as-salibyya”, “guerre della croce”)
quando dovettero tradurre i testi scolastici che le potenze coloniali
imponevano di adottare. Le crociate – considerate come difesa
contro un Islam aggressivo e sanguinario – vennero usate dagli
occidentali quasi come antefatto giustificativo del loro dominio,
ossia per dare giustificazione morale al colonialismo. Giova però
ricordare che la prima grande espansione musulmana, iniziata nel VII
secolo – contrariamente a quanto molti credono – si verificò con
pochissima violenza (come ho diffusamente spiegato nel mio libro): i
popoli si lasciarono conquistare, l’Islam ebbe vita facile nella
sua espansione a causa della debolezza dell’impero persiano e di
quello bizantino il quale, pur glorioso, a quell’epoca era in forte
crisi. Bisogna inoltre rammentare che talora i cristiani imposero il
proprio credo con la spada: si pensi a Carlo Magno o all’Ordine
Teutonico dell’Europa nordorientale del medioevo. In conclusione,
chi sostiene che Europa e Islam siano da sempre nemici e che ciò sia
sempre avvenuto per colpa totale o prevalente dell’Islam mostra di
conoscere assai poco la storia».
Che ha molto da insegnare.
«Certo, se si accetta di ascoltarla.
Ai cristiani, ai musulmani, agli uomini di buona volontà la storia
fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo
possibile ma anche franca e cordiale: si pensi ad esempio all’impero
mongolo o al sultanato di al-Akbar nell’India moghul tra XVI e XVII
secolo. Ma i modelli storici restano lettera morta se non si afferma
la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che
essi hanno piantato. Questa è, a mio avviso, la sostanza della sfida
odierna».
In questo passaggio d’epoca, quale
dovrebbe essere a suo giudizio il compito dei cristiani?
«Le imponenti migrazioni degli ultimi
anni stanno creando in moltissimi italiani ed europei un forte senso
di disagio e insicurezza: sottovalutarlo e non farsene carico sarebbe
un errore. Ma sarebbe ancor più sbagliato alimentarlo. Papa
Francesco ci sta dando l’esempio, sia distinguendo la fede islamica
dal terrorismo fondamentalista, sia incoraggiando tutti a costruire
vita buona con le disperate genti che giungono in Europa, anche con
quelle musulmane. Penso che un cristiano dovrebbe sentire in modo
speciale il dovere di aiutare chi è più vulnerabile e abbia anche
il dovere di andare controcorrente affermando con un po’ di
coraggio civile, se occorre, alcune verità scomode rispetto al
mainstream attuale.
Non possiamo nascondere che vi sono
obiettive difficoltà teoriche e concettuali nel dialogo tra
cristiani e musulmani che non si possono aggirare né in nome
dell’ottimismo del cuore, né in quello della retorica
irenistico-ecumenica. Tuttavia il dialogo prosegue in modo proficuo
e, nella pratica, nella vita di tutti i giorni, la convivenza
pacifica si rivela possibile e infatti esiste. La Chiesa, con parole
e opere concrete, sta indicando a tutti la strada con grande
chiarezza. L’edificazione di legami buoni nella quotidianità passa
attraverso un lavoro artigianale: e il primo mattone è la
comprensione reciproca, che è arte difficile. L’immigrato
musulmano fa paura, ma se quel volto anonimo comincia ad avere un
nome, se scopriamo che anche lui, come noi, ha figli da mandare a
scuola, genitori da accudire, problemi di salute, sogni e
preoccupazioni, allora le cose possono iniziare a cambiare. Certo,
bisogna impegnarsi. Penso che nella quotidianità i cristiani debbano
continuare a promuovere e favorire buone pratiche di incontro e
integrazione, costruendo dalla base ciò che le istituzioni, in larga
misura, paiono esitanti a progettare. È quanto anch’io cerco di
fare».
Vuole illustrare il suo impegno?
«Nel piccolo paese dove vivo, Bagno a
Ripoli, alle porte di Firenze, sono giunte alcune famiglie
senegalesi, una trentina di persone inclusi bambini e anziani. Il
loro arrivo ha scatenato molte proteste: da parte mia, insieme ad
alcuni amici, ho voluto conoscere le ragioni di tutti e sto cercando
di organizzare incontri tra i residenti e i migranti affinché si
conoscano, coinvolgendo in quest’opera il parroco, il sindaco e
altri rappresentanti delle istituzioni. Mi sono rivolto per questo al
presidente della Regione, che conosco: per rispetto dell’autorità
costituita, aspetto un suo cenno prima di procedere in modo che
quanto riusciremo a fare appaia come un atto che ha la legittimazione
istituzionale e non solo come un gesto frutto della buona volontà di
qualche privato cittadino.
In Italia sono moltissime le persone
che stanno lavorando per costruire buona convivenza, ma quest’opera
sarebbe più efficace se fosse maggiormente e più organicamente
sostenuta dalle istituzioni locali e nazionali. I sindaci, ad
esempio, dovrebbero promuovere periodici momenti di incontro tra
italiani e migranti appena giunti, avvalendosi di mediatori culturali
che facciano da interprete. E invece, in molti casi, si limitano a
protestare per “l’invasione”».
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