Stefano Cagelli
L'Unità 30 novembre 2015
Il partito, l’ideologia, le primarie, il doppio ruolo di
premier-segretario, il rinnovamento: otto anni dopo la sua nascita,
il punto sul Pd con uno dei suoi principali teorici
È stato uno dei teorici più autorevoli del Partito democratico.
Otto anni dopo gli abbiamo chiesto quanto di quell’idea originaria
ci sia nel partito di oggi. Michele Salvati, economista e politologo
vede il bicchiere mezzo pieno: “Il Pd di oggi si avvicina molto a
quello che ci eravamo immaginati”. Non nasconde le difficoltà e
percepisce tutta la delicatezza del momento. “Diamo tempo a Renzi,
ma lui si occupi di più del partito”. Nella nostra chiacchierata
parliamo di primarie e di rottamazione, del ruolo del
premier-segretario e della necessità di una nuova elaborazione
ideologica.
Professore, otto anni dopo la nascita del Pd, che
partito abbiamo? Si avvicina a quella che era la sua
idea originaria?
“Anche se non coincide perfettamente con l’idea di partito che
avevamo allora, si può dire che si avvicina molto. Crollate le
grandi ideologie del passato, dal comunismo alla visione dei
democristiani di sinistra, l’ideale comune alla base della nascita
del Partito democratico doveva essere quello che io chiamo
‘liberalismo di sinistra’. E così è stato, in questo senso si
può dire che quello che abbiamo oggi si avvicina all’idea di
partito riformista che avevamo otto anni fa”.
In questi otto anni il Partito democratico è cambiato
molto e molto rapidamente. Dalla brevissima ma intensa suggestione
del Partito del Lingotto con Veltroni alla ditta di Bersani, fino al
partito del cambiamento di Renzi basato sul concetto forte di
rottamazione. In quale di queste impostazioni si è ritrovato di più?
“Io mi sono ritrovato, da subito con l’impostazione iniziale
di Veltroni, perché lui rappresentava l’idea di partito liberale
di sinistra. Un partito che superava nettamente le due componenti
ideologiche che hanno dato origine al Partito democratico, cioè
quella democristiana di sinistra e quella comunista. Dopo di lui la
cosa si è attenuata, le due componenti di un tempo, benché
ideologicamente defunte, sono tornate ad emergere. Con Renzi è
avvenuta una cosa che non poteva accadere con Veltroni: il
superamento delle tradizioni precedenti. Renzi è il primo leader del
Pd veramente post ideologico”.
Nei giorni scorsi uno dei ‘renziani della prima ora’,
Matteo Richetti, ha dato voce ad un malcontento abbastanza diffuso.
Partendo dalla constatazione che la rottamazione, soprattutto sui
territori e specialmente nella scelte delle candidature, sia
sostanzialmente fallita, ha lanciato un campanello d’allarme: “Il
Pd – ha detto – è un partito senza identità”. E’ d’accordo?
“Non sono d’accordo con l’idea che il Pd sia un partito
senza identità. Sono però d’accordo con il fatto che la
rottamazione, intesa come necessario processo di cambiamento, sui
territori non si sia ancora compiuta. Stiamo però parlando di un
processo che è in corso ed estremamente difficile e complesso.
Tenendo conto che Renzi ha dovuto lavorare sulla rielaborazione di un
messaggio ideologico da una parte e su un’agenda di governo
particolarmente fitta dall’altra, io gli concederei ancora spazio
per affrontare la questione del partito”.
Se c’è un problema di gestione del partito, a fronte di
quanto di buono sta facendo invece il governo, crede che la questione
del doppio incarico premier-segretario debba essere rivista?
“Assolutamente no, non vorrei che si approfittasse di questa
situazione per rimettere mano a quella norma. Tornare alla
distinzione tra capo del governo e capo del partito porterebbe ad un
dualismo che ad un certo punto diventerebbe insanabile con l’uomo
del partito che inevitabilmente vorrebbe esercitare un’azione di
controllo sull’uomo del governo. Io credo che il segretario, anche
delegando, debba trovare le risorse che gli consentano di tenere
sotto controllo la gestione del partito. Soprattutto per quanto
riguarda il rapporto con i poteri locali, c’è bisogno di un
partito forte. Se Renzi riesce a lavorare bene sull’ideologia, a
far passare l’idea che l’essere dei liberali di sinistra è
altrettanto sexy che essere dei rivoluzionari, penso che gli riuscirà
anche meglio il lavoro di ricucitura sui territori. Sì, credo che
Renzi debba ristudiare la forma di interazione personale con il
partito e con le sue componenti”.
Primarie sì, primarie no. L’ultimo caso che sembra aver
mandato un po’ in tilt il partito è proprio quello di Bassolino a
Napoli. Secondo lei le primarie sono ancora uno strumento identitario
del Pd e pensa sia necessario apportare delle modifiche allo statuto
affinché non diano più adito a polemiche?
“Le primarie sono regolate bene, complessivamente. Pensare a
modifiche in questo momento sarebbe folle, ma quando lo si potrà
fare, lontano da appuntamenti elettorali, io una modifica la farei.
Il successo delle primarie sta nel fatto che allargano la platea di
votanti rispetto alla base classica del partito degli iscritti, dei
militanti. Ma perché le primarie possano esercitare questo ruolo ci
deve essere una partecipazione piuttosto elevata di persone. La
modifica che farei è l’inserimento di un quorum: per esempio
potremmo tenere contro del risultato delle primarie solo se andassero
al voto almeno il 10-15% del numero di elettori che ha votato Pd alle
precedenti elezioni. Dopodiché se la partecipazione non supera
quella soglia, il partito ha il diritto-dovere di intervenire e
scegliere il candidato”.
A proposito di primarie, a Milano c’è un dibattito
aperto sulla scelta del candidato sindaco che succederà Giuliano
Pisapia. Uno dei nomi forti è quello del commissario di Expo
Giuseppe Sala. Come giudica la sua (probabile) candidatura?
“Sala è un bravo amministratore, che ha avuto un grande
successo e una grande notorietà e che assicura di stare nell’alveo
politico-culturale del Partito democratico. Perché non Sala dunque?
Io vedo due problemi. Il primo, che spero non si avveri, è che
qualche procuratore assetato di notorietà tiri fuori qualcosa che
può essere successo durante l’organizzazione di una manifestazione
così complessa e così grande come Expo. Se venissero fuori
questioni che riguardano Sala nel bel mezzo delle primarie sarebbe un
danno non di poco conto. Il secondo rischio della candidatura di Sala
è che assomiglia troppo all’uomo per tutte le stagioni, al buon
amministratore di condominio che non ha dietro un afflato politico di
spessore”.
Sono anni che sentiamo parlare della necessità di
rinnovamento della classe dirigente, della necessità per i partiti
di fare selezione e formazione. Di fatto, secondo lei, come si forma
un nuovo gruppo dirigente, solo attorno alle figure dei nuovi leader?
“I nuovi leader sono sicuramente essenziali, ma non bastano alla
formazione di una nuova classe dirigente. Io credo che debba esserci
una grande varietà di esperienze, anche professionali. Mi piace
l’idea di nuovi leader che si dedichino con passione alla politica
ma che abbiano anche altre competenze alla base, gente che non viva e
non sia sempre vissuta di sola politica. Vi è poi la necessità,
secondo me, che nel partito venga costruito un gruppo che si occupa
di elaborazione ideologica e teorica. E’ assolutamente essenziale,
soprattutto per una visione estremamente moderna di partito di
sinistra come quella di Renzi”.
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