Tortuga dal blog l'inkiesta
Il governo Renzi ha deciso di
rinunciare alla redistribuzione e si è lanciato su riforme per
aumentare la produttività e la crescita. Ma se gli investimenti
finalmente tornano a salire, ora servono segnali dalla produttività
per consolidare la ripresa dopo un ventennio bruciato
Stefano Fassina ha definito la politica
economica di Matteo Renzi un “liberismo da happy days”,
Berlusconi lo accusa di “copiare il nostro programma”, Brunetta e
i Cinque Stelle la giudicano fallimentare e incoerente. In effetti,
le ricette economiche di Renzi non erano chiare fin dall’inizio,
hanno piuttosto preso forma col proseguire degli eventi e dell’azione
di governo, passo dopo passo, cercando di mantenere un equilibrio
politico precario e cogliendo le occasioni quando si presentavano.
Questa politica economica, giudicata da
alcuni un po’ “à la carte”, si è lanciata con forza su
riforme riconosciute come “prioritarie”, “di buon senso”,
“necessarie” per il rilancio dell’economia in termini
produttività e crescita. Piuttosto che da una volontà di
redistribuzione della ricchezza o di difesa di particolari interessi
o classi sociali, la Renzinomics sembra partire dal concetto che in
vent’anni di mancate riforme l’economia italiana sia rimasta ben
al di sotto della sua frontiera di efficienza, lasciando ampio spazio
per provvedimenti “pareto improving”, in grado nel lungo periodo
di alzare tutte le barche, aumentando la torta per tutti. Pochi
preconcetti (si parte “da sinistra” ma anche “parlando alla
parte più produttiva del Paese”), molto focus sui risultati. Per
questo forse il dibattito sui dati è più infiammato del solito: la
pura efficacia in termini economici della politica di Renzi è per
molti la discriminante fondamentale nel giudizio sul governo.
“Secondo l’Ocse, se implementate
fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad
un rialzo del Pil del 6 per cento”
Purtroppo, i dati non sono così
semplici da interpretare, ma sono facili da estrapolare e sfoderare
in un discorso o in un “cartello” di un programma televisivo.
Crediamo invece sia utile tirare un attimo le fila riguardo ai
fondamentali della nostra economia: crescita, debito e finanza
pubblica, lavoro, diseguaglianza e povertà saranno i capitoli su cui
costruiremo questa analisi. Facciamo quindi una panoramica
volutamente generale, confrontando l’Italia con i partner europei,
guardando agli ultimi decenni e utilizzando qualche stima nel breve
periodo da fonti autorevoli.
In termini reali l’Italia ha
sicuramente recuperato terreno rispetto ai principali partner
europei. La crescita del nostro Paese raggiungerà livelli di poco
inferiori alla Germania nel 2016, superando la Francia. Padoan
you-tuber annuncia questo risultato come il successo della politica
di riforme, che ha restituito credibilità e capacità di innovare al
Paese. Questa visione è in buona parte condivisa da molti analisti,
dalla Commissione Europea e dall Ocse, secondo cui “se implementate
fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad
un rialzo del Pil del 6 per cento”. Tra queste riforme, si citano
la riforma del processo civile, della Pa, il credito d’imposta R&S,
ma sopratutto il Jobs Act. Secondo l’Ocse, la riforma del lavoro
“traina la crescita”, puntando a sbloccare le assunzioni, a
favorire l’investimento in formazione, a rendere più flessibile il
mercato del lavoro a fronte però di maggiori sussidi di
disoccupazione.
“Prima o poi, il segno più dovrà
venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e
della produttività. Gli investimenti negli ultimi sei anni sono
crollati, con una ripresa solo negli ultimi trimestri”
Bisogna tuttavia considerare i fattori
esterni di cui ha beneficiato la nostra economia, per esempio il
basso prezzo del petrolio, che per un Paese con poche risorse
energetiche come il nostro significa un crollo nei costi di
produzione, ed il QE, che garantisce bassi interessi sul debito
pubblico e un euro debole a favore dell’export. Inoltre, come
spiegato in questo articolo, le manovre “espansive”, ovvero che
utilizzano un deficit di bilancio come successo nel 2014 e nel 2015,
per definizione danno una spinta “extra” al Pil che in futuro
dovrà essere rimodulata, per evitare l’aumento esponenziale del
debito. Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal
deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività.
Investimenti e produttività erano in
effetti due punti chiave del programma Renzinomics: con crescita
demografica nulla, investire nell’innovazione ed aumentare la
produttività rappresentano l’unica strada per poter crescere nel
lungo periodo. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati ad un
ritmo medio di 80 miliardi l’anno: le aziende ed i privati hanno
congelato gli investimenti, lo Stato ha ridotto la spesa in conto
capitale e gli investitori stranieri sono stati spaventati da un
Paese inefficiente e a rischio default. Negli ultimi trimestri vi è
stato tuttavia un netto miglioramento: da gennaio gli investimenti
hanno ricominciato a crescere fino al 6% a trimestre e l’Italia è
tornata tra le prime 20 mete per gli investimenti esteri. Ora
bisognerà vedere se anche la produttività reagirà ai nuovi
investimenti e alle riforme che, come quella del lavoro, hanno
l’esplicito obiettivo di aumentare la formazione dei lavoratori e
l’efficienza del mercato del lavoro.
Se questo governo ha davvero cambiato
verso alla crescita del Paese si vedrà quindi solo nei prossimi
anni. Tuttavia, allargando lo sguardo ai dati decennali, dobbiamo
renderci conto di come l’Italia esca da un ventennio completamente
bruciato: in termini reali, il Pil si attesta su una media di -0,75%
tra 2001 e 2014, peggio della Grecia. Il fatto che dopo decenni di
stagnazione e i duri colpi inflitti della doppia crisi il nostro
Paese stia reagendo testimonia, come dice Padoan, la resilience della
nostra economia. In aggiunta a questo, bisogna però riconoscere i
meriti di un contesto politico mutato rispetto al Berlusconi deriso
in Europa o alle manovre d’emergenza del governo Monti, insieme a
una politica economica giudicata favorevole alla crescita dalla
maggior parte degli addetti ai lavori e che forse permette una
maggiore fiducia, perseguendo esplicitamente un obbiettivo di
crescita della produttività.
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