David Sassoli
Nella prima Repubblica non si usava
parlare dei partiti come fossero “una comunità”. Erano tante
cose, ma quell’espressione sarebbe suonata strana, anomala per
dirigenti allenati alla battaglia dentro e fuori gli spazi della loro
appartenenza. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a un
congresso o a un comitato centrale e parlare di comunità.
Tuttalpiù si poteva parlare di
movimento, come faceva Pietro Ingrao quando voleva indicare la
prospettiva di un Pci alla guida di un fronte largo, inclusivo di
realtà dinamiche e spontanee. Di comunità parlavano i cattolici, ma
solo quando erano in ambito ecclesiale. Oppure ne parlavano Adriano
Olivetti e le reti evangeliche e confessionali.
Alla comunità nazionale poi, ci si
riferiva per evitare di pronunciare la parola patria, termine
nazionalistico e dal sapore militaresco; a quella internazionale,
soprattutto nei casi di interventi armati. L’espressione, comunque,
era inadatta per gruppi immersi nella lotta politica. Anche le
correnti democristiane avevano pudore nel riferirsi a quei legami
morali che la politica poteva spezzare con grande facilità. Soltanto
un caso salta alla memoria: la Comunità del Porcellino di La Pira,
Dossetti e Lazzati negli anni della Costituente.
Ma quello è stato un caso molto
particolare. Erano persone consacrate, come si saprà
successivamente, legate da forti amicizie, che vivevano insieme, e
insieme lavoravano, studiavano, pregavano. Da allora, per
cinquant’anni, difficile trovare riferimenti per associare i
partiti all’idea di comunità. E qui c’è un primo paradosso:
anche se non se ne parlava, il paese era tenuto insieme da
quell’architettura di corpi intermedi che ne costituivano
l’impalcatura sociale. Comunità di comunità, come ha raccontato
per anni il professor Achille Ardigò.
Nel tempo della crisi dei partiti,
invece, di comunità politica si parla riferendosi al proprio piccolo
spazio. A destra, sinistra e al centro, la politica si svolgerebbe
sempre all’interno di comunità. Un modo, in mancanza di visioni
comuni, per tentare di saldare i propri destini e al tempo stesso per
appellarsi a imprecisati valori di fondo e abbozzare la cornice del
proprio stare assieme. Spesso e volentieri è anche un richiamo
sentimentale per misurare rapporti di forza o riportare all’ordine
i riottosi.
L’uso improprio della dimensione
comunitaria appare molto spesso stonata, anche perché il più delle
volte viene accompagnata da improperi, maledizioni e bestemmie.
Essere comunità è un’altra cosa. E certo sarebbe utile se i
partiti si sforzassero di esserlo. Sarebbe bello, per esempio, se i
dirigenti locali non si sentissero respingere da quelli nazionali e
gli rispondessero almeno al telefono; che a uno che ti scrive si
abbia la bontà di rispondere; che si esercitasse l’autorità con
la disponibilità all’ascolto; che vi sia pazienza, inclusività;
che si consideri il proprio ruolo al servizio di qualcosa che viene
condiviso e non solo per affermare il proprio prestigio.
Basterebbero piccoli segni per dare
significato a una parola abusata ma dal significato prezioso, da
usare con parsimonia per non inquinarne il significato profondo
perché conduce a quei legami di fraternità che tanto spesso la
politica violenta. Se in comunità non si vive il senso profondo
dell’uguaglianza non c’è comunità; se una comunità non si
fonda sull’amicizia è inutile parlarne; se in una comunità non si
esercita la virtù della moderazione difficile condividere le
difficoltà.
Ma anche tutto questo, di certo utile,
non basterebbe comunque a invertire la tendenza che spinge società
disintermediate ad affrontare la contemporaneità. Espellere corpi
sociali dal dibattito pubblico, non suscitare nuove forme di
partecipazione, disinteressarsi al dialogo sociale impedisce al paese
di essere rappresentato da reti di comunità. Questo è il
riferimento più prezioso a cui dovrebbero far riferimento i partiti.
“Per un partito non avere una base definita significa esistere nel
vuoto”, scrive Colin Crouch in “Postdemocrazia”.
Non occorre essere particolarmente
acuti per notare che società disintermediate sono sempre più
esposte a virus oligarchici o populisti. Parlare di comunità è
riferirsi alla salute della nostra democrazia. Che il Natale scenda a
esorcizzarci almeno dall’utilizzare parole improprie, a recuperare
spirito democratico, e a togliere la maschera dietro la quale si
nascondono ipocrisie dalle ripercussioni pericolose.
Nessun commento:
Posta un commento