La repubblica 26 ottobre 2017
Dieci anni fa moriva Pietro Scoppola
(1926-2007), un protagonista del dibattito culturale per oltre mezzo
secolo. Uno storico poliedrico, attento alle dinamiche e alle
inquietudini della società contemporanea, attratto da sfide su
terreni inesplorati spesso al crocevia tra lo studio e la passione
civile. Un intellettuale di riferimento dell'Italia
della seconda metà del novecento,
esponente di punta del cattolicesimo democratico anche se il suo
itinerario mal si combina con le tradizionali forme di appartenenze o
identità: figura originale e per molti versi difficile da collocare
nelle appartenenze politiche e culturali che hanno caratterizzato il
lungo dopoguerra della Repubblica. La distanza dal suo mondo è molto
più ampia del tempo che ci separa dalla sua scomparsa. Basta uno
sguardo, anche fugace, alla politica, all'università, alla cultura
dominante, al linguaggio degenerato e volgare che ci circonda: il suo
mondo sembra svanito, inghiottito in pochi anni nelle dinamiche di un
nuovo racconto dai confini e dagli approdi ancora indecifrabili.
Eppure a ben guardare, al di là delle
apparenze che spesso ingannano, molti nodi della sua riflessione sono
ancora presenti, molti spunti ancora sul tappeto e il rischio
principale rimane quello di perdere di vista la dimensione storica
delle trasformazioni più recenti. Un ammonimento che rimane
stringente nella sua attualità. Anche nel pieno della crisi
italiana, lo storico (preferiva l'espressione «studioso di storia»)
intravedeva (o forse auspicava) la possibilità e la necessità di
non scivolare nelle semplicistiche letture del catastrofismo facile o
del rimpianto diffuso per i bei tempi andati. Guardare alla lunga
durata dei processi, cercare nel metodo storico nuove possibilità
per comprendere i tortuosi sentieri delle società contemporanee
segnate «dalla crisi profonda delle forme storiche della democrazia
». Una tensione continua che ha attraversato fasi diverse della sua
vita segnando temi e questioni delle sue ricerche più vitali: dal
movimento cattolico nelle sue tante forme alla presenza religiosa
nell'Italia post unitaria, dalla Chiesa nel ventennio alla Carta
costituzionale, dai discorsi di Cavour su Roma capitale alla proposta
politica di De Gasperi, dalle dinamiche contraddittorie della
democrazia alle caratteristiche del sistema politico post bellico
fino alla terribile cesura politica ed esistenziale della vicenda
Moro.
Dopo l'esperienza di senatore della
Repubblica, aveva proposto una sintesi dell'esperienza repubblicana
in un volume fortunato il cui titolo, La Repubblica dei partiti, è
diventato un'espressione diffusa per riassumere il cammino di decenni
segnati dalle eredità della seconda guerra mondiale e dal successivo
protagonismo dei partiti di massa. Rifiutava la dizione ambigua di
Seconda Repubblica preferiva il senso di un processo unitario da
indagare e ricostruire nella sua lunga complessità. Contrario a
concezioni finalistiche della storia, attratto dalla unicità e dal
valore della persona umana. Nell'ultima fase della sua vita aveva
lanciato grida di allarme sullo stato del Paese, sugli effetti della
cesura apertasi con la fine degli anni Ottanta, tra il crollo del
muro di Berlino e la crisi del 1992: cercare una strada per uscire
dal catastrofismo senza speranze o dalle facili rassicurazioni
proposte dai vincitori. Una voce inascoltata, un lascito che non si è
esaurito.
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