Fabrizio Rondolino
L'Unità 4 maggio 2016
Il problema principale della giustizia
italiana in rapporto alla politica è che i magistrati continuano a
indagare (e i giornali ad emettere sentenze di colpevolezza), ma le
inchieste non si chiudono più.
Per carità, non parliamo di “giustizia
ad orologeria”. La magistratura indaga ogni volta che viene a
conoscenza di un reato, e non è colpa di un pm se, per una pura
coincidenza, un’inchiesta si sovrappone ad una campagna elettorale.
Del resto in Italia si vota spesso, quasi ogni anno, e poiché le
elezioni non si possono sospendere è statisticamente assai probabile
che un’indagine su un politico coincida con un appuntamento
elettorale. E in ogni caso, come giustamente ha subito dichiarato
Lorenzo Guerini, “piena e totale fiducia nel lavoro dei magistrati,
confidando che si faccia chiarezza con la massima rapidità”.
Guerini, oltreché vicesegretario del
Pd, è stato anche il predecessore del sindaco di Lodi Simone
Uggetti, arrestato ieri per una presunta turbativa d’asta
nell’assegnazione della gestione delle piscine comunali. “Ho
conosciuto in questi anni Uggetti come amministratore competente e
accorto e come persona più che corretta e limpida”, ha detto
Guerini (che l’ha avuto in giunta due volte come assessore): e,
fino a prova contraria e a sentenza definitiva, la parola di Guerini
non può essere messa in discussione.
Ma se il vicesegretario del partito del
premier auspica che i magistrati lavorino con “la massima
rapidità”, non è soltanto perché Uggetti è un amico. Il
problema principale della giustizia italiana in rapporto alla
politica non è, come ha erroneamente sostenuto Piercamillo
Davigo, che “i politici continuano a rubare, ma non si vergognano
più”: il problema è che i magistrati continuano a indagare (e i
giornali ad emettere sentenze di colpevolezza), ma le inchieste non
si chiudono più. Il caso ha voluto che, proprio nel giorno in cui
Matteo Renzi invitava i giudici ad esprimersi non con le
dichiarazioni di principio ma con le sentenze, il Tribunale di
Potenza abbia condannato alcuni imputati in un’inchiesta sul
petrolio (non quella che è costata il posto a Federica Guidi).
Qualcuno ha colto al volo la coincidenza per burlarsi di Renzi.
Ma quella sentenza conferma meglio di
dieci convegni sulla crisi della giustizia le parole del presidente
del Consiglio. L’inchiesta era cominciata nel 2008, gli imputati
erano 31 (fra cui alcuni amministratori locali) e, dopo otto anni di
indagini e a due mesi dalla prescrizione, il Tribunale ha condannato
in primo grado 13 imputati mandandone assolti 18. E questa sarebbe la
giustizia che aiuta la politica a fare pulizia? Prendiamo un altro
esempio: la nuova inchiesta sul petrolio, diventata pubblica il 31
marzo scorso. Dal primo aprile, tutti i giornali l’hanno messa in
prima pagina, pubblicando rivelazioni e indiscrezioni,
intercettazioni (spesso del tutto ininfluenti ai fini dell’indagine)
e retroscena, giorno dopo giorno, fino al 17 aprile.
Quella domenica i principali
quotidiani, sempre in prima pagina, annunciavano che era finito sotto
inchiesta anche il vicepresidente di Confindustria, Ivanhoe Lo
Bello (il Fatto, più fantasioso della concorrenza, titolava invece:
“Potenza, nelle telefonate Matteo, Angelino e Lupi”). Da lunedì
18 aprile, però, non è più uscita una sola riga sulla
“Trivellopoli” che qualche burattino della Casaleggio Associati
srl aveva definito “più grande di Tangentopoli”, e l’inchiesta
è tornata nel silenzio assordante in cui giaceva già da un paio
d’anni. Che diavolo sarà successo quella domenica 17 aprile? Il
governo ha imposto il bavaglio alla Procura di Potenza, i pm sono
andati in ferie, c’è stata un’invasione di cavallette, un
terremoto, un’inondazione, una retata di magistrati e giornalisti
d’assalto? Pare che quel giorno, a parte il referendum sull’energia
snobbato dalla stragrande maggioranza degli italiani, non sia
successo nulla. Ma questa dev’essere soltanto una coincidenza.
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