- D'Alema contro Natta: "ricostruiamo il centro sinistra";
- D'Alema contro Occhetto: "ricostruiamo il centro sinistra";
- D'Alema contro Veltroni; "ricostruiamo il centro sinistra";
- D'Alema contro Prodi: "ricostruiamo il centro sinistra";
- D'Alema (remix) contro Prodi: "ricostruiamo il centro sinistra";
- D'Alema contro Renzi: "ricostruiamo il centro sinistra".
Fine biografia breve di Massimo D'Alema.
foto del giorno
sabato 28 gennaio 2017
venerdì 27 gennaio 2017
27 gennaio 2017
"E voi, imparate che occorre vedere
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava
una volta per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora non
cantiam vittoria troppo presto
il grembo da cui nacque è ancora fecondo"
B.Brecht
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava
una volta per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora non
cantiam vittoria troppo presto
il grembo da cui nacque è ancora fecondo"
B.Brecht
giovedì 26 gennaio 2017
Ceccanti: “Ora si può votare, il Parlamento scelga Mattarellum o altro”
Mario Lavia
L'Unità gennaio 2017
“L’incostituzionalità del
ballottaggio è l’effetto della bocciatura del referendum”
La sentenza della Consulta è
“ovviamente applicabile: adesso si può andare a votare. Il
problema giuridico non c’è, è solo una scelta politica”: così
dice Stefano Ceccanti, costituzionalista, ex senatore del Pd.
Non mi pare sorpreso dalla sentenza,
professore…
E’ stata dichiarata
l’incostituzionalità del ballottaggio, ma questo è un effetto
logico della bocciatura della riforma costituzionale al referendum
del 4 dicembre. Essendo stato mantenuto il Senato avremmo avuto una
camera eletto in un turno e l’altra in due: direi che quella
sconfitta ha portato dietro di sé la sentenza della Corte di oggi.
Politicamente, chi “aiuta” questa
sentenza?
Ora deve decidere il Parlamento cosa
vuole fare. La palla è ai partiti. Volendo, adesso si può andare a
votare: ma se invece i partiti raggiungessero un’intesa più
avanzata si potrebbe fare una nuova legge comunque in tempo rapidi.
Ripeto, è tutta questione di volontà politica, non di questioni
giuridiche. Si può riprendere benissimo il Mattarellum, alla luce di
questa sentenza. O se altri hanno altre proposte le facciano.
Ma non bisogna armonizzare le normative
per entrambe le Camere?
La Corte non indica obblighi giuridici,
ma esercita una persuasione di carattere politico.
Però c’è la questione del premio.
Guardi, se ci fosse una forza politica
in grado di superare il 40% alla Camera – e questo è assolutamente
possibile perché scatterà il meccanismo del “voto utile” –
allora ci sarebbe un trascinamento anche al Senato. I sistemi di
Camera e Senato non sono così divaricanti come sembra a prima vista.
Un’ultima questione, quella dei
capilista. Cosa significa il sorteggio per le pluricandidature dei
capilista?
La Corte ha ribadito al legittimità
dei capilista bloccati. E dice che non saranno i capilista a
scegliere questo o quel collegio, ma un sorteggio. Perché? Per
evitare che sia il capolista a decidere quale “numero due”
entrerà in Parlamento.
martedì 24 gennaio 2017
Tonini: “Il rischio è la Grosse Koalition”
Maria Zegarelli
L'Unità 24 gennaio 2017
Il senatore Pd: “Ma un tasso di
proporzionale è inevitabile”
«Il Pd deve essere il partito che dà
risposte a quella parte ancora sofferente della società». Il
senatore Giorgio Tonini si smarca dal dibattito sulla data delle urne
e sulla sentenza di oggi della Consulta dice che «un certo tasso di
proporzionalità del sistema è purtroppo inevitabile ».
Tonini, tutto sembra fermo in attesa
della sentenza di oggi. Se venisse fuori un proporzionale che scenari
si aprirebbero per il Pd?
«Intanto diciamo che la sentenza sarà
auto applicativa, salvo alcuni dettagli, perché la giurisprudenza
della Corte è sempre stata univoca: non si può dar vita a un voto
legislativo che impedisca agli organi costituzionali, a cominciare
dal Parlamento, di funzionare. Con il mantenimento del bicameralismo
perfetto, che è uno dei risultati, a mio avviso assolutamente
negativi del referendum, un certo tasso di proporzionalità del
sistema è purtroppo inevitabile».
In un quadro di tripolarismo
minoritario, il timore di molti, e l’auspicio di altri, è quello
di una Grosse Koalition.
«La Grosse Koalition alla tedesca
nasce sempre da uno stato di necessità successivo alle elezioni e
mai da una scelta dei partiti prima del voto. Anche nel nostro caso
può darsi che si determini la necessità dopo il voto di dar vita ad
alleanze spurie, come è successo del resto in questa legislatura.
Certamente non vedo un presentarsi del Pd e di Fi uniti alle
elezioni».
Prodi ha rilanciato la necessità di un
centrosinistra unito. Le sembra una ipotesi realistica, considerato
il contesto?
«Il Pd è nato sulla base di due
obiettivi: strutturare l’Ulivo che è sempre stato di più di una
coalizione, come un grande partito plurale, il partito del
centrosinistra; e sulla realistica considerazione che c’è una
parte della sinistra incompatibile con la cultura di governo, come le
due legislature guidate da Prodi si sono incaricate di dimostrare».
C’è chi vede proprio in Renzi un
ostacolo ad un nuovo centrosinistra unito. Ha letto l’intervista di
Massimo D’Alema?
«Come ha detto giustamente Paolo
Gentiloni nell’intervista di D’Alema c’è un eccesso di spirito
polemico e purtroppo non è la prima volta che succede. Renzi ha
salvato una legislatura condannata all’inconcludenza dando vita ad
un governo riformatore che ha prodotto risultati importanti per il
Paese. Tornare indietro sarebbe una follia».
Stando alle dichiarazioni ufficiali di
molti e ufficiose di altri, il partito del non voto sembra
ingrossarsi di settimana in settimana. Si allontanano le urne a
primavera?
«A me non ha mai appassionato la
disputa sulla data, preferirei ci si concentrasse sul programma con
il quale vogliamo andare al voto e sul rapporto tra le cose che
dobbiamo fare nei mesi che abbiamo avanti con il governo Gentiloni e
quelle che intendiamo proseguire nella prossima legislatura».
Che cosa non ha funzionato durante il
governo Renzi?
«Una cosa fondamentale non ha
funzionato: non siamo riusciti a far percepire alla maggioranza degli
italiani il nesso assolutamente essenziale tra la strategia delle
riforme costituzionali – e non solo – e i problemi e le
sofferenze che colpiscono strati importanti della società italiana».
Il Pd che partito deve diventare?
«Le riforme restano la risposta ai
problemi del Paese, non c’è un’altra risposta. Le pulsioni
populiste certamente non lo sono. Ci serve un partito capace di
organizzare questa risposta nel Paese, non con la nostalgia delle
vecchie organizzazioni ma con la costruzione di un’organizzazione
adatta al nostro tempo».
Secondo lei Renzi ha capito il
messaggio venuto fuori dalle urne il 4 dicembre?
«Con le sue dimissioni Renzi ha fatto
molto di più: si è assunto la responsabilità principale di una
sconfitta così grave. Ora costruire una risposta e un rilancio è un
compito di tutto il Pd insieme a lui».
sabato 21 gennaio 2017
CINQUE APPUNTI TELEGRAFICI SU DONALD TRUMP E NO
Editoriale per la Nwsl n. 421, 20
gennaio 2017
Pietro Ichino
STIAMO ATTENTI A NON LIQUIDARE IL
NEO-PRESIDENTE U.S.A. COME “POPULISTA”, O “DI ESTREMA DESTRA”:
È IL NUOVO LEADER DEI “SOVRANISTI” DI TUTTO IL MONDO, I CUI
ARGOMENTI NON SONO IRRAGIONEVOLI, NÉ PROPRI DELLA SOLA DESTRA,
MA VANNO CONTRASTATI DIMOSTRANDO CHE LA GLOBALIZZAZIONE PUÒ
CONVENIRE DAVVERO A TUTTI.
1. Sarà anche politicamente scorretto,
ma, per favore, non chiamiamolo “populista”: è il leader
mondiale dei sovranisti, cioè di coloro che considerano meglio porre
un forte freno alla libertà di movimento delle persone, dei capitali
e delle merci. Stiamo attenti: gli argomenti dei sovranisti non sono
affatto irragionevoli. Sono convinto che siano sbagliati; ma è certo
che la forte accelerazione del fenomeno della globalizzazione, per il
modo in cui si è verificata negli ultimi due decenni, ha alimentato
non poco quegli argomenti.
2. Se vogliamo battere i sovranisti di
casa nostra, occorre per prima cosa capire i loro argomenti, almeno
quelli che all’incirca corrispondono alla parte sensata dei
discorsi di Donald Trump. E imparare a contrastarli con argomenti
contrari più forti e con i comportamenti corrispondenti. Il più
efficace consiste nell’individuare con precisione, indennizzare e
sostenere le minoranze che dalla globalizzazione escono danneggiate.
Anche perché questo è il miglior antidoto contro l’ansia da
globalizzazione, della quale soffre anche una parte consistente della
maggioranza che non ne sarà affatto danneggiata, ma teme di poterlo
essere.
3. Un altro errore da non fare è
considerare Donald Trump “di destra”: Bernie Sanders, leader
dell’ala sinistra del Partito Democratico U.S.A., ha esplicitamente
detto di concordare sulla maggior parte delle misure di politicaq
economica proposte da Trump. Barak Obama ha un bel dire – peraltro
con piena ragione – che contro la fame nel mondo ha fatto più la
globalizzazione negli ultimi cinquant’anni, di quanto abbiano fatto
tutti i movimenti sindacali, socialisti o comunisti negli ultimi due
secoli; ma, sui due lati dell’Atlantico, la fame è vista come un
problema degli outsiders e degli stranieri; mentre le ali sinistre,
in genere, si occupano prevalentemente degli insiders indigeni.
4. Il trumpismo può piacere molto agli
insiders di ciascun Paese anche sul versante degli imprenditori: la
politica industriale del neo-presidente U.S.A. consiste nel difendere
le strutture produttive esistenti contro i new entrants provenienti
da fuori, ma così facendo finisce necessariamente per difenderle un
po’ anche contro i new entrants indigeni. Gli anti-sovranisti di
casa nostra devono essere convincenti nello spiegare agli elettori
che, invece, tutti stanno meglio se si consente ai new entrants più
bravi – stranieri o indigeni che siano – di venire in casa nostra
a sostituire gli insiders meno bravi; e se, beninteso, nel contempo
si indennizzano e sostengono i dipendenti di questi ultimi nel
passaggio alle imprese migliori, che valorizzeranno meglio il loro
lavoro.
5. Andiamoci piano anche nel
considerare l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca come una
iattura per l’Europa. Se il neo-presidente farà davvero quello che
dice, cioè preferirà l’amicizia con la Russia di Vladimir Putin a
quella con noi intesi come UE, questo ci costringerà finalmente, per
non rischiare di avere tra poco i russi in Ucraina e nelle
repubbliche baltiche, a darci un dispositivo di difesa europeo sul
fronte nord-est; e già che ci siamo anche sul fronte sud-est, dove
la situazione non è certo più tranquilla. Il che implica che ci sia
un vero ministro della Difesa comune. E quindi anche un vero ministro
del Bilancio comune. Potremo continuare a litigare sui decimali di
punto di deficit e a star fermi sulle cose che contano soltanto se la
maggioranza repubblicana del Congresso di Washington non consentirà
a Donald di fare quello che dice di voler fare.
Perché Macron vola e i socialisti arrancano
Mario Lavia
L'Unità 20 gennaio 2017
Domenica il primo turno delle primarie
di socialisti e alleati. Ségolène con il riformista indipendente
La Storia dirà se la sinistra francese
avrà commesso la follia più grande del suo lungo percorso. Fatto
sta che dinanzi alla irresistibile ascesa delle due destre – con i
volti di François Fillon e quello di Marine Le Pen – quel che
resta del socialismo francese e dell’arrugginita gauche si va
a contare nei freddi seggi delle primarie più vane della storia, una
gauche che rischia alla fine di restare fuori dalla gara per
l’Eliseo.
Tutto è possibile, certo. Anche che a
votare domenica per il primo turno delle primarie della Belle
alliance populaire (“nipotina” della gauche, socialisti più
vari gruppi di sinistra) ci vada molta gente. Anzi, sicuramente sarà
così. Non è che il popolo non esista più, anzi, esiste pure
troppo: nel senso che appena può si fa sentire in ogni modo. Il
punto non è questo.
Il punto è che sono primarie senza
speranza. Chi le vincerà – probabilmente Manuel Valls (essere
primo ministro aiuta, no?), o l’ex ministro dell’economia
Arnaud Montebourg o l’ex ministro dell’istruzione Benoît Hamon –
i due frondeurs detestati da Valls – non avrà possibilità alcuna
non solo di arrivare all’Eliseo ma nemmeno di andare al secondo
turno delle presidenziali. D’altra parte – è stato detto ad
abudantiam – il fatto che per la prima volta nella storia della V
Repubblica un presidente della Repubblica non si sia ricandidato è
non solo e non tanto il segno del crollo politico e umano di François
Hollande quanto l’emblema della fine del “terzo tempo” del
socialismo francese – dopo il primo, quello glorioso di Mitterrand,
e il secondo, quello, insperato, di Hollande.
