domenica 4 settembre 2016

basta un sì

“Basta un sì”. Testimonial a sorpresa del Comitato per il Sì al referendum costituzionale alla Festa de l’Unità di Milano

A che punto è la notte


Walter Veltroni
L'Unità 4 settembre 2016
Tutto sta cambiando e ciascuno di noi credo debba sentirsi interpellato dai grandi quesiti che questo tempo di transizione porta con sé
“A che punto è la notte?”. È la frase con la quale si apre il secondo atto del Macbeth di Shakespeare e, conseguentemente, il titolo di un libro degli indimenticati Fruttero e Lucentini. Il Partito democratico di Spello, magnifico luogo italiano dove il 10 febbraio del 2008 presentai l’identità dell’allora nascente Pd, mi ha invitato a parlare, alla festa de l’Unità, partendo da questa frase. Già la sera precedente a Pesaro e prima ancora a Bologna mi aveva colpito la quantità di persone e di attenzione che ha accompagnato incontri nei quali non si parlava di attualità politica, non si entrava nelle polemiche del giorno dato.
Si è pensato insieme, si sono cercate le parole giuste per dare ragione alle cose che accadono e che, altrimenti, possono apparire un caos nero e nervoso per fronteggiare il quale la paura e la rabbia sembrano la ricetta migliore. Invece l’unica via è attivare ragione e speranza, cervello e cuore. La politica, quella grande e bella, deve servire a questo, proprio a questo. Forse sbaglio, tuttavia a me pare che , specie tra la nostra meravigliosa gente, ci sia un grande bisogno di ritrovare le ragioni profonde dell’impegno politico e del sentirsi sinistra moderna. In un tempo frettoloso, fatto di slogan, di invettive rapide e intrise d’odio, di semplificazioni bambinesche io credo che esista, in modo diffuso, la necessità delle motivazioni più grandi e alte. Quelle che rendano la politica davvero bella, il senso giusto per persone vere e non un magheggio per furbacchioni e disonesti.
Tutto sta cambiando e ciascuno di noi credo debba sentirsi interpellato dai grandi quesiti che questo tempo di transizione porta con sé. La sinistra è nata per liberare chi lavorava dallo sfruttamento . Oggi la precarietà rende la ricerca o il mantenimento del lavoro una condizione umana nuova e terribile. Chi vive in questo tempo, non lo si sottovaluti, non si sente mai socialmente sicuro. Non ha mai la certezza che , trovata l’occupazione, la sua vita sia stabilizzata e la sua condizione umana resa tranquilla da una retribuzione, una casa, una famiglia, una pensione.
Sembra di vivere sull’acqua e non ci si deve meravigliare, allora, se ogni tanto sembra di affondare e si comincia a gridare e cercare qualsiasi appiglio. La società precaria è, inevitabilmente, una società emotiva. E una società emotiva è più esposta a suggestioni demagogiche o autoritarie. La storia ce lo ha insegnato.
Voglio essere sincero. Non sono sicuro, non sono affatto sicuro, che la democrazia sarà, naturalmente, la forma di governo di questa società. Temo che appaiano oggi più intriganti esperienze di guida veloci e semplificate. Che la democrazia sembri, con le sue deleghe e procedure, un dagherrotipo e che invece appaia come un contemporaneo selfie la decisione immediata di un leader carismatico. E nella stagione dell’odio, in cui siamo ripiombati immemori degli anni settanta, anche il pluralismo appare un di più, non necessario. Oggi non si contrastano le idee dell’altro, lo si demonizza, delegittima, insulta. Si combattono le persone, non le loro idee. Nella convinzione, di cui certe nuove formazioni e culture sono impregnate, di essere depositari della verità rivelata e assoluta. Se non sei come me sei da cancellare. Il mondo , nel suo meraviglioso arcobaleno, è inutile che esista. Chi non è con me è un miscredente o un disonesto. Attenzione, lo dico da osservatore, sta nascendo, sotto le mentite spoglie della dichiarata lotta ai partiti, un nuovo partitismo, la tendenza a portare dentro la logica interna e alle divisioni interne ogni decisione, facendo prevalere sull’interesse generale quello di partito, anche se chiamato movimento.
“A che punto è la notte?”. Fonda, se si guarda, ricordandosene, a quello che accade alle porte dell’Europa, in un paese simile al nostro. Chi dissente è messo in galera, si chiudono giornali e radio, si impedisce, lo ha raccontato Dario Fo, di mettere in scena le sue opere o quelle di Shakespeare. Proprio l’autore di “A che punto è la notte…”. Tutto avviene con il furbo disinteresse di ciascuno. Vengono in mente gli ammonimenti di Brecht sullo stare attenti a non occuparsi della storia, perché poi può essere troppo tardi e può essere la storia a occuparsi, ruvidamente, di te.
Oggi si vota in una regione tedesca. È il land di Angela Merkel, e una sconfitta in casa peserebbe enormemente sulla forza e sul prestigio della cancelliera e sullo stesso destino dell’Europa. I sondaggi, si sa, ormai sono come gli oroscopi. Dicono, speriamo stiano scherzando, che la formazione dell’ultradestra sia oltre il venti per cento. Sarebbe un fatto enorme. Come lo è il risultato che partiti analoghi hanno raggiunto in Austria o si teme possano ottenere in Francia. La notte rischia di essere buia, così. Sembriamo averlo dimenticato, come succede spesso in questo tempo a scadenza settimanale, ma gli inglesi, con il loro voto, hanno deciso di uscire dall’Europa. E, in questi giorni, in Spagna si corre il rischio di precipitare verso le terze elezioni in un anno. Ancora, negli Stati Uniti un estremista corre, speriamo senza arrivare primo, per essere presidente.
In questo contesto, lo dico sommessamente, sarebbe un gravissimo errore far precipitare in una crisi uno dei pochi governi progressisti ed europeisti rimasti. E chi governa apra, includa, si faccia carico della condizione di ansia in cui vive, dopo anni di recessione, la parte più debole del paese.
La democrazia è bellissima e delicata. Deve, per poter fronteggiare questo tempo caotico, essere forte, capace di decidere, capace di attivare le energie esistenti tra i cittadini, chiamandoli a una nuova stagione di partecipazione e potere diffuso. Sarebbe tanto grave se i lavoratori, nel privato come nel pubblico, partecipassero alla gestione delle loro aziende? Se i cittadini fossero chiamati dai comuni non solo a esprimere la loro rabbia nei confronti delle cose che non vanno, ma fossero sollecitati ad assumere ruoli di gestione e responsabilità facendosi così carico di quella complessità delle cose che oggi viene da tutti rifiutata? Siamo tutti bravi, con 140 caratteri di Twitter, a dire quello che bisogna fare. Ma poi un terremoto, anche che riguardi quattro piccoli paesi, svela come è complessa la ragnatela del nostro vivere. E come sia tanto difficile quanto urgente, ricostruirla come e dov’era.
La notte è fonda. Ma è la politica grande, solo quella, che può spingerci fino al mattino.

