Intervista a Giorgio
Tonini
Roma 15 ottobre 2017
Ieri, al teatro Eliseo a
Roma, il Partito Democratico ha festeggiato il suo decimo
anniversario. Un anniversario accompagnato da polemiche. Facciamo,
nei limiti di una intervista, un bilancio di questa storia decennale.
Una storia di passione riformista. Con alti e bassi. Lo facciamo con
Giorgio Tonini, Senatore PD e Presidente della Commissione Bilancio
del Senato.
Senatore Tonini, siamo
nel decennale del PD, che doveva essere una importante tappa,
nell’ambito della storia dei partiti politici italiani,
ovvero la nascita di un grande partito riformista, capace di
contenere in una sintesi alta le migliori culture politiche
progressiste italiane, si è rivelata un “sogno” incompiuto. La
storia di questi dieci anni ne è, secondo alcuni, la riprova. Temo
che abbia ragione Massimo Cacciari sull’impossibilità
dell’amalgama tra gruppi dirigenti e quindi tra culture politiche.
Con Renzi poi le cose si sono aggravate, tanto da portare alla
scissione. Insomma non è un bel compleanno per il PD.
Lei, invece, pare più ottimista sul destino del Pd. Per
quali ragioni?
È vero, il decennale del
Pd è stato l’occasione di un impressionante moltiplicarsi di
annunci di sventura circa il destino di quello che al momento è
comunque il primo partito italiano. Da destra a sinistra, passando
per i grillini, sembra che si voglia una cosa sola: non solo la
sconfitta, ma il fallimento del Pd. Che questo sia l’obiettivo, il
sogno dei nostri avversari, è comprensibile. Anche se a me
piacerebbe vivere in un paese nel quale la competizione politica, che
è il sale della democrazia, fosse capace di non sconfinare nel
desiderio insano di distruggere l’avversario. Meno comprensibile è
che questa sia diventata la ragione di vita anche di una parte della
sinistra italiana, a cominciare da quella che fino a pochi mesi fa
era stata una componente importante dello stesso Pd. C’è nella
sinistra, e nella sinistra italiana in particolare, una vena
nichilista che ciclicamente riemerge e troppo spesso le fa preferire
la distruzione alla costruzione. Questo sacro furore contro il Pd è
del tutto fuori misura, fuori scala, rispetto anche ai limiti che la
costruzione di quello che volevamo fosse non solo un nuovo partito,
ma un partito nuovo, ha evidenziato e tuttora denuncia. Ne parleremo,
in questa nostra chiacchierata. Ma intanto mi faccia dire che non so
che fine avrebbe fatto l’Italia in questi anni se non avesse potuto
contare sul Pd. Il Pd non doveva o non poteva nascere, secondo alcuni
profeti di sventura. E invece è nato. Ha passato i suoi guai di
gioventù, ma è cresciuto, ha raccolto dodici milioni di voti con
Veltroni, sconfitto da Berlusconi, e undici con Renzi vincitore alle
europee e sconfitto al referendum. Nel frattempo ha dato al Paese due
presidenti della Repubblica della statura di Napolitano e Mattarella.
E un governo, nel pieno della più difficile crisi economica dalla
seconda guerra mondiale, che ha avviato un grande lavoro riformatore,
che ha aggredito molti dei nodi strutturali irrisolti del Paese,
guadagnandosi apprezzamento e considerazione in Europa e nel mondo.
Si può dissentire e criticare, ma si deve almeno avere l’onestà
intellettuale di rispettare una forza politica così. Forse il sogno
originario del Pd non si è compiutamente realizzato. Ma senza il Pd
avremmo avuto un’Italia da incubo.
Continuamo il nostro
ragionamento, come direbbe De Mita, sul partito. Con Veltroni,
al di là delle qualità umane, e per alcuni versi, anche con
Bersani, vi era la sensazione di un partito caldo. Un partito, mi
passi la metafora evangelica, che si fa prossimo alla gente. Oggi il
partito è tutto “piegato”, come ha scritto Bettini, sul
“riformismo dall’alto”. Avrà fatto cose buone, ma il partito è
apparso lontano dalla fatica quotidiana della gente. Un’altra
scommessa persa?
Né Veltroni, né Bersani
hanno guidato il Pd al governo. Il paragone con la stagione di Renzi
è dunque improprio. Ma anche la categoria del “riformismo
dall’alto” non mi pare la più appropriata per descrivere il
rapporto tra il Pd è la società italiana in questi anni. Renzi è
arrivato a Palazzo Chigi quasi trascinato da un’onda di popolarità
che appariva incontrastabile. Un’onda poi certificata dal clamoroso
40 per cento di voti alle europee: primo partito d’Europa, perfino
più della Cdu-Csu tedesca. Renzi ha governato per quasi tre anni con
la preoccupazione, quasi l’ossessione della comunicazione col
Paese. Eppure ad un certo punto l’incantesimo si è rotto. Forse le
aspettative erano schizzate troppo in alto e di lì non potevano che
cadere. Forse è stato decisivo il saldarsi delle opposizioni nel
referendum costituzionale. Forse è stata sottovalutata l’esigenza
di stabilire solidi legami con i corpi intermedi della società
civile. Forse, e senza forse, il partito si è rivelato troppo
fragile nel supportare l’azione di governo, anche perché era stato
troppo a lungo trascurato. Si tratta di questioni non banali, da non
trascurare, ma neppure da drammatizzare. Il Pd ha in se stesso tutte
le risorse per tornare a stabilire un rapporto positivo con il Paese.
E sempre, per “finire”
il “ragionamento”, sul partito: è indubbio che Veltroni aveva
capacità di ascolto anche ai mondi nuovi della cultura,
dell’intelligenza, ecc., in Renzi il partito è vissuto
strumentalmente come “mezzo”. Pochissime volte si è sentito il
“noi”. Il risultato è un partito personalizzato. Adesso Renzi ha
recuperato il noi ma la sensazione è che sia tardi. E senza il
“noi”, la comunità, non si fa argine al populismo. E’ così
Senatore?
Mah, l’idea di
partito-comunità non mi ha mai persuaso completamente. I partiti
sono anche comunità di persone che condividono valori, principi,
obiettivi. Esattamente come sono luoghi di competizione per il
potere, dunque di divisione, di conflitto, di lotta. L’importante è
che ci sia un equilibrio tra queste due dimensioni. Per me i partiti
sono innanzitutto istituzioni della società civile, indispensabili
al funzionamento della democrazia, in particolare della democrazia
parlamentare. Per questo devono essere pochi e grandi. O perlomeno ci
devono essere, in un sistema democratico sano, due grandi
partiti in grado di farsi carico, in competizione e collaborazione
tra loro, del governo del Paese. Anche svolgendo quella funzione
vitale che è la selezione della classe dirigente e, in definitiva,
della leadership. Da questo punto di vista quella del Pd è stata
un’esperienza di successo, per quanto indebolita da una scissione
che ha ignorato il valore della decisione costituente del partito: la
scelta di dotarsi tutti insieme di un partito grande e plurale, nel
quale linea politica e leadership sono decisi in modo aperto e
democratico, per cui tutti possono vincere e tutti possono perdere,
nella competizione per cariche e ruoli sempre contendibili. Non aver
accettato di rinunciare ad un’impossibile golden share, da parte
degli scissionisti, li ha portati ad uscire dal partito. Poi Renzi
avrà i suoi limiti e avrà fatto i suoi errori. Ma non si abbandona
un partito perché il leader pro tempore non ti piace. Lo si fa
perché non si accetta la costituzione formale e materiale sulla
quale esso si fonda. E questo è quel che è successo con una parte
della componente ex-pci, quella dalemiana. Che aveva accettato il
modello competitivo previsto dallo statuto formale del Pd, voluto da
Veltroni, purché la costituzione materiale restasse fondata sul
centralismo democratico di antica radice togliattiana. Quando Renzi
ha fatto saltare questa “condizione”, che in effetti poteva
giustificarsi solo in una fase fondativa, il compromesso è saltato e
si è arrivati alla scissione. Che costerà molto al Pd, ma non al
punto da far fallire un progetto che resta indispensabile all’Italia.
Gli “scissionisti”
si stanno avvitando in un percorso massimalista. Dettato dal rancore.
Però su un punto hanno ragione da vendere: quando chiedono al PD di
essere più di sinistra. Indubbiamente il PD ha portato innovazione
nella cultura politica italiana. E questo è stato un bene per la
cultura di sinistra. Però spesso è apparso come un partito che ha
sbiadito la sua radice. Insomma la tanto declamata “terza via”
altro non era che una “prima via” (il mercato) un pochino più
umana. Il bilancio è magro, Senatore Tonini…
La sinistra, diceva
Norberto Bobbio, è lotta per l’uguaglianza. Lo è stata ieri, deve
esserlo oggi e dovrà esserlo domani e sempre. Il problema è che il
mondo cambia e con esso cambiano i termini di quella lotta. Dunque
essere più di sinistra, come dice lei, non può significare essere
più nostalgici di un mondo che non c’è più, perché è proprio
chi pensa e “sente” così, che finisce, di fatto, per consegnare
la sinistra alla storia, se non direttamente all’archeologia. Per
me è più di sinistra chi si sforza di “capire il nuovo”, come
ci ha insegnato Pierre Carniti, perché quella è la premessa
indispensabile per “guidare il cambiamento” e non limitarsi a
subirlo. Facciamo un esempio: qualcuno pensa che essere più di
sinistra significhi opporsi alla globalizzazione e perfino all’Unione
europea. Ma la globalizzazione, che certo ha contribuito a mettere in
discussione conquiste sociali importanti nei paesi sviluppati, ha
realizzato la più grande inclusione nello sviluppo della storia
umana: una inclusione che ha interessato miliardi di persone. Dunque
il problema, per chi intende lottare per l’uguaglianza, non può
essere quello di opporsi alla globalizzazione, ma piuttosto quello di
governarne gli effetti sulle nostre società. Proprio per questo
sinistra ed europeismo sono oggi sinonimi. Naturalmente, non
qualsiasi europeismo. Da questo punto di vista, il governo Renzi,
lungi dallo sbiadire la sua radice di sinistra, è stato protagonista
di una vera e propria svolta nella politica economica europea,
imponendo una interpretazione dei trattati, a cominciare dal Fiscal
Compact, che ponessero al centro la crescita e l’occupazione.
Lei, che è di cultura
degasperiana e morotea, glielo ha spiegato al suo segretario che la
centralità del PD non esclude il farsi carico delle ragioni
dell’altro? Solo così si può costruire una coalizione. Ci
riuscirà Renzi? E questo cambio sarà necessario anche alla
luce della nuova legge elettorale…
Un mio grande
“predecessore” (intendo dire, come presidente della Commissione
Bilancio del Senato…), Beniamino Andreatta, intervenendo nel
dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, il 7 novembre
1991, in pieno disfacimento della prima Repubblica, osservava che «i
problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese
e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati
contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti». E aggiungeva che
dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del
centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che
c’è stata un’era della ingovernabilità, perché non c’è
stata intesa, non c’è stata più coalizione». E allora,
concludeva, «delle due l’una: o si riesce a ricostruire questo
spirito di coalizione, o si creano strumenti (come la legge
elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio
tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con
maggioranze più ristrette». Renzi è un leader che si è formato
nello schema della democrazia competitiva, quello che si era
affermato nel paese all’inizio degli anni Novanta, soprattutto
grazie alla spinta dei referendum Segni. Il paradosso è che oggi
Renzi si trova a dover gestire gli effetti di un nuovo pronunciamento
popolare, quello del referendum del 4 dicembre scorso, che ha
ribaltato la situazione, di fatto chiudendo la stagione del
maggioritario e rimettendo le forze politiche dinanzi alla necessità
di riscoprire lo spirito di coalizione, la capacità di collaborare
in parlamento tra forze anche molto diverse tra loro. Vedremo se sarà
possibile, nella prossima legislatura. O se non dovremo riprendere la
marcia verso un sistema politico di impianto maggioritario. Stavolta
per la via del semipresidenzialismo alla francese. L’unico in
Europa che consente, per dirla con Andreatta, «di governare con
maggioranze più ristrette», cioè senza le larghe intese…
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