Gli altri candidati alle primarie non
hanno alcuna velleità, se non la ricerca di una visibilità buona
per il “dopo”. Cosa che probabilmente è anche all’origine
della candidatura di Valls, il quale intende mettere fieno in cascina
sperando che la nottata socialista passi.
Intanto sale la stella di Emmanuel
Macron. La grande carta della sinistra riformista francese che,
insofferente dell’avvitamento su se stesso di quest’ultima, se
n’è andato e si è messo a correre per conto suo. E’ lui la
novità della politica d’Oltralpe.
Gli ultimi sondaggi lo vedono
stabilmente in terza posizione, dietro Fillon e la Le Pen. Adesso la
speranza di un ballottaggio fra un conservatore e un progressista
moderato non è più solo nei sogni degli antipopulisti ma una
possibilità. La sua organizzazione – En Marche! – aumenta gli
iscritti e punta a diventare ago della bilancia in Parlamento (dopo
le presidenziali si terranno le elezioni legislative). Dicono i
giornali francesi che la gente affolla i suoi comizi. Alcuni
socialisti, da Ségolène Royal (ci sarebbe stato un incontro
fra i due) all’ex premier Jean-Marc Ayrault lo sostengono. Insomma,
Macron piace alla gente che piace, come diceva un slogan
pubblicitario. Ma non è detto che non riesca a sfondare anche nella
Francia più profonda, tuttora attratta dalla destra.
Già si parla di lui come del prototipo
di leader non solo post-ideologico ma anche post-partito, nel senso
dell’incarnazione di un progetto e un soggetto politico “mobili”,
adattabili alle situazioni, senza barriere e preclusioni verso altre
forze e altre idee. Non si tratta solo di mero pragmatismo. Ma di una
visione pronta ad includere pezzi di politica che i soggetti
tradizionali (a partire da quelli di sinistra) non riescono più a
rendere coerenti e compatibili con i problemi del nostro tempo. Un
politico flessibile, ai limiti del cinismo – se si vuole – in
qualche modo simbolo di una società in movimento, o meglio, che ha
voglia di rimettersi in movimento dopo la stagnazione di questi
ultimi 15 anni.
Di Macron recentemente si è scritto
molto e molto si scriverà nel prossimo futuro (qui un bel pezzo di
Huffington Post).
Macron è dunque molto più avanti del
legnoso socialismo francese. Pur considerando che i paragoni sono
sempre da prendere con le molle, viene da domandarsi se in tutti
questi lunghi anni di jospinismo e hollandismo che hanno accompagnato
il declino generale della Francia, per i socialisti non sarebbe stato
più serio porsi il problema della rifondazione del Ps magari
ipotizzando qualcosa di più largo e innovativo. per giungere ad una
sorta di Partito democratico francese in grado di tenere insieme
Valls e Macron.
Ora invece incombe lo spettro di un
ballottaggio fra Fillon e Marine Le Pen, anche a causa della
dispersione di voti fra le varie sinistre (dove è ancora forte il
“duro” Jean-Luc Mélenchon) e Macron. Sarebbe un esito
drammatico.
Domenica, comunque, la parola al popolo
socialista di Francia. Per Manuel Valls è un’opportunità ma anche
un rischio: su di lui potrebbero piovere i detriti del diffuso
anti-hollandismo che circola nel Paese e nell’elettorato del
partito socialista, E un Valls debole – chissà -potrebbe favorire
ancor di più le chances di Emmanuel Macron, l’uomo nuovo.
giovedì 12 gennaio 2017
mercoledì 11 gennaio 2017
ciao...
lunedì 9 gennaio 2017
"C’è una luce in fondo al tunnel
Zygmun Bauman
Sono venuto qui per fare qualche
commento ma anche per condividere con voi una storia, sperando che ci
sia una luce in fondo al tunnel. Quello che sto per dirvi è che una
luce in fondo al tunnel è ancora lontana, raggiungere il tunnel è
ancora lungo e pericoloso.
La storia dell’umanità ha centinaia di migliaia di anni e può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è l’espansione del pronome personale “noi”. Un certo numero di persone ha usato il termine noi. Un numero di persone che è cresciuto in modo graduale e costante. Gli antropologi sostengono che inizialmente si trattava di un gruppo di 150 unità. Tutto il resto poteva essere riassunto con la parola “altri”. Il resto erano persone che non erano noi. Un numero che doveva essere necessariamente limitato. Col tempo questa cifra è aumentata, venne l’epoca delle tribù, delle prime comunità che erano comunque sempre un noi. Persone che non si conoscevano personalmente. Poi c’è stata l’epoca delle nazioni-stati e degli imperi ed oggi posso affermare che ci troviamo in un punto tale di questa catena di eventi che non ha precedenti.
Tutte le tappe e le fasi che ci sono state nella storia dell’umanità, avevano un denominatore comune: erano caratterizzate dall’inclusione da un lato e dall’esclusione dall’altro, in cui c’era una identificazione reciproca, attraverso l’inclusione e l’esclusione. Il “noi” si poteva misurare con l’ostilità reciproca. Il significato del “noi” era che noi non siamo loro. E il significato di loro era che loro non sono noi. Gli uni avevano bisogno degli altri per esistere come entità collegata l’una con l’altra e potersi identificare in un luogo o un gruppo di appartenenza. E’ stato così per tutta la storia dell’umanità. Questo ha portato a grandi spargimenti di sangue. Una forma di autoidentificazione che nasce dall’identificazione di qualcosa di altro rispetto al prossimo. Oggi ci troviamo di fronte alla necessità ineludibile della prossima tappa in questa storia, nella quale stiamo espandendo la nozione di umanità. Parlando di identità di se stessi, abbiamo un concetto di quello che includiamo in questa idea di umanità messa insieme. Direi che ci troviamo di fronte a un salto successivo che richiede l’abolizione del pronome loro. Fino a questo momento i nostri antenati avevano qualcosa in comune: un nemico. Ora, di fronte alla prospettiva di una umanità globale, dove lo troviamo questo nemico?
Ci troviamo nella realtà cosmopolita, quindi ogni cosa fatta anche nell’angolo più remoto del globo, ha impatto sul resto del nostro pianeta, sulle prospettive future. Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro.
Per questo cerchiamo di gestire questa situazione cosmopolita con i mezzi sviluppati dai nostri antenati per poter affrontare i territori limitati, ed è una trappola, un problema una sfida che ci troviamo ad affrontare. Dobbiamo capire come integrarci senza aumentare l’ostilità. Come integraci senza separare i popoli che non appartengono allo stesso luogo. Come possiamo riuscirci? E’ la domanda fondamentale della nostra epoca. Fortunatamente ci è stato fatto un grande dono dal cristianesimo, dalla Chiesa cattolica ed è papa Francesco che ci indica il percorso. Desidero fare solo tre citazioni, sviluppando tre punti.
1. Dialogo, una parola che non dovremo mai stancarci di ripetere. C’è bisogno di promuovere una cultura del dialogo, in ogni modo possibile e ricostruire così il tessuto della società. Dobbiamo considerare gli altri, gli stranieri quelli che appartengono a culture diverse, persone degne di essere ascoltate. La pace potrà essere raggiunta solo se daremo ai nostri figli le armi del dialogo, se insegneremo a lottare per l’incontro, per il negoziato, così daremo loro una cultura per creare una strategia per la vita, una strategia volta all’inclusione e non all’esclusione.
La storia dell’umanità ha centinaia di migliaia di anni e può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è l’espansione del pronome personale “noi”. Un certo numero di persone ha usato il termine noi. Un numero di persone che è cresciuto in modo graduale e costante. Gli antropologi sostengono che inizialmente si trattava di un gruppo di 150 unità. Tutto il resto poteva essere riassunto con la parola “altri”. Il resto erano persone che non erano noi. Un numero che doveva essere necessariamente limitato. Col tempo questa cifra è aumentata, venne l’epoca delle tribù, delle prime comunità che erano comunque sempre un noi. Persone che non si conoscevano personalmente. Poi c’è stata l’epoca delle nazioni-stati e degli imperi ed oggi posso affermare che ci troviamo in un punto tale di questa catena di eventi che non ha precedenti.
Tutte le tappe e le fasi che ci sono state nella storia dell’umanità, avevano un denominatore comune: erano caratterizzate dall’inclusione da un lato e dall’esclusione dall’altro, in cui c’era una identificazione reciproca, attraverso l’inclusione e l’esclusione. Il “noi” si poteva misurare con l’ostilità reciproca. Il significato del “noi” era che noi non siamo loro. E il significato di loro era che loro non sono noi. Gli uni avevano bisogno degli altri per esistere come entità collegata l’una con l’altra e potersi identificare in un luogo o un gruppo di appartenenza. E’ stato così per tutta la storia dell’umanità. Questo ha portato a grandi spargimenti di sangue. Una forma di autoidentificazione che nasce dall’identificazione di qualcosa di altro rispetto al prossimo. Oggi ci troviamo di fronte alla necessità ineludibile della prossima tappa in questa storia, nella quale stiamo espandendo la nozione di umanità. Parlando di identità di se stessi, abbiamo un concetto di quello che includiamo in questa idea di umanità messa insieme. Direi che ci troviamo di fronte a un salto successivo che richiede l’abolizione del pronome loro. Fino a questo momento i nostri antenati avevano qualcosa in comune: un nemico. Ora, di fronte alla prospettiva di una umanità globale, dove lo troviamo questo nemico?
Ci troviamo nella realtà cosmopolita, quindi ogni cosa fatta anche nell’angolo più remoto del globo, ha impatto sul resto del nostro pianeta, sulle prospettive future. Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro.
Per questo cerchiamo di gestire questa situazione cosmopolita con i mezzi sviluppati dai nostri antenati per poter affrontare i territori limitati, ed è una trappola, un problema una sfida che ci troviamo ad affrontare. Dobbiamo capire come integrarci senza aumentare l’ostilità. Come integraci senza separare i popoli che non appartengono allo stesso luogo. Come possiamo riuscirci? E’ la domanda fondamentale della nostra epoca. Fortunatamente ci è stato fatto un grande dono dal cristianesimo, dalla Chiesa cattolica ed è papa Francesco che ci indica il percorso. Desidero fare solo tre citazioni, sviluppando tre punti.
1. Dialogo, una parola che non dovremo mai stancarci di ripetere. C’è bisogno di promuovere una cultura del dialogo, in ogni modo possibile e ricostruire così il tessuto della società. Dobbiamo considerare gli altri, gli stranieri quelli che appartengono a culture diverse, persone degne di essere ascoltate. La pace potrà essere raggiunta solo se daremo ai nostri figli le armi del dialogo, se insegneremo a lottare per l’incontro, per il negoziato, così daremo loro una cultura per creare una strategia per la vita, una strategia volta all’inclusione e non all’esclusione.
2. Dobbiamo capire che l’equa
distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è pura
carità, ma un obbligo morale. Se vogliamo ripensare le nostre
società, dobbiamo creare posti di lavoro dignitosi e ben pagati
soprattutto per i nostri giovani, dobbiamo passare dall’economia
liquida, che usa la corruzione come un modo per trarre profitto,
verso una soluzione che possa garantire l’accesso alla terra
attraverso il lavoro. Il lavoro è il modo attraverso cui possiamo
rimodellare la nostra convivenza condividendo i frutti della terra, i
frutti del lavoro umano.
3. Papa Francesco sostiene che la
cultura del dialogo deve essere parte integrante dell’educazione e
dell’istruzione che forniamo nelle nostre scuole, in modo
interdisciplinare, per dare ai nostri giovani gli strumenti necessari
per risolvere i conflitti in modo diverso da come siamo abituati a
fare. Tutto questo non è facile ed è un processo di lunghissimo
termine. È un modo diverso da quello seguito dalla politica.
Acquisire la cultura del dialogo non comporta una ricetta facile, una
scorciatoia. Tutto il contrario. Un proverbio cinese dice: “Dobbiamo
pensare all’anno prossimo piantando semi, ai prossimi dieci anni
piantando alberi, ai prossimi cento anni educando le persone”.
L’educazione è un processo a lunghissimo termine. La creazione di
un mondo pacifico non è come prepararsi una tazzina di caffè, è
ben più complicato.
Abbiamo bisogno più di ogni altra
cosa, se vogliamo seguire i consigli di Papa Francesco, di sviluppare
qualità difficili in questo mondo: la pazienza, la coerenza, la
pianificazione a lungo termine. Parlo di una vera e propria
rivoluzione culturale, che deve esser l’esatto opposto rispetto al
mondo in cui le persone invecchiano e muoiono prima ancora di essere
nate. Pazienza, quindi: dobbiamo concentrarci sugli obiettivi a lungo
termine, sulla luce in fondo al tunnel, a prescindere da quanto possa
essere lontana al momento in cui la osserviamo."
Cardini: l’Islam non è una minaccia
Il vero nemico da battere, le strategie
del Signori della Paura, il ruolo dei cristiani: Cristina Uguccioni
intervista con lo storico fiorentino
Vatican Insider 3 gennaio 2017
Questa Europa «stanca e invecchiata»
(come l’ha definita papa Francesco), minata da una pervasiva
dissoluzione del legame sociale, insidiata da un dilagante
individualismo autoreferenziale e governata dalla religione globale
del denaro (fenomeno decisivo per comprenderne le dinamiche), da
alcuni decenni si trova alle prese con l’Islam. È un termine,
questo, rispetto al quale nessun europeo si sente ormai estraneo e
intorno al quale si accendono discussioni pubbliche che spesso
assumono toni scomposti, persino violenti. E tratti molto
superficiali. In questo passaggio d’epoca urgono riflessioni
pensate e pacate, conoscenze storiche e religiose corrette, analisi
accurate, capacità di visione, cuore saldo nella compassione
(indispensabile affinché ogni comunità umana resti “comunità”
e “umana”): un lavoro non frettoloso, che si mostri in grado di
far fronte con intelligenza e sensibilità ai molti mutamenti in atto
e agli interrogativi che si levano nella società europea.
Sull’Islam abbiamo rivolto alcune
domande allo storico Franco Cardini, autore del volume di recente
pubblicazione “L’islam è una minaccia? [Falso!]” (Laterza).
Già docente di Storia medioevale all’Università di Firenze e in
altri atenei europei ed extraeuropei, Cardini attualmente è membro
del Consiglio direttivo dell’Istituto Storico Italiano per il
Medioevo e professore emerito dell’Istituto di Scienze Umane e
Sociali annesso alla Scuola Normale Superiore.
Può illustrare brevemente la tesi
centrale del suo volume?
«L’Islam è una religione che conta
oltre un miliardo e mezzo di fedeli ed è quindi la seconda religione
più diffusa al mondo, dato che i cristiani ammontano a poco più di
due miliardi. I musulmani nella stragrande maggioranza sono insediati
tra l’Africa occidentale e il Sud-est asiatico (nel senso della
longitudine) e tra Caucaso, Asia centrale e Corno d’Africa (in
quello della latitudine). Essi fanno parte, nella quasi totalità, di
quell’85-90% del genere umano che, secondo i dati più recenti
diffusi dall’ONU, vive gestendo appena il 10-15% delle ricchezze
mondiali. E qui sta il punto. A mio giudizio nella nostra epoca il
vero nemico da battere non è l’Islam (che oggi è realtà
polimorfa e in cammino per superare alcune contraddizioni) e neppure
la sua tragica e brutale deformazione, il fondamentalismo islamico
(che, ovviamente, va contrastato).
Il vero nemico, il verme che sta
corrompendo la terra è l’ingiusta ripartizione delle ricchezze del
pianeta, l’assurdo, osceno squilibrio di una umanità divisa tra
pochi ricchi e una sterminata moltitudine di poveri. Papa Francesco
non perde occasione di ricordarcelo: l’Enciclica Laudato si’,
sotto questo profilo, è esemplare. La nostra economia uccide e
occorre perseguire la giustizia, che non consiste solo in una equa
distribuzione delle risorse ma passa attraverso un mutamento radicale
di valori e stili di vita. E, aggiungo, attraverso, ad esempio, il
rispetto del diritto internazionale».
A cosa si riferisce in particolare?
«Mi riferisco a quel comma
importantissimo e sempre disatteso secondo il quale le ricchezze del
suolo e del sottosuolo di una determinata area appartengono a coloro
che lì sono insediati. Da quando, mezzo millennio orsono, è
iniziato il colonialismo e quindi la globalizzazione (perché essa è
iniziata allora) questo principio è stato costantemente violato. Ora
siamo arrivati alla fase del redde rationem e l’imponente afflusso
di migranti nel ricco Occidente ne è una delle espressioni più
vistose. Il nemico da battere, lo ripeto, è questo ingiusto sistema
economico: esso ha innegabilmente reso prospero l’Occidente, ma ha
generato uno squilibrio che è ormai improscrastinabile curare, anche
nel nostro stesso interesse. Invece, in Occidente, ci siamo
concentrati di volta in volta su altri nemici che ci hanno distratto
da quello più feroce: dapprima, tutto il male del mondo era causato
dal nazismo e dal fascismo, poi, caduti quei regimi, tutte le colpe
furono dell’Unione Sovietica e del comunismo; finito l’impero
sovietico e il tramontato il comunismo, ora si è passati al
fondamentalismo islamico (fingendo di non sapere che è stato tenuto
a battesimo dalle potenze occidentali) e, più in generale,
all’Islam.
Che l’Islam sia una minaccia sta
ormai diventando un dogma laico, diffuso dai Signori della Paura, i
quali – per fini economici, ma anche in vista di vantaggi politici
ed elettorali – sfruttano le insicurezze e i timori delle persone
istigando all’odio. I loro metodi vanno smascherati».
Nel volume lei afferma che al fine di
far apparire effettivo, vero, reale, irrefutabile alla luce della
ragione questo dogma laico «si tende a rivestirlo di prove o di
qualcosa che loro somiglia». Può illustrare come avviene questo
processo?
«Le tecniche di questi Signori paiono
ispirate al romanzo “Il montaggio” di Vladimir Volkoff: si
spigola fra i fatti di cronaca mettendo in fila eventi orribili,
snocciolando uno dopo l’altro nomi, fatti, date così da dare
l’impressione che i musulmani siano ovunque e sempre una minaccia.
Ogni fatto di cronaca nera, anche minimo, il cui protagonista è un
musulmano, viene ingigantito e proposto a modello. Si passa quindi
senza scrupolo alcuno dalla presentazione analitica e casistica,
fondata magari su un numero circoscritto di episodi, a un’indebita
generalizzazione sulla base di una arbitraria selezione degli eventi
proposti come esemplari: si descrive un albero ma lo si presenta come
fosse uno qualunque di una foresta di centomila alberi tutti uguali.
E così non si riconoscono, consapevolmente e colpevolmente, le
migliaia di casi di onesti musulmani che vivono pacificamente nelle
nostre città e che stanno cercando (concediamo del tempo) o hanno
già trovato il modo di essere bravi musulmani non solo in Europa, ma
d’Europa. Queste migliaia di persone inappuntabili non fanno
notizia, si parla pochissimo di loro. Eppure esistono! Così come
esistono, ma sono quasi del tutto trascurati, i molti pronunciamenti,
incontri, documenti in cui i musulmani condannano apertamente l’uso
della violenza in nome di Dio e prendono le distanze dal terrorismo.
I mass media hanno una responsabilità enorme. La disinformazione
genera squilibri gravi che danneggiano la democrazia».
Europa e Islam sono nemici da sempre:
questa è una delle affermazioni che circolano con maggior
insistenza; ma, lei afferma, non è fondata.
«Persino non pochi libri di storia in
uso nelle nostre scuole sostengono questa tesi. È falsa. Quello
compreso tra il 1200 e il 1500, pur segnato da numerose guerre, è
stato uno dei periodi più gloriosi della civiltà europea. È stato
il tempo delle grandi cattedrali, della nascita delle università, di
importantissime acquisizioni scientifiche, di uno straordinario
sviluppo dell’arte. Tutto ciò avvenne grazie a una grande
floridezza economica che, nata sotto l’impulso operoso dei comuni,
delle repubbliche marinare, delle città mercantili europee, fu
determinata in gran parte dai costanti, intensi traffici con il
vicino Oriente musulmano».
