foto del giorno
mercoledì 4 novembre 2015
martedì 3 novembre 2015
Il Fatto s’inventa i virgolettati di Reichlin
Fabrizio Rondolino
L'Unità 2 novembre 2015
Non è certo un renziano, ma l’ex
dirigente comunista nell’intervista non pronuncia le parole che
sono nel titolo.
Normalmente, un’intervista serve a
far conoscere ai lettori l’opinione dell’intervistato.
L’intervista è un palcoscenico che viene offerto all’ospite,
perché possa esporre al pubblico ciò che pensa. L’intervistatore
può obiettare, contestare, argomentare; può persino dissociarsi
dalle parole che trascrive: ma non può – non potrebbe –
attribuirgli pensieri e giudizi non suoi, o addirittura contrari, di
cui non c’è traccia nella conversazione. E’ una questione di
rispetto per l’intervistato, ma soprattutto per i lettori: i quali,
se per esempio sono interessati a conoscere le opinioni di Alfredo
Reichlin, hanno il diritto di conoscerle attraverso le sue parole,
non nella caricatura sfigurata che ne fa il giornