Fabrizio Rondolino
L'Unità 2 dicembre 2016
Alla fine, si vota sulle due narrazioni
di Renzi e di Grillo
Stasera scenderà sull’Italia il
silenzio elettorale – anche se, c’è da giurarci, sulla Rete sarà
rumorosissimo – e, proprio come accade al calar del sole, c’è un
po’ di tempo per riflettere sulla giornata appena trascorsa e per
immaginarsi quella che verrà.
E’ stato detto che questa è la
campagna elettorale più brutta di sempre, la più violenta e la più
esagerata, se non la più ridicola. D’accordo, è grottesco
accusare la riforma di innescare una “deriva autoritaria”, o
paventare l’uscita dell’Italia dall’euro nel caso di una sua
bocciatura: ma le campagne elettorali sono sempre esagerate, ridicole
e violente, e lamentarsene scandalizzati fa parte del rituale
preelettorale, tanto quanto l’orgia dei sondaggi (che vengono
scrutati compulsivamente, salvo subito precisare che non valgono
nulla) o la simulata preoccupazione per il “Paese diviso” –
dimenticando che le votazioni si fanno precisamente allo scopo di
dividersi, contarsi e poi decidere.
Al netto della retorica, dei rituali e
delle sciocchezze, e al netto anche del merito della riforma – a
proposito: di merito si è parlato molto, su entrambi i fronti,
imponendo agli elettori chissà quanto entusiasti un corso accelerato
di diritto costituzionale: e questa è una buona cosa –, l’aspetto
simbolico che più colpisce nell’appuntamento referendario di
domenica sta proprio nella semplicità, e nella radicalità,
dell’opzione sottoposta al voto – Sì oppure No.
E cioè un’affermazione – la più
ampia, le più indefinita fra tutte – contrapposta ad una negazione
– la più radicale, la più esclusiva.
Il Sì è un’apertura, il No è una
chiusura: il primo apre un ventaglio ampio, e potenzialmente
infinito, di possibilità; il secondo ostruisce, sbarra, resiste.
Dire di sì – assentire – significa
dichiararsi pronti a ciò che verrà; dire di no – negare – vuol
dire ripiegarsi su ciò che già c’è.
Il punto, qui, non è l’esaltazione
aprioristica e pregiudiziale del “nuovo” (perché è verissimo
che nuovo non significa di per sé migliore), ma l’atteggiamento,
la tonalità emotiva, la predisposizione nei confronti del futuro.
In altre parole, l’ottimista dice Sì
e il pessimista dice No.
Che entrambi abbiano le stesse
possibilità di aver ragione non è qui importante: quando si
sceglie, quando si guarda al domani, quando si immagina il futuro
nessuno sa veramente che cosa accadrà. La scommessa che facciamo si
basa certo sul ragionamento, sull’analisi dei fatti, persino
sull’indagine empirica: ma la spinta decisiva a scegliere –
proprio perché non sappiamo veramente che cosa accadrà – ci viene
dal nostro stato d’animo, dalla nostra temperatura emotiva, dal
nostro carattere.
Ciò che vale per gli individui vale
anche, entro certi limiti, per le comunità, i gruppi e l’intero
corpo elettorale. Il referendum di domenica chiama i cittadini a
votare su un nuovo assetto istituzionale, più snello, più
efficiente e meno costoso: ma mai come in questa occasione il cuore
dello scontro – simbolico, e dunque politico – è fra ottimismo e
pessimismo, fra fiducia e paura, fra speranza e delusione.
Di questo, del resto, hanno parlato in
questi anni le due narrazioni egemoni: quella renziana ha sempre
puntato sulla fiducia nel futuro, sulla capacità di rialzarsi e
ricominciare, sull’ottimismo della ragione e della volontà, sulla
possibilità di cambiare e migliorare; la narrazione grillina, al
contrario, ha giocato tutte le sue carte sulla delusione, sulla
rabbia, sul crollo della fiducia negli altri e nel “sistema”,
desolatamente giudicato compromesso per sempre e ormai inemendabile.
Di questo bipolarismo simbolico,
sentimentale e culturale si occupa il referendum di domenica: di
questo rende conto alla politica e a noi stessi. E’ come se sulla
scheda ci fosse scritto: “Sei ottimista?”
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