Giorgio Tonini
25 marzo 2017
Domani saranno dieci anni dalla morte
di Beniamino Andreatta. L'ho conosciuto quando ero molto giovane. E
fu per me un grande onore vederlo a Padova, al Congresso della Fuci
del gennaio 1983, sedersi in mezzo al pubblico di studenti per
ascoltare la mia relazione. Poi mi mandò a chiamare e mi chiese di
andare a lavorare con lui all'AREL. Gli risposi che avevo scelto di
andare a lavorare alla CISL, con Pierre Carniti, perché preferivo
stare dalla parte dei lavoratori. Mi guardò sorridendo e mi disse
armeggiando con la pipa "Non si preoccupi, le vie del
capitalismo sono infinite". Qualche anno dopo, a Trento, fu
candidato dalla Dc nello stesso collegio in cui il Psi aveva
candidato Carniti. Votai per Andreatta, anche perché ero un elettore
democristiano e non volevo votare Psi. Ma sia Andreatta che Carniti
restarono a casa, fu eletto Enzo Obelix Boso, della Lega Nord. Fu lì
che cominciai a pensare che le vecchie appartenenze non avevano alcun
senso e che avevamo bisogno di un partito democratico, nel quale
Andreatta e Carniti potessero candidarsi insieme. Oggi sono
presidente della Commissione Bilancio, trent'anni dopo Andreatta, e
tutti i giorni mi chiedo cosa avrebbe fatto lui al posto mio.
Purtroppo lui non c'è più, ma la sua eredità è in mezzo a noi.
Per farne memoria ho scritto un articolo che IL FOGLIO, che
ringrazio, ha voluto pubblicare è che vi allego. Buona giornata
LA
LEZIONE DI ANDREATTA
A distanza di dieci anni dalla sua morte,
sopraggiunta il 26 marzo 2017, più di sette anni dopo il malore
improvviso che, in piena sessione di bilancio alla Camera, lo aveva
bruscamente messo a tacere, Beniamino Andreatta continua ad essere
punto di riferimento imprescindibile per chiunque si ponga
l'obiettivo di fare dell'Italia un paese moderno.
Trent'anni fa,
il 5 agosto 1987, Andreatta veniva eletto presidente della
commissione bilancio del Senato, carica che mantenne fino al termine
della decima legislatura, nella primavera del 1992. Da quella
postazione, per cinque lunghi e drammatici anni, lo statista trentino
si è battuto come un leone, quasi sempre in solitudine, contro il
drago del debito pubblico, che nel corso degli anni ottanta era
cresciuto in modo impressionante: 95 miliardi di euro, meno del 60
per cento del pil, nel 1979; 850 miliardi, pari al 105 per cento del
pil, nel 1992.
«Il nostro debito — disse Andreatta intervenendo
in Senato nel giugno del 1990, con parole di sorprendente freschezza
— costituisce, per le sue dimensioni, un problema per il
funzionamento dei mercati finanziari europei... Per l'Italia questo
problema si trasformerà in un costo ed in qualche difficoltà di
collocamento, se verrà realizzata l'unione economica e monetaria. Se
invece non verrà realizzata, questo debito costituirà un problema
molto serio per la bilancia dei pagamenti (sarà necessario tenere la
struttura italiana dei tassi fortemente differenziata da quella degli
altri paesi) e per la credibilità delle autorità monetarie
italiane».