In questo contesto, che rilevanza
ebbero le crociate?
«L’immensa ricchezza duecentesca
dell’area mediterranea fu dovuta al commercio tra i paesi cristiani
e musulmani e questo fenomeno macroscopico, quasi del tutto ignorato
da molti media e da non pochi insegnanti, è ben più rilevante delle
crociate che si possono considerare punture di spillo. L’Islam, nel
suo complesso, non si è veramente reso conto di quanto era accaduto
sino all’Ottocento, tanto che non esisteva neppure un termine arabo
per definire le crociate. Nell’Ottocento i musulmani utilizzarono
un neologismo (“hurub as-salibyya”, “guerre della croce”)
quando dovettero tradurre i testi scolastici che le potenze coloniali
imponevano di adottare. Le crociate – considerate come difesa
contro un Islam aggressivo e sanguinario – vennero usate dagli
occidentali quasi come antefatto giustificativo del loro dominio,
ossia per dare giustificazione morale al colonialismo. Giova però
ricordare che la prima grande espansione musulmana, iniziata nel VII
secolo – contrariamente a quanto molti credono – si verificò con
pochissima violenza (come ho diffusamente spiegato nel mio libro): i
popoli si lasciarono conquistare, l’Islam ebbe vita facile nella
sua espansione a causa della debolezza dell’impero persiano e di
quello bizantino il quale, pur glorioso, a quell’epoca era in forte
crisi. Bisogna inoltre rammentare che talora i cristiani imposero il
proprio credo con la spada: si pensi a Carlo Magno o all’Ordine
Teutonico dell’Europa nordorientale del medioevo. In conclusione,
chi sostiene che Europa e Islam siano da sempre nemici e che ciò sia
sempre avvenuto per colpa totale o prevalente dell’Islam mostra di
conoscere assai poco la storia».
Che ha molto da insegnare.
«Certo, se si accetta di ascoltarla.
Ai cristiani, ai musulmani, agli uomini di buona volontà la storia
fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo
possibile ma anche franca e cordiale: si pensi ad esempio all’impero
mongolo o al sultanato di al-Akbar nell’India moghul tra XVI e XVII
secolo. Ma i modelli storici restano lettera morta se non si afferma
la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che
essi hanno piantato. Questa è, a mio avviso, la sostanza della sfida
odierna».
In questo passaggio d’epoca, quale
dovrebbe essere a suo giudizio il compito dei cristiani?
«Le imponenti migrazioni degli ultimi
anni stanno creando in moltissimi italiani ed europei un forte senso
di disagio e insicurezza: sottovalutarlo e non farsene carico sarebbe
un errore. Ma sarebbe ancor più sbagliato alimentarlo. Papa
Francesco ci sta dando l’esempio, sia distinguendo la fede islamica
dal terrorismo fondamentalista, sia incoraggiando tutti a costruire
vita buona con le disperate genti che giungono in Europa, anche con
quelle musulmane. Penso che un cristiano dovrebbe sentire in modo
speciale il dovere di aiutare chi è più vulnerabile e abbia anche
il dovere di andare controcorrente affermando con un po’ di
coraggio civile, se occorre, alcune verità scomode rispetto al
mainstream attuale.
Non possiamo nascondere che vi sono
obiettive difficoltà teoriche e concettuali nel dialogo tra
cristiani e musulmani che non si possono aggirare né in nome
dell’ottimismo del cuore, né in quello della retorica
irenistico-ecumenica. Tuttavia il dialogo prosegue in modo proficuo
e, nella pratica, nella vita di tutti i giorni, la convivenza
pacifica si rivela possibile e infatti esiste. La Chiesa, con parole
e opere concrete, sta indicando a tutti la strada con grande
chiarezza. L’edificazione di legami buoni nella quotidianità passa
attraverso un lavoro artigianale: e il primo mattone è la
comprensione reciproca, che è arte difficile. L’immigrato
musulmano fa paura, ma se quel volto anonimo comincia ad avere un
nome, se scopriamo che anche lui, come noi, ha figli da mandare a
scuola, genitori da accudire, problemi di salute, sogni e
preoccupazioni, allora le cose possono iniziare a cambiare. Certo,
bisogna impegnarsi. Penso che nella quotidianità i cristiani debbano
continuare a promuovere e favorire buone pratiche di incontro e
integrazione, costruendo dalla base ciò che le istituzioni, in larga
misura, paiono esitanti a progettare. È quanto anch’io cerco di
fare».
Vuole illustrare il suo impegno?
«Nel piccolo paese dove vivo, Bagno a
Ripoli, alle porte di Firenze, sono giunte alcune famiglie
senegalesi, una trentina di persone inclusi bambini e anziani. Il
loro arrivo ha scatenato molte proteste: da parte mia, insieme ad
alcuni amici, ho voluto conoscere le ragioni di tutti e sto cercando
di organizzare incontri tra i residenti e i migranti affinché si
conoscano, coinvolgendo in quest’opera il parroco, il sindaco e
altri rappresentanti delle istituzioni. Mi sono rivolto per questo al
presidente della Regione, che conosco: per rispetto dell’autorità
costituita, aspetto un suo cenno prima di procedere in modo che
quanto riusciremo a fare appaia come un atto che ha la legittimazione
istituzionale e non solo come un gesto frutto della buona volontà di
qualche privato cittadino.
In Italia sono moltissime le persone
che stanno lavorando per costruire buona convivenza, ma quest’opera
sarebbe più efficace se fosse maggiormente e più organicamente
sostenuta dalle istituzioni locali e nazionali. I sindaci, ad
esempio, dovrebbero promuovere periodici momenti di incontro tra
italiani e migranti appena giunti, avvalendosi di mediatori culturali
che facciano da interprete. E invece, in molti casi, si limitano a
protestare per “l’invasione”».
Muore Leonardo Benevolo, la notizia fa il giro del mondo ma alla Rai non sanno chi sia
David Sassoli
7 gennaio 2017
Ieri a 93 anni è morto il professor
Leonardo Benevolo. È stato un importante architetto e un urbanista
famoso nel mondo. Ha scritto libri di storia su cui si sono formate
generazioni di studenti. Ha approfondito questioni sulle nostre città
e sulle periferie che oggi sono drammaticamente di attualità. Ha
redatto piani regolatori nelle più importanti città italiane. È
stato un intellettuale che ha partecipato a lungo alla vita culturale
e politica del nostro paese, affine a quei cattolici “a modo loro”
– Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Paolo Prodi, Luigi Bazoli,
Paola Gaiotti, Paolo Giuntella e tanti altri – che dal divorzio in
poi hanno animato dibattito e iniziativa alla ricerca di soluzioni
non conformiste.
Ieri Leonardo Benevolo se n’è andato
e la Rai neppure se n’è accorta. Nei principali tg della sera
neanche una breve con foto per dire “si è spento”. Niente di
niente. Soltanto oblio da parte di un’azienda di servizio pubblico
che dovrebbe essere la prima azienda culturale italiana. Un’azienda
culturale che non rende omaggio agli uomini della nostra cultura.
Purtroppo non è un controsenso, ma il filo rosso di un declino prima
di tutto di quella sensibilità che dovrebbe animare lo spazio
pubblico. Di fronte a fatti del genere la Rai dovrebbe riflettere su
come sviluppare anticorpi in grado di rispondere alla propria
funzione. La morte del professor Benevolo è il paradigma di questa
sfida. Non c’ė studente di architettura che non abbia studiato sui
suoi libri, storico che non abbia dovuto fare i conti con le
conclusioni delle sue ricerche, intellettuale che non si sia
confrontato con analisi e opinioni consegnate per lunghi anni alle
prime pagine dei più importanti quotidiani italiani.
Non spetta a noi analizzare il valore
del suo percorso professionale e l’importanza che il professor
Benevolo occupa nella storia della cultura italiana. A noi non resta
che soffrire guardando un servizio pubblico che non si mostra in
grado di far partecipare la propria comunità nazionale al lutto per
la perdita di una eccellenza italiana riconosciuta a livello
internazionale e non concede cittadinanza ad un maestro a cui il
presidente Ciampi nel 2003 consegnò la medaglia d’oro per meriti
culturali.
Per Benevolo ieri non c’era spazio nei tg della Rai. Ma fuori dalla Rai c’è una vita del paese che la Rai non può oscurare se vuole meritarsi la fiducia dei contribuenti.
Per Benevolo ieri non c’era spazio nei tg della Rai. Ma fuori dalla Rai c’è una vita del paese che la Rai non può oscurare se vuole meritarsi la fiducia dei contribuenti.
venerdì 6 gennaio 2017
Delrio: «Il piano povertà? Ok entro un mese»
Marco Iasevoli
Avvenire venerdì 6 gennaio 2017
Il ministro delle Infrastrutture: «I
soldi alle banche? Abbiamo evitato nuovi poveri. Ma il Pd non si
pieghi alla finanza»
A volte bastano quattro giorni di ferie
per ricaricare le pile, assorbire le sconfitte politiche, azzardare
un rilancio. Graziano Delrio, forse il primo amministratore del Pd a
'vedere' la leadership di Renzi quando l’attuale segretario dem era
considerato dal partito una sorta di alieno, sistema in una
cartellina le carte del prossimo dossier da affrontare al ministero
dei Trasporti, il caso Alitalia. Uno degli infiniti tasselli da
rimettere a posto. Anche se, inutile negarlo, nella testa c’è lo
scenario di un voto che potrebbe arrivare entro l’estate. Una
scadenza vicina che impone di pensare a un progetto nuovo. «Ho detto
a Matteo una cosa, una cosa soltanto, la notte del 4 dicembre: non
possiamo morire schiacciati tra populismo e capitalismo rapace. I
mesi che abbiamo davanti dobbiamo utilizzarli per fare una proposta
vera che combatta le cause autentiche della disuguaglianza. La
politica non serve ai ricchi, quelli fanno da sé. Serve ai più
deboli. Alle famiglie. A chi rischia di perdere reddito. La politica
deve creare lavoro per chi non ne ha. Non possiamo presentarci ai
cittadini e agli elettori senza un’identità chiara e netta sui
temi sociali. Senza, per essere chiari, una posizione forte contro la
finanza malata che condiziona l’economia reale e la vita delle
persone. I nuovi poveri, non lo dimentichiamo, sono ancora i figli
della crisi finanziaria del 2008. Non meravigliamoci se le classi
sociali più deboli hanno votato Trump negli Usa e la Brexit in
Inghilterra. Le classi dirigenti del secolo scorso affrontarono le
rendite di posizione con l’economia sociale di mercato, con il
welfare. Questo Paese ha bisogno di un partito che prende le parti
del popolo non con la demagogia ma con scelte coraggiose».
Ministro, vuol dire che il precedente
governo è stato timido sul sociale?
No. E non è una difesa d’ufficio. Questo Paese non aveva uno strumento contro la povertà, e ora è sul punto di averlo. Era stato svuotato il Fondo per la non autosufficienza, ora di nuovo finanziato. Il Servizio civile era distrutto e ora è ripartito. Ci siamo mossi sul sociale sin dal primo giorno, ma forse abbiamo sottovalutato la portata dei fenomeni che si muovevano intorno a noi su scala europea e globale.
No. E non è una difesa d’ufficio. Questo Paese non aveva uno strumento contro la povertà, e ora è sul punto di averlo. Era stato svuotato il Fondo per la non autosufficienza, ora di nuovo finanziato. Il Servizio civile era distrutto e ora è ripartito. Ci siamo mossi sul sociale sin dal primo giorno, ma forse abbiamo sottovalutato la portata dei fenomeni che si muovevano intorno a noi su scala europea e globale.
Ora ci sarebbe la possibilità di recuperare subito tempo facendo partire il Reddito d’inclusione, e
invece anche tra i ministri e nella maggioranza si discute
sull’opportunità o meno di un decreto. Il Paese non capisce...
E infatti il dibattito sullo strumento legislativo è davvero relativo. In un mese il Senato può chiudere l’iter della legge delega. Nel frattempo i decreti attuativi si possono già scrivere, non c’è bisogno di aspettare. Ci sono da chiarire alcuni aspetti tecnici su beneficiari e meccanismi di erogazione, ma ciò non richiede certo tempi biblici. La volontà del governo e del Parlamento c’è. Ricordiamoci però che la ratio di questa misura è aiutare le persone a uscire dall’indigenza, non dare l’elemosina o piazzare una bandierina politica.
E infatti il dibattito sullo strumento legislativo è davvero relativo. In un mese il Senato può chiudere l’iter della legge delega. Nel frattempo i decreti attuativi si possono già scrivere, non c’è bisogno di aspettare. Ci sono da chiarire alcuni aspetti tecnici su beneficiari e meccanismi di erogazione, ma ciò non richiede certo tempi biblici. La volontà del governo e del Parlamento c’è. Ricordiamoci però che la ratio di questa misura è aiutare le persone a uscire dall’indigenza, non dare l’elemosina o piazzare una bandierina politica.
Difficile però combattere la povertà
diffusa nel Paese con 1,8 miliardi. E certamente non appare felice la
coincidenza tra la difficoltà a condurre in porto questa misura e la
facilità con cui sono stati stanziati 20 miliardi per le banche in
crisi...
Chiariamoci su questo punto: senza la garanzia una tantum di 20 miliardi per le banche avremmo portato sulla soglia di povertà svariate altre migliaia di famiglie e persone. Quanto alla dotazione dello strumento anti-indigenza, è corretta la stima di 7 miliardi dell’Alleanza contro la povertà. Chiunque governi, ci dobbiamo arrivare progressivamente. Noi, lo ricordo in un Paese che sembra sempre più senza memoria, partivamo da zero.
Chiariamoci su questo punto: senza la garanzia una tantum di 20 miliardi per le banche avremmo portato sulla soglia di povertà svariate altre migliaia di famiglie e persone. Quanto alla dotazione dello strumento anti-indigenza, è corretta la stima di 7 miliardi dell’Alleanza contro la povertà. Chiunque governi, ci dobbiamo arrivare progressivamente. Noi, lo ricordo in un Paese che sembra sempre più senza memoria, partivamo da zero.
Lei ha nove figli e viene dalla
tradizione cattolico-democratica: ritiene sufficienti le politiche
familiari del governo Renzi?
Anche qui, prenderei il punto di partenza, ovvero il poco, il pochissimo che abbiamo trovato. Ora c’è un sostegno robusto a chi ha figli, un’integrazione del reddito per chi deve sostenere le prime spese per un bimbo. È chiaro che bisogna fare di più. Credo che il prossimo programma del Pd non debba aver paura di mettere la famiglia al centro e riconoscere che nelle fragilità della famiglia si insinua lo spettro della povertà.
Anche qui, prenderei il punto di partenza, ovvero il poco, il pochissimo che abbiamo trovato. Ora c’è un sostegno robusto a chi ha figli, un’integrazione del reddito per chi deve sostenere le prime spese per un bimbo. È chiaro che bisogna fare di più. Credo che il prossimo programma del Pd non debba aver paura di mettere la famiglia al centro e riconoscere che nelle fragilità della famiglia si insinua lo spettro della povertà.
Parla di programma, quindi non è
tentato come altri dalla voglia di concludere la legislatura...
La premessa è doverosa: il governo Gentiloni e il voto sono nelle mani del Parlamento e del capo dello Stato. Però l’orizzonte che ha davanti, a mio parere, non è lungo. I cittadini e gli elettori vanno rispettati: il 4 dicembre hanno espresso un chiaro bisogno di partecipare e ridefinire lo scenario politico. Non essendo possibile votare a febbraio, la maggioranza si è fatta carico di un esecutivo di servizio che accompagni il Parlamento nel periodo che servirà a definire le regole elettorali. Dire che questo processo si conclude entro giugno mi sembra plausibile. Il 24 gennaio, con la sentenza della Consulta sull’Italicum, i tasselli saranno più chiari e tutti dovranno uscire allo scoperto.
La premessa è doverosa: il governo Gentiloni e il voto sono nelle mani del Parlamento e del capo dello Stato. Però l’orizzonte che ha davanti, a mio parere, non è lungo. I cittadini e gli elettori vanno rispettati: il 4 dicembre hanno espresso un chiaro bisogno di partecipare e ridefinire lo scenario politico. Non essendo possibile votare a febbraio, la maggioranza si è fatta carico di un esecutivo di servizio che accompagni il Parlamento nel periodo che servirà a definire le regole elettorali. Dire che questo processo si conclude entro giugno mi sembra plausibile. Il 24 gennaio, con la sentenza della Consulta sull’Italicum, i tasselli saranno più chiari e tutti dovranno uscire allo scoperto.
Lei si è rassegnato al ritorno al
proporzionale?
Francamente no. Ricordo bene la debolezza dei governi quando era in vigore il proporzionale puro. E governi deboli sono a discapito di chi ha bisogno, non di chi sta bene e vive di rendita. Io prediligo il Mattarellum, con tutti i ritocchi che si ritengono necessari. È una proposta che facciamo a tutti, senza interlocutori privilegiati. Lega ed M5S, se davvero vogliono andare al voto, si facciano avanti. Dialoghiamo con tutti, senza pregiudizi. E chiediamo a Forza Italia di non porre veti.
Francamente no. Ricordo bene la debolezza dei governi quando era in vigore il proporzionale puro. E governi deboli sono a discapito di chi ha bisogno, non di chi sta bene e vive di rendita. Io prediligo il Mattarellum, con tutti i ritocchi che si ritengono necessari. È una proposta che facciamo a tutti, senza interlocutori privilegiati. Lega ed M5S, se davvero vogliono andare al voto, si facciano avanti. Dialoghiamo con tutti, senza pregiudizi. E chiediamo a Forza Italia di non porre veti.
Resta il tema: quale Pd si presenta ai
cittadini dopo la 'botta' del 4 dicembre? E come si imposta una
campagna elettorale partendo dall’ipotesi che lo sbocco possano
essere le larghe intese con Forza Italia?
E infatti questo per me non è lo sbocco obbligato, non si parte da questo esito ineluttabile. Per me la vocazione maggioritaria del Pd resta. Se ci diamo un’identità sociale forte e se non cediamo al proporzionale puro possiamo giocare pienamente la partita di una 'terza via' tra il populismo e la consegna della politica al capitalismo rapace.
E infatti questo per me non è lo sbocco obbligato, non si parte da questo esito ineluttabile. Per me la vocazione maggioritaria del Pd resta. Se ci diamo un’identità sociale forte e se non cediamo al proporzionale puro possiamo giocare pienamente la partita di una 'terza via' tra il populismo e la consegna della politica al capitalismo rapace.
In diversi però, nella maggioranza e
nell’opposizione, stanno sottolineando la 'discontinuità' di
Gentiloni forse anche per rafforzare l’ipotesi di concludere la
legislatura...
Tra Paolo e Matteo c’è continuità assoluta. I toni, certo, sono diversi. E anche il contesto. Matteo prese un Paese immobile e doveva fare tutto in fretta per non restare impantanato. Paolo può lavorare su obiettivi precisi e specifici. Ma la visione del Paese e dei futuri scenari politici è identica.
Tra Paolo e Matteo c’è continuità assoluta. I toni, certo, sono diversi. E anche il contesto. Matteo prese un Paese immobile e doveva fare tutto in fretta per non restare impantanato. Paolo può lavorare su obiettivi precisi e specifici. Ma la visione del Paese e dei futuri scenari politici è identica.
Si è parlato anche di lei come
'premier di servizio'. E il suo rapporto con Renzi è sempre oggetto
di indiscrezioni, presunti avvicinamenti e allontanamenti. Che vento
tira?
Con Matteo il sodalizio è sempre forte. Resto il 'fratello maggiore', e i fratelli si dicono le cose faccia a faccia, senza complessi, con amicizia. Io premier? Gentiloni è molto bravo.
Con Matteo il sodalizio è sempre forte. Resto il 'fratello maggiore', e i fratelli si dicono le cose faccia a faccia, senza complessi, con amicizia. Io premier? Gentiloni è molto bravo.
Iscriviti a:
Post (Atom)