sabato 3 settembre 2016

Perché la riforma Boschi ha realizzato il mandato degli elettori democratici


Francesco Sanna
L'Unità 3 settembre 2016
Ha ragione Arturo Parisi, il testo sottoposto a referendum è nel solco dell’Ulivo
Le elezioni politiche del 2013, ancor più dopo la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità della legge elettorale, hanno fatto emergere specie tra gli elettori del centro-sinistra,  una domanda che, per farla semplice potrebbe dirsi così: chi vi autorizza a cambiare la Costituzione?
Mentre nelle legislature precedenti era implicito che il Parlamento potesse intraprendere la revisione costituzionale, oggi tra le critiche – anche in forma dotta – di chi dissente sulla riforma, ve ne è una più radicale che contesta la mancanza di un’investitura preliminare degli elettori a cambiare la Carta fondamentale.
Normalmente, la risposta che diamo si fonda sulla natura straordinaria del momento politico, il discorso di insediamento di Giorgio Napolitano, il dovere di dimostrare che il Parlamento aveva la capacità di fare le riforme, l’assunzione del tema quale punto programmatico dei Governi Letta e Renzi. Ma è chiaro che tale risposta non soddisfa la domanda di coloro che pretendono l’investitura costituente, ritenendo che non vi sia mai stata. Se non si risponde bene si rischia di subire l’accusa di usurpare una funzione che non si possiede ed il conseguente “not in my name“.
E’ allora importante, per chi non voglia eludere nessuno dei temi che si discutono nella campagna referendaria, andare a riprendere brevemente cosa  proponevano gli ultimi programmi del centrosinistra. Anzitutto per rintracciare in essi (se vi era) il “mandato” a riformare la Costituzione. E poi vederne più da vicino coerenze e distanze con il testo approvato, e magari trovarvi idee e motivazioni per il proprio voto nel referendum confermativo.
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Intanto è da rilevare come la proposta agli elettori di intervenire sulla seconda parte della Costituzione non è una novità di questa legislatura.
Le tesi dell’Ulivo, pubblicate nel dicembre del 1995,  introducevano il tema del superamento del bicameralismo paritario in maniera nettissima: esso era collocato tra i primi punti del programma. Certo, la Carta non aveva visto la riforma del Titolo V, l’ampliamento della legislazione concorrente tra Stato e Regioni e l’enorme contenzioso che nei quindici anni successivi la Corte Costituzionale sarebbe stata chiamata a dirimere, e dunque la tesi indicava una mutazione in senso federale della Repubblica senza porsi il problema di definire meglio il confine delle competenze tra le Regioni e lo Stato.
Ma sicuramente l’Ulivo proponeva che il Senato non votasse più la fiducia al Governo, fosse composto da “esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali“, in un numero che  “dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole“.  Le “istituzioni regionali” alle quali i senatori sarebbero dovuti appartenere sono evocate genericamente, ma è chiaro che potessero essere  sia i rappresentanti delle assemblee legislative sia gli esecutivi, le Giunte regionali. Sicuramente il numero dei senatori determinato dalla entità della popolazione della Regione non avrebbe potuto portare al modello Bundesrat, la seconda camera del Parlamento tedesco formata dai delegati dei Governi regionali, né al modello americano in cui gli stati piccoli o grandi “portano” comunque a Washington due senatori. Inoltre, tale seconda Camera avrebbe avuto un potere legislativo fortemente differenziato, poiché sarebbe stato esercitato ” per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali“.
L’Ulivo voleva la “riduzione dei tempi di discussione dei provvedimenti, assicurando tempi certi per il voto sui progetti del Governo“, l’innalzamento del numero di firme per proporre il referendum abrogativo, e valutava  “l’eventualità di introdurre nella Costituzione la previsione di forme di referendum “propositivo” collegate all’iniziativa popolare, con tutte le regole e le cautele necessarie in tema di condizioni dell’iniziativa, di formulazione dei quesiti e di disciplina della consultazione“.
Vedo una assonanza delle Tesi uliviste molto forte con i contenuti della riforma di oggi.
Quindi sono d’accordo con Arturo Parisi, che riconosce alle riforme costituzionali approvate dal Parlamento un contenuto “nel solco” delle tesi programmatiche dell’Ulivo del 1996, mentre penso sbagli Andrea Pertici, professore a Pisa, tendenza “Possibile”  – a sostenere che le distanze prevalgono sulle similitudini.
Per tenere in piedi la critica di Pertici occorrerebbe forzare le parole di Parisi, tramutando il “solco” tracciato ben venti anni prima dalle Tesi dell’Ulivo in un articolato preciso di norme costituzionali. Il solco per forza di cose ha subito l’erosione del tempo e si colloca in paesaggio istituzionale mutato. Ma l’orientamento della riforma è decisamente il medesimo.
Del resto, è la logica stessa della revisione costituzionale, necessitando di un consenso parlamentare vasto, che porta a non trascrivere pedissequamente i programmi di una forza politica, anche maggioritaria, nella norma costituzionale. Anche in vista del possibile referendum confermativo, infatti, è utile che le forze presenti in Parlamento si riconoscano complessivamente nella riforma e rintraccino nei testi il proprio anche parziale contributo.
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Dieci anni dopo, nel 2006, il programma de l’Unione, “Per il bene dell’Italia” (quello delle 281 pagine), pur reagendo polemicamente al tentativo del centrodestra di affermare la logica della “dittatura della maggioranza”, “evitando ogni confronto democratico”, propone modifiche a 18 articoli della Costituzione.
Sugli istituti di partecipazione, l’amplissima coalizione guidata da Romano Prodi affermava l’intenzione di ampliarli e arricchirli anche rivitalizzando il referendum abrogativo: “proponiamo per questo di aumentare da 500.000 a 750.000 il numero di firme necessarie per indire un referendum e di ridurre il quorum previsto per la validità della consultazione alla metà dei voti espressi nelle precedenti elezioni alla Camera dei Deputati“. La soluzione adottata dalla riforma 2016 è identica, salvo che per la previsione di 800.000 firme di richiesta e per il mantenimento, in una sorta di doppio binario, del sistema attuale (500.000 firme e referendum valido se partecipa la metà più uno degli elettori).
Sulle garanzie istituzionali, ci si impegnava ad “elevare la maggioranza necessaria ad eleggere il Presidente della Repubblica“, senza peraltro individuarla né indicare a partire da quale scrutinio. Il tema è recepito dalla riforma 2016, che dal quarto al sesto scrutinio prevede non più la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune, ma i tre quinti, e dal settimo scrutinio i tre quinti dei votanti.
Molto chiara la proposta della riforma sulla funzione del nuovo Senato: “bisogna coinvolgere le autonomie territoriali nella definizione dell’indirizzo politico nazionale“. L’obiettivo si ottiene “superando l’attuale bicameralismo paritario, ovvero istituendo un Senato che sia camera di effettiva rappresentanza delle regioni e delle autonomie“, “espressione delle autonomie territoriali“, “titolare di competenze legislative differenziate rispetto alla Camera dei Deputati”. Il numero dei senatori, “effettivi rappresentanti degli interessi del loro territorio“, “sarà ridotto a 150“.
Sulla divisione dei poteri tra lo Stato e le Regioni, il programma ritiene che occorra ridefinire “le materie di esclusiva competenza statale“, ricentralizzando “la disciplina dei rapporti di lavoro, la tutela e la sicurezza del lavoro (ma la competenza sul mercato del lavoro e la formazione professionale rimane alle Regioni), l’ordinamento delle professioni e delle comunicazioni, le norme generali sulle grandi reti di trasporto e navigazione, il trasporto e la distribuzione dell’energia, la strategia nazionale per il turismo“. A questo proposito si può dire che la manovra sulla ridefinizione delle competenze effettuata dalla riforma è più ampia, ma tutti i punti del programma 2006 vi sono ricompresi.
“Per il bene dell’Italia” prevede l’introduzione di una clausola di supremazia per la quale al Parlamento è consentito di “intervenire con legge per tutelare l’interesse della Repubblica anche in materia di competenza regionale quando siano in gioco superiori interessi della collettività, quando si debba garantire l’unità giuridica o economica del Paese o garantire l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio dei diritti costituzionali“. Come è noto, la riforma 2016 introduce la clausola di supremazia, richiedendo però che essa possa essere attivata solo per iniziativa del Governo, che il nuovo Senato possa richiederne l’esame e la Camera possa superare le sue proposte di modifica a maggioranza assoluta a sua volta con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei deputati.
La legislatura dell’ultimo Governo Prodi ebbe vita breve, ma va ricordato che molte delle proposte contenute nel programma “Per il bene dell’Italia” furono trasfuse nel lavoro parlamentare della Commissione Affari Costituzionali della Camera, noto come “Bozza Violante”.
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Nelle prime elezioni – anno 2008 – alle quali partecipa il Partito Democratico, il nuovo soggetto politico presenta un programma nel quale molti dei contenuti che ho ricordato sono ripresi e precisati. In primo luogo, “il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere da solo la fiducia esclusivamente dalla Camera“. E “i disegni di legge approvati dal Governo dovrebbero essere votati entro una data certa, comunque non oltre due mesi“. Entrambi questi punti – esclusa la fiducia al solo Presidente –  fanno parte della attuale riforma.
La differenziazione dei compiti del Senato è disegnata nella previsione  per cui “le leggi, tranne quelle costituzionali, di revisione costituzionale e quelle che ordinano i rapporti tra centro e periferia, dovrebbero – in caso di conflitto persistente – essere approvate dalla sola Camera.”
Il Senato, formato da “100 membri scelti dalle autonomie regionali e locali, è la sede della collaborazione tra lo Stato e tali autonomie.  La opportuna revisione dell’elenco di materie del Titolo V con una clausola di supremazia, trasversale alle materie, per il livello federale, col consenso del Senato, consentirebbe di superare la conflittualità  permanente“.
E ancora “vanno introdotti il referendum propositivo, nel caso in cui una proposta di legge di iniziativa popolare con un milione di firme sia ignorata dal Parlamento per un biennio, e norme rigorose contro tutti i conflitti di interesse e il cumulo di cariche pubbliche; il quorum di partecipazione per la validità  dei referendum va ricondotto alla metà  più uno dei partecipanti politicamente attivi, quelli che hanno votato alle precedenti elezioni politiche; alla Camera va previsto un significativo Statuto dell’Opposizione, a cominciare dalle Commissioni parlamentari di inchiesta, che devono essere decise su richiesta di un quarto dei deputati.”
Come si vede, il PD a vocazione maggioritaria di Veltroni precisa ed amplia, nel programma offerto agli elettori, la prospettiva riformatrice aperta dall’Ulivo e dalla coalizione del 2006.
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Il Partito Democratico, con Pierluigi Bersani segretario forza di opposizione nella legislatura 2008/2013, raffina ulteriormente i punti di aggiornamento della Costituzione con il documento elaborato dalla Assemblea Nazionale programmatica (eletta dalle primarie a cui parteciparono oltre tre milioni di persone) del 21 e 22 maggio  2010, i cui contenuti – ulteriormente discussi nel seminario del Forum Istituzioni tenutosi alla Camera alcune settimane dopo, a cui partecipano e intervengono decine di costituzionalisti – saranno trasfusi nel programma delle elezioni politiche.
E così, nelle elezioni del febbraio 2013 la coalizione di centro-sinistra “Italia. Bene Comune” (PD, SEL, Socialisti, Centro Democratico) che propone Bersani alla guida del Governo, attribuisce esplicitamente alla attuale legislatura una “funzione costituente“.
Nel documento programmatico di sintesi, che impegna tutti i futuri eletti, il primo punto si intitola “Democrazia“. In esso si afferma che “sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica. Riformuleremo un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese…..Daremo vita ad un percorso riformatore che assicuri concretezza e certezza di tempi alla funzione costituente della prossima legislatura“.
Più in dettaglio, il documento del Partito Democratico, “L’Italia Giusta – Riformare le istituzioni per superare la crisi della democrazia”, partendo dalla necessità di cambiare la legge elettorale, vuole “una netta differenziazione tra il sistema elettorale della Camera – che deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo – e il sistema elettorale del Senato –  che deve favorire la rappresentanza dei territori”.
L’obiettivo sarebbe stato “riqualificare il Parlamento come luogo della rappresentanza politica della nazione (Camera) e dei territori (Senato)”.
Ci si arrivava ridando “autorevolezza e rappresentatività al Parlamento, oltre che con una nuova legge elettorale, attraverso il dimezzamento del numero dei parlamentari, il potenziamento delle funzioni di controllo, il superamento del bicameralismo paritario con funzioni e competenze differenziate tra Camera e Senato: la Camera dei deputati, rappresentante della nazione, sarebbe titolare del rapporto fiduciario mentre il Senato, rappresentante delle autonomie territoriali, avrebbe il potere di richiamare tutte le proposte di legge approvate dalla Camera entro i limiti e alle condizioni fissate dalla Costituzione; dovrebbe inoltre “governare” il rapporto tra Stato, Regioni, Autonomie locali. Le leggi costituzionali e quelle che regolano i rapporti tra Stato, Regioni e Autonomie locali sono bicamerali. Deve essere valorizzato, come richiesto dal Trattato di Lisbona, il ruolo dell’intero Parlamento e dei Consigli regionali nei processi di decisione comunitaria”.
E ancora “si deve inoltre rafforzare l’istituto del referendum, aumentando il numero delle sottoscrizioni necessarie per l’iniziativa, anticipando il giudizio della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti, abbassando il quorum richiesto per la validità della consultazione, riferendolo alla partecipazione al voto registrata nelle precedenti elezioni per la Camera dei deputati. Rafforzare le proposte di legge di iniziativa popolare, assicurando entro termini ragionevoli l’esame parlamentare della proposta e il voto finale“.
“Sui disegni di legge del governo può chiedere il voto a data fissa, compatibile con la complessità del provvedimento, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai regolamenti parlamentari “.
Nell’ambito di un  “regionalismo cooperativo e solidale“, la riforma proposta dal Partito Democratico avrebbe puntato a “ridurre le sfere di competenza concorrente, introdurre la clausola di sovranità, definire una cornice unitaria di comune responsabilità (Stato, Regioni, AALL) nell’attuazione delle politiche nazionali. Anche rispetto al rapporto e alla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni le parole chiave sono: razionalizzazione ed efficienza”.
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Leggere il complesso dei più importanti punti programmatici del centrosinistra italiano accanto ai contenuti della riforma costituzionale racconta una continuità ideale, di analisi dell’invecchiamento della organizzazione istituzionale della Repubblica e di indicazione di soluzioni frutto di un lungo e competente confronto democratico.
Analisi, elaborazioni e soluzioni discusse alla luce del sole, e con la capacità di coinvolgimento di cui i partiti ed il sistema politico sono stati capaci, nel tempo politico, sociale e culturale dato.
Per questo sono convinto che aver affrontato il compito difficile della riforma costituzionale in questa legislatura non abbia tradito il mandato degli elettori democratici, ma lo abbia realizzato. Il rimaner fermi, questo sì, avrebbe significato negare la “funzione costituente della legislatura” a cui si è impegnato chi è entrato in Parlamento nelle liste del PD. Ma anche i contenuti della riforma mantengono il senso ed in alcuni casi il tratto puntuale della promessa assunta davanti ai cittadini.

Informate Travaglio che gli amministratori cacciati dalla Raggi non erano “targati Pd”


Fabrizio Rondolino
L'Unità 3 settembre 2016
Nessuno dei dimissionari è targato Pd, il povero Travaglio si conferma prima di tutto una persona poco informata
Qualcuno, per favore, si armi di tanta pazienza e spieghi a Marco Travaglio che cosa è successo a Roma. Sentite un po’ che cosa scrive oggi il piccolo Suslov della Casaleggio Associati srl: “Chi passa per Roma sa bene che fogna sono i trasporti e i rifiuti. Eppure basta che quanti han contribuito a ridurli così, cioè gli ad di Ama e Atac targati Pd, vengano accompagnati alla porta o si dimettano nel giorno giusto per diventare i beniamini dei giornaloni. […] Se la Raggi se li fosse tenuti – conclude il povero Travaglio – sarebbe accusata di continuità col passato”.
Ora, anche i gatti del Colosseo sanno che l’amministratore unico di Ama, Alessandro Solidoro, è stato scelto da Virginia Raggi meno di un mese fa. Specialista di crisi aziendali, ex bocconiano e ufficiale dell’Esercito, presidente dell’Ordine dei commercialisti di Milano e vicepresidente degli esperti contabili di Bruxelles, Solidoro, dichiarava la Raggi lo scorso 4 agosto, “è stato scelto da me insieme ai due assessori Muraro e Minenna e sicuramente traghetterà l’Ama in una nuova era, un’era che vede l’economia circolare come il punto di arrivo di una nuova concezione del ciclo dei rifiuti”.
Armando Brandolese, amministratore unico di Atac, era stato invece chiamato dal commissario Francesco Paolo Tronca nel dicembre 2015 e aveva accettato di lavorare a titolo gratuito per un anno. Laureato in Ingegneria meccanica e professore emerito del Politecnico di Milano, Brandolese svolge da vari decenni attività professionale rivolta alla valutazione delle prestazioni e alla razionalizzazione degli impianti industriali, nonché al monitoraggio dei processi e dei sistemi produttivi dal punto di vista strategico, impiantistico-tecnologico e organizzativo-gestionale.
Marco Rettighieri, direttore generale di Atac, è stato invece nominato a febbraio dopo aver superato la selezione, durata alcune settimane, della commissione mista Atac-Campidoglio, come previsto dal relativo bando pubblicato alla fine dello scorso dicembre. Rettighieri, due lauree, insegna alla Business School della Luiss ed è noto per l’esperienza maturata in Italia e all’estero nella gestione di processi complessi di natura trasportistica e industriale, nonché di progettazione e di società di servizi. Fra i motivi delle dimissioni, una lettera all’assessore ai Trasporti Linda Meleo in cui la accusa di ingerenze sul trasferimento di un ingegnere della linea Roma-Viterbo iscritto al M5s e cugino di un assessore municipale grillino.
Nessuno dei tre dimissionari è dunque legato all’amministrazione Marino, nessuno ha avuto responsabilità di alcun tipo nelle passate gestioni di trasporti e rifiuti, nessuno di loro è “targato Pd”. Due sono stati nominati da Tronca, il terzo da Virginia Raggi.
Il povero Travaglio, di cui comprendiamo la disperazione al cospetto del fallimento dei suoi amichetti a cinque stelle, si conferma dunque, prima di tutto, una persona poco informata.

mercoledì 31 agosto 2016

E' APERTA LA CACCIA A RENZI.


Sandro Albini
31 agosto 2016
Iniziò Ostellino sul Corriere esattamente due anni fa. Si accodò Scalfari e via via tutta la "intellighenzia". Nessuna accusa precisa, dava loro fastidio un Presidente del Consiglio (un ragazzo, chiosa ancora oggi D'Alema) il quale osa governare senza chiedere il permesso agli "illuminati". In questi due anni cosa è successo? Il Governo ha lavorato a riforme, dal mercato del lavoro, alla scuola al sostegno dei redditi più deboli, alla gestitone del fenomeno migratorio, alla riforma costituzionale, ecc.. Ha riportato un filo di fiducia nel nostro futuro, nonostante le opposizioni abbiano fatto di tutto per mettere in discussioni ogni provvedimento inventandosi bugie. E' stato presente sullo scenario europeo e si è mosso per sostenere le attività economiche all'estero. Ha sostenuto l'impresa di Marchionne nel ricreare nel nostro Paese una industria automobilistica ormai estinta. Cosa c'è di negativo? Ha rubato? No, nel Governo ci sono stati casi di corruzione? No, Qualcuno è inquisito? No. Hanno tentato perfino di scaricare sui figli presunte colpe dei padri, ritirandosi poi di soppiatto per mancanza di polpa. E' antipatico? ad alcuno può non piacere il suo modo di porsi e l'ottimismo di default: ma è segno di cattiva politica in un paese ciclicamente depresso? No. Eppure si assiste ogni giorno ai latrati della muta famelica, la quale, sentito odore di sangue, cerca di avventarsi sulla preda e sbranarla. Non solo i cani perduti senza collare ma anche i molossi domestici. Questo è un Paese solidale (a tempo limitato) nelle sciagure, pieno di voglia di cambiare che però si squaglia alla prima avvisaglia di reale modifica dello "status quo", come è nel caso di chi appena nato sulla scena del "cambiamento" fa di tutto perché ciò non avvenga. Disposto ad apparire trionfante in TV a cavallo della motocicletta per poi sfrecciare su comode e lussuose automobili. Si vuol cambiare l'Italicum? Per finire come la Spagna e il Belgio senza governo da un anno e ripetuti inutili ricorsi alle urne perché le loro leggi elettorali producono rappresentanze sterili? Oggi spuntano proposte "benaltriste" da parte di chi per 20 anni non ha concluso nulla: fumo negli occhi. La muta è composita, ci sono "fascisti" accanto a "partigiani", intellettuali accanto a bulli e bulletti, moderati verso estremisti di destra e di sinistra, insomma una caravanserraglio dove ognuno cerca visibilità saltando sul carro dei presunti vincitori e, nel caso riescano nel loro intento poter dire: c'ero anch'io! L'unico modo per evitare che si compia questo iniquo disegno è fare campagna perché il SI sconfigga il no dei conservatori di tutti i colori e di tutte le correnti.

martedì 30 agosto 2016

Renzi avverte l’Ue: “Quel che serve lo prendiamo”


Stefano Minnucci
L'Unità 30 agosto 2016
Il premier annuncia l’intenzione di muoversi unilateralmente nella trattativa con la Commissione Ue sulla flessibilità
“All’Europa diciamo che quello che serve per questo piano lo prendiamo. Punto”. Matteo Renzi si mostra risoluto e deciso nel portare avanti il progetto di prevenzione e adeguamento antisismico del Paese, quel piano che lui stesso ha definito “Casa Italia” e che nei prossimi giorni presenterà a tutti i soggetti interessati: enti, istituzioni, parti sociali e imprenditori.
“Casa Italia è un progetto che riguarda tutto il Paese – ha detto in un intervista al Tg1 – e serve a riuscire a prevedere, ad anticipare anziché rincorrere, non è solo un progetto anti-sismico ed è un progetto che può essere fatto tutti insieme a condizione di avere a cuore il futuro della nostra famiglia italiana”. Così ha spiegato ed elencato i settori principali che Casa Italia andrà a toccare, dal dissesto idrogeologico al risparmio energetico e rivolgendosi all’Ue, ha sottolineato che per questo progetto “quello che serve lo prendiamo, punto”.
Per il premier insomma è necessario un deciso cambio di mentalità, andare oltre l’emergenza, oltre la ricostruzione e ragionare una volta per tutte sulla prevenzione e sulla messa in sicurezza dei nostri territori. Ma per farlo servono le risorse. E non poche.
Uno dei direttori generali del Dipartimento della Protezione Civile, Mauro Dolce, nei giorni scorsi ha parlato di una cifra sull’ordine di 50 miliardi solo per l’adeguamento sismico degli edifici pubblici. Per non parlare poi di tutti gli edifici privati. Secondo una stima fatta dal Consiglio nazionale degli ingegneri nel 2013, per mettere in sicurezza le case di tutti gli italiani servirebbero poco meno di 100 miliardi.
Sono risorse ingenti, notevoli, che contrastano fortemente con le richieste europee di non eccedere con deficit e debito pubblico rispetto al Pil. E al momento Bruxelles è cauta sull’esclusione delle spese antisismiche pluriennali dal Patto di Stabilità. La Commissione sembra infatti disposta a concedere una flessibilità ‘una tantum’ per le spese legate al breve termine e all’emergenza, ma non a permettere lo scorporo dal deficit per un progetto pluriennale di messa in sicurezza come quello che immagina Renzi. Ecco perché il premier ha annunciato l’intenzione di muoversi unilateralmente impostando la trattativa con fermezza, ancor prima che parta. Occorre mettere al sicuro gli edifici pubblici, questa è la priorità, e su questo il premier non sembra transigere.
Domani si terrà il vertice intergovernativo Italia-Germania a Maranello, presso la sede della Ferrari e  inevitabilmente Renzi e Merkel affronteranno la questione. Il tema in agenda era il rilancio di un’Europa un po’ claudicante dopo la Brexit, ma è chiaro che dopo la tragedia del 24 agosto si finirà a parlare anche del post-terremoto in Italia. D’altra parte la Germania è un attore fondamentale per far sì che all’Italia venga concessa più flessibilità di bilancio.
Quanto alle altre due fasi – emergenza e ricostruzione – sempre in ambito europeo si potranno ottenere importanti risorse per lo stato centrale.
Dall’Ue sono infatti disponibili da subito 5 milioni di euro dal Pac. Ma un forte sostegno economico arriverà dal Fondo di solidarietà Ue, al quale l’Italia può accedere chiedendone l’attivazione entro 12 settimane dal disastro. Il fondo è nato per rispondere alle grandi calamità naturali ed esprimere la solidarietà europea alle regioni colpite all’interno dell’Unione e già in passato è stato utilizzato per i terremoti di Molise, Aquila, Emilia-Romagna.
In questo caso la Commissione valuta la richiesta e, se questa viene accettata, propone l’ammontare dell’aiuto al Consiglio e al Parlamento europeo che devono darne approvazione prima dell’erogazione.
La cifra che verrà negoziata, secondo fonti del ministero dell’Economia e delle Finanze, non è da sottovalutare e si aggirerà intorno ai 350-400 milioni.

Il Fatto, Salvini e Grillo contro l’Italia migliore: senza rabbia non avrebbero un lavoro


Fabrizio Rondolino
L'Unità 30 agosto 2016
Matteo Salvini, la Casaleggio Associati srl e il Fatto, dopo un breve attimo di sbandamento, hanno ripreso a soffiare sul fuoco nichilista della disperazione
Il terremoto del 24 agosto ha modificato profondamente il clima civile e politico del Paese. Al netto della retorica – che pure svolge una funzione essenziale nella costruzione di una comunità condivisa – e del senso di spaesamento che ogni catastrofe naturale porta con sé, inchiodandoci alla nostra fragile insignificanza al cospetto di una forza – la “natura indifferente”, secondo una fortunata espressione leopardiana – che non possiamo né prevedere né tantomeno controllare, al netto delle frasi di circostanza e del dolore autentico, il terremoto ci ha mostrato e ci sta mostrando un’altra Italia, lontana le mille miglia dalla litigiosità isterica del teatrino politico-mediatico.
Ridotte al silenzio, o quasi, le polemiche compulsive che avvelenano ventiquattr’ore al giorno e sette giorni a settimana la nostra vita pubblica, è percepibile un senso di sollievo, persino di ritrovata serenità (se di serenità si può parlare al cospetto di una strage), come un ritrovarsi convalescenti, se non proprio guariti, dopo una lunga malattia che sembrava non dare scampo – la malattia della guerra civile fredda, dell’odio e del rancore come misura della partecipazione, della rabbia come unica forma di comunicazione.
L’Italia è migliore della sua rappresentazione: non soltanto di quella che ne fanno i giornali e le tv, ma anche, ciò che più conta, del racconto che noi stessi costruiamo senza neppure rendercene conto, registrando e amplificando ogni difetto e ogni malefatta e ogni guaio (e sono tanti) in una spirale depressiva, autolesionista e fintamente consolatoria.
Naturalmente non tutti si adeguano al nuovo clima: Matteo Salvini, la Casaleggio Associati srl e il Fatto, dopo un breve attimo di sbandamento, hanno ripreso a soffiare sul fuoco nichilista della disperazione. “Piano Case, mancano i soldi”, strilla in prima pagina il giornale di Travaglio: “Dopo giorni di voci su progetti miliardari del sisma, il premier deve ammettere che per trovarli dovrà violare le regole”. Che significa questo titolo? Che Renzi è il solito fanfarone parolaio, che promette ciò che non può mantenere, che è un imbroglione.
Ammettiamo che sia così. Ma i miliardi che servono per mettere in sicurezza il Paese, per salvare vite umane e per rilanciare lo sviluppo non sono un favore al governo: sono utili all’Italia – a quell’Italia che si è ritrovata tra le macerie di Amatrice, che vota Pd o M5s o non vota affatto, che non ne può più dell’isteria del circo politico-mediatico, che cerca sollievo e frescura dopo mesi e anni di litigiosità autoreferenziale e claustrofobica. Che il Fatto, Salvini e Grillo provino ad opporsi con tutte le loro energie a questa liberazione collettiva è comprensibile: senza disperazione e senza rabbia non avrebbero un lavoro.