Archiviato il primo turno delle amministrative, con alcuni risultati clamorosi, è già partito il secondo round. Un secondo round che si annuncia apertissimo (a Milano in particolare). Facciamo un’analisi, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio del Senato, sul risultato deludente del Partito Democratico.
di
Pierluigi Mele 07 giugno 2016
Senatore Tonini, ieri il premier Matteo
Renzi si è detto "non soddisfatto" dell'esito del primo
turno elettorale amministrativo, ma continua a non riconoscere una
rilevanza nazionale alla competizione. Mi scusi la provocazione, non
è presuntuosa come posizione?
Tutti hanno capito che il voto è
stata una sberla per il PD e per Renzi.
Per Lei?
Due anni fa, il 25
maggio del 2014, alle elezioni europee, il Pd guidato da Matteo Renzi
conquistava il 40,8 per cento dei voti e 31 seggi al parlamento di
Strasburgo, affermandosi come il primo partito d'Europa. Lo stesso
giorno, il Pd perdeva comuni importanti, da decenni amministrati da
sindaci di sinistra, come Livorno, Perugia, Potenza. Quel giorno
dunque, migliaia di cittadini si sono recati ai seggi elettorali,
hanno preso due schede, sono entrati nella cabina e in una scheda,
quella per il parlamento europeo, hanno messo una bella croce sul
simbolo tricolore del Pd, mentre l'altra, quella per le comunali,
l'hanno usata per mandare a casa un sindaco del Pd. Non c'è nulla di
provocatorio o di presuntuoso nel ricordare a tutti noi che una parte
significativa e crescente degli elettori non vota più sulla base di
un sentimento di appartenenza a questa o quella comunità politica,
ma effettua le sue scelte sulla base di un giudizio politico
circostanziato: che riguarda il governo nazionale, alle elezioni
politiche generali, e invece il sindaco quando si deve eleggere il
primo cittadino del proprio comune. Questa capacità di distinguere
sì è vista in modo clamorosamente evidente quel 25 maggio di due
anni fa. Ma si è vista anche domenica scorsa, con la vistosa
multiformità del voto alle amministrative, nel quale ognuna delle
grandi città che andavano al voto ha fatto storia a sé. Basti
pensare a Napoli e Salerno: il peggiore e il migliore risultato per
il Pd si sono realizzati a pochi chilometri di distanza. A Napoli
siamo fuori dal ballottaggio, a Salerno vinciamo al primo turno col
70 per cento. Ho l'impressione che il governo c'entri poco sia col
primo che col secondo risultato. Il Pd indubbiamente ha preso qualche
sberla, peraltro annunciata, ma ha anche messo a segno qualche buon
risultato. Tutte le forze politiche maggiori possono dire di aver
vinto da qualche parte, ma nessuna può dire di aver vinto queste
elezioni come tali. Tra le forze maggiori, il Pd è il partito che
esce con più risultati utili da questa tornata elettorale: più
eletti al primo turno, più candidati piazzati al ballottaggio.
Vediamo al dato politico: sul ballottaggio oltre a Roma e Milano
anche Torino è a rischio, se dovesse esserci la confluenza del voto
leghista sul candidato 5 stelle. Insomma a parte Roma, dove le cause
del risultato del PD sappiamo quali sono, come mai invece a Milano e
Torino, dove il centrosinistra ha governato bene, il PD rischia così
tanto?
Sia a Milano che a Torino il candidato sindaco del Pd è al
ballottaggio con più del 40 per cento dei voti. Ma non è affatto
scontato l'esito finale di entrambi i confronti. A Torino, come per
altri versi a Bologna, il centrosinistra governa da sempre e deve
quindi fare i conti con la fisiologica voglia di cambiamento, tanto
più forte in un contesto di disagio sociale, come ha giustamente
ricordato Fassino. Non basta avere governato bene, bisogna anche
riuscire ad essere e apparire "alternativi a se stessi",
come raccomandava Moro alla Dc. A Milano, la candidatura di Sala, che
poteva dilagare in un centrodestra ridotto ad un disordinato campo di
forze, ha invece provocato una riorganizzazione di quello
schieramento, riproponendo un confronto bipolare classico
centrodestra contro centrosinistra. Uno scenario virtuoso, che rende
i milanesi giustamente orgogliosi. Grazie a Pisapia, grazie a Sala e
grazie anche alla intelligente risposta del centrodestra. La
differenza rispetto al passato è che stavolta è il centrodestra a
inseguire. Ma il confronto è apertissimo.
Milano è strategica per
il PD, Sala che carta può giocare per riuscire a vincere il "derby"
con Parisi?
La candidatura di Parisi è espressione di un
centrodestra che si è ricompattato sotto la guida di Berlusconi e su
una linea di governo. Tanto di cappello, ma si tratta di un accordo
tattico, dietro il quale permangono radicali divergenze strategiche,
tra il lepenismo di Salvini e i moderati di Lupi e Albertini. Parisi,
qualora diventasse sindaco, potrebbe trovarsi dinanzi a
contraddizioni insanabili. Dietro Sala c'è invece uno schieramento
molto più coeso e armonico, sotto il profilo politico e
programmatico. L'astensione ha pesato tanto per il PD, molti elettori
di sinistra non sono andati a votare (sinistra italiana è stata una
delusione).
Insomma qualcosa dovra' pur cambiare nel pd e nel governo
per riconquistare quell'elettorato: è ora di ripensare il doppio
incarico di Renzi?
Dalle prime analisi sui flussi emerge una perdita,
da parte del Pd, di elettori tradizionalmente di sinistra, solo
parzialmente compensata (e non dappertutto) dall'arrivo di elettori
moderati. In parte questo è il prezzo inevitabile di politiche
innovative, sia nazionali che locali, che non si possono fare a costo
zero in termini di consenso, almeno nell'immediato. Il fatto peraltro
che questi elettori non premino le piccole formazioni di sinistra a
sinistra del Pd, ma si dirigano o verso il non-voto o verso il M5s,
ci dice che il rimedio a questo problema non sta nel ritorno al
passato, ma in un di più di innovazione, sia sul piano dei contenuti
programmatici, sia su quello delle forme della politica. Una
innovazione, beninteso, che non può vivere solo nei laboratori di
ricerca, ma deve vivere nel rapporto quotidiano con il popolo. Non
servirebbe a nulla quindi né tornare ai vecchi linguaggi della
sinistra né farsi prendere dalla nostalgia per un vecchio modello di
partito da lunga pezza superato dai fatti. È fuor di dubbio che
serva un salto di qualità nel governo del partito, ma sarebbe una
pia illusione cercarlo nella riproposizione di un vecchio dualismo
"democristiano" tra segretario e premier: un dualismo che
già nel 1970 un allora giovane Leopoldo Elia giudicava incompatibile
con una politica riformista.
Il Boom dei 5 Stelle è stato
sorprendente (roma e torino), anche se non tutti i candidati sono
andati bene. Cosa ha reso competitivo questo movimento rispetto al
PD? Non sarebbe ora di prenderli sul serio?
Ciò che rende
competitivo il M5s è la sua natura esasperatamente post-ideologica,
che gli consente di sommare elettori delusi sia dal centrosinistra
sia dal centrodestra. Demonizzare non serve a niente. Semmai si
tratta di sfidarli a maturare politicamente. In questi giorni, i
leader del movimento stanno dicendo all'unisono che la "favoletta"
che sarebbe un sentimento di mera protesta a gonfiare le loro vele,
non regge più. È vero, ma solo fino ad un certo punto. Spetta a
loro dimostrare di essere capaci di proposta e non solo di gridare un
"vaffa" alla classe politica. Un banco di prova è proprio
la riforma costituzionale ed elettorale. Il Referendum è
l'armageddon di Renzi.
Non trova che è stato un clamoroso errore
politico far partire subito la campagna per il SI. O comunque non
vede rischi, dopo questi risultati, per un esito positivo del
Referendum?
I risultati delle amministrative, se letti con
attenzione, dovrebbero rappresentare un potente incentivo a sostenere
la riforma con un bel SÌ, forte e chiaro, al referendum. Dico questo
per due ragioni. La prima è di sistema. In un contesto politico
multipolare ad elevata frammentazione, che ne sarebbe dei comuni se
non potessero avvalersi dei benefici della elezione diretta del
sindaco col doppio turno? Immaginatevi cosa succederebbe a Roma se il
sindaco dovesse eleggerlo un consiglio comunale espresso in modo
proporzionale dal voto di domenica scorsa. Sarebbe, semplicemente, il
caos. E invece, tra due settimane, i romani decideranno col loro voto
se il sindaco sarà la Raggi o sarà Giachetti. E così in tutte le
altre città. La riforma Boschi e l'Italicum, con i dovuti
adattamenti, applicano al governo nazionale lo stesso schema: alla
fine c'è uno che vince e governa per cinque anni, grazie ad una
maggioranza certa, nell'unica Camera titolare del potere di fiducia.
Senza minimamente intaccare il sistema di garanzie e contrappesi.
Sento dire, anche nel mio partito, che bisognerebbe rivedere
l'Italicum perché non siamo più in un contesto di bipolarismo
politico, ma almeno di tripolarismo o forse di multipolarismo. E che
il sistema previsto dalla riforma rischia di far vincere il M5s. A me
queste sembrano due osservazioni che rafforzano le ragioni del SÌ
alla riforma. Proprio perché siamo in un contesto multipolare c'è
bisogno di un sistema che alla fine produca un vincitore, se non
vogliamo condannare il paese all'ingovernabilità, che è anche, non
dimentichiamolo, il vero pericolo per la democrazia. Il fatto poi che
con la riforma tutti possano vincere, a cominciare proprio
dall'ultimo arrivato, il M5s, è il più potente argomento contro la
teoria di un Renzi uomo solo al comando che si disegna un abito
costituzionale e una legge elettorale su misura.
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