Non può essere dunque, diremmo oggi, l'uscita
dall'euro, la formula magica per liberarci del debito. Perché
formule magiche per sgravarci di quel peso non esistono. Non sono
praticabili, spiegava Andreatta ai senatori un anno prima,
«operazioni di finanza straordinaria con imposte patrimoniali», né
«forme di conversione forzosa o di rigetto del debito». Quanto
all'inflazione, se moderata può aiutare, ma certo non si può
nutrire nessuna nostalgia per quella a due cifre. La via per uscire
dal debito eccessivo è dunque una sola: «un'azione attenta di
contenimento della spesa e di allargamento delle entrate, per
ottenere un surplus di parte corrente al netto degli interessi e per
far partecipare il sistema tributario al finanziamento degli
interessi». Insomma, «un'azione di lunga lena di correzione della
spesa e di efficienza del sistema tributario italiano». Non sfugge
ad Andreatta il prezzo sociale e politico di un simile impegno:
«l'operazione di risanamento finanziario comporterà, per un certo
numero di anni, che in quasi tutti i settori l'intervento della
finanza pubblica dovrà porsi in proporzioni, rispetto al prodotto
interno italiano, inferiori a quelle di paesi che hanno scelto in
passato una linea più attenta di commisurazione tra risorse
disponibili e decisioni di spesa». Ma a certe condizioni, il
pareggio primario prima e l'avanzo primario poi, possono non tradursi
in recessione: «Credo che la crescita possa essere spinta con
politiche dell'offerta, attraverso più cogenti regole di concorrenza
ed attraverso l'eliminazione degli interventi pubblici
disfunzionali». Insomma, la riduzione del deficit è sostenibile, in
termini di crescita e di occupazione, se accompagnata da riforme
dello Stato e dei mercati. Oggi, dopo anni di avanzo primario record
in Europa, che non è bastato a ridurre il debito a causa della
recessione, aggiungeremmo alle riforme, che sono e restano
indispensabili, anche un indirizzo di politica economica europea di
segno più marcatamente espansivo.
Le politiche di risanamento
finanziario hanno innnanzi tutto bisogno, secondo Andreatta, di
«nuove regole del gioco». Durante la nona legislatura, (1983-87),
lo statista trentino prende parte alla commissione Bozzi per le
riforme istituzionali. In quella sede, Andreatta aveva presentato ed
era riuscito a far approvare una radicale revisione dell'articolo 81
della Costituzione, dinanzi alla quale quella che siamo riusciti ad
ottenere noi nella scorsa legislatura, grazie alla spinta europea e
al governo Monti, appare assai più moderata e prudente. L'articolo
81, fortemente voluto alla Costituente da due giganti della statura
di Einaudi e Vanoni, afferma che: «con la legge di approvazione del
bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese», ma
si deve, per così dire, fotografare lo stato della finanza pubblica;
e che «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve
indicare i mezzi per farvi fronte». In altre parole, ogni aumento di
una voce di spesa deve essere «coperto» da una corrispondente
riduzione di un'altra voce di spesa o dall'aumento di un
entrata.
L'obiettivo di Einaudi e Vanoni, spiega Andreatta, era il
pareggio del bilancio. «Ma questo non è stato. — si legge nel suo
intervento alla bicamerale Bozzi nel 1984 — Si è considerato che
il ricorso al finanziamento, anche al finanziamento di tesoreria,
fosse sufficiente come mezzo di copertura». È per questa via,
attraverso il sistematico e progressivo aggiramento della «linea
Maginot» dell'articolo 81, che è esplosa la spesa e si è formato
il gigantesco debito pubblico italiano. Andreatta presenta quindi un
nuovo testo, che si propone esplicitamente di «sbarrare tutte le
strade alla legislazione di spesa priva di copertura». Un testo
molto lungo, che «non è certamente elegante — ammette Andreatta —
ma non è neppure elegante la condizione della finanza pubblica nel
nostro paese».
Tra le varie barriere contro la spesa facile, c'è
innanzi tutto l'importazione nel nostro ordinamento dell'istituto
americano della «first resolution», ossia la votazione preliminare
da parte delle Camere sul «limite massimo dell'autorizzazione a
contrarre prestiti sotto qualunque forma per i cinque anni
successivi», in modo che le manovre di bilancio debbano poi
mantenersi all'interno di quei limiti prefissati. La seconda
barriera, mutuata dall'articolo 155 della Legge fondamentale tedesca,
prevede l'obbligo del pareggio del bilancio corrente, riservando alla
sola spesa per investimenti la possibilità di essere coperta
attraverso il ricorso al mercato, ossia facendo debito. Terza
barriera, l'obbligo di corredare ogni disegno di legge e ogni
emendamento, sia governativo che parlamentare, che comporti spesa,
con una relazione tecnica «bollinata» dal Ragioniere generale dello
Stato. Quarta barriera: «Nei sei mesi precedenti lo scioglimento
delle Camere, non possono essere presentati provvedimenti legislativi
che aumentino le spese o riducano le entrate». Infine, quinta
barriera, la Corte dei conti: alla quale Andreatta propone di
assegnare poteri di controllo assai più penetranti, come la
valutazione, in sede di rendiconto, del costo effettivo delle leggi
approvate negli esercizi precedenti, nonché la facoltà di
«investire la Corte costituzionale dei giudizi nei confronti delle
leggi non conformi alle norme» contenute nel nuovo articolo
81.
L'emendamento Andreatta viene accolto nel testo finale
proposto alla commissione, ma lì si ferma, insieme alla bicamerale
Bozzi, che inaugura la lunga serie di tentativi falliti di riforma
della Costituzione. Si ferma la riforma dell'articolo 81, ma non
l'azione riformista di Andreatta, che usa la sua nuova posizione di
presidente della commissione bilancio del Senato per riproporre,
almeno parzialmente, le barriere contro il «deficit spending»,
attraverso una riforma della legge di contabilità e una revisione
del regolamento del Senato. Si deve alla riforma della legge di
contabilità voluta da Andreatta, ad esempio, l'istituzione del
Documento di programmazione economica e finanziaria. Mentre ancora
oggi risente degli interventi di modifica voluti dallo statista
trentino, il regolamento del Senato, assai più severo di quello
della Camera: per esempio nel richiedere relazioni tecniche bollinate
dal Ragioniere generale dello Stato su tutti i disegni di legge e gli
emendamenti che comportano spesa, pena il parere contrario della
commissione bilancio («per assenza di relazione tecnica»), che
comporta l'improcedibilità da parte dell'assemblea.
Andreatta
riesce a realizzare queste riforme nel primo anno di legislatura, tra
il 1987 e il 1988, durante l'ultimo tratto di strada della lunga
segreteria Dc di Ciriaco De Mita, che nel 1988 diventa anche
presidente del Consiglio. Il drago del debito viene ferito e rallenta
per un attimo la sua corsa, ma è ancora vivo e tutt'altro che vinto.
Arrivano i governi Andreotti VI e VII e la legislatura si conclude
tra nubi che annunciano la tempesta, che costringerà il governo
Amato alla grande svalutazione della lira e alla manovra record da
100 mila miliardi.
Intervenendo nel dibattito sulla fiducia
all'ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, Andreatta torna a
chiedere una riforma dell'articolo 81, «perché abbiamo la necessità
di adeguare ai meccanismi della Germania federale o della Francia il
nostro sistema di bilancio; abbiamo bisogno di stabilire chi è
responsabile di che cosa», superando la «cogestione» tra governo e
parlamento, nella quale prospera l'irresponsabilità.
«Ma è
certo — osserva Andreatta — che il problema fondamentale rimane
quello del sistema politico». Dopo la fase virtuosa, quella del
centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni,
«dal 1972 ad oggi possiamo dire che c'è stata un'era della
ingovernabilità, perché non c'è stata intesa, non c'è stata più
coalizione». E allora, conclude, «delle due l'una: o si riesce a
ricostruire questo spirito di coalizione o si creano strumenti (come
la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il
divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di
governare con maggioranze più ristrette. È un classico ormai: in
tutte le analisi quantitative sul perché la spesa pubblica in certi
periodi e in certi paesi ha presentato larghi deficit, una variabile
importante è la larghezza delle coalizioni, la scarsa durata dei
governi, la mancanza di spirito di coalizione. Ecco perché, come è
ovvio, i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di
un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei
risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti».