massimo gramellini
La Stampa 10 maggio 2016
Ogni volta che inciampo in un comizio
del sindaco De Magistris penso con qualche brivido che c’è stato
un tempo in cui quel furbo arruffapopolo era un magistrato. Lo
spacciatore di rivoluzioni alle vongole che sul palco arringa la
folla fingendo di farne parte ha avuto in passato il terribile potere
di privare altri individui della libertà. Di sicuro fa meno danni
dove sta ora, al governo di una città che non vuole essere
governata, ma ammaliata. L’ultimo monologo del tribuno napoletano
ha raggiunto vette retoriche da repubblica delle banane. Andate a
godervelo sul web, se volete ripassare le ragioni per cui da
settant’anni in Italia comandano i democristiani. Perché l’unica
alternativa sembra essere questo populismo d’accatto, che specula
sulla rabbia degli impoveriti per costruirsi un dominio personale.
Sono ormai abbastanza vecchio per
sapere che chi urla in piazza «Potere al popolo!» si immedesima a
tal punto nel popolo che il potere lo vuole tutto per sé. E dopo
trent’anni di gargarismi leghisti mai seguiti da un atto concreto
non mi spaventa un caudillo che incita alla secessione le plebi
furenti e minaccia a salve il governo centrale, al grido di «Renzi,
cacati sotto». Ma continuo a trovare esilarante e terribile lo
sdoppiamento di personalità che porta il santone partenopeo ad
annunciare che «dopo le elezioni del 5 giugno tutto cambierà: io
uscirò dal Palazzo e governerò in strada!», come se il sindaco
uscente fosse un altro e non lui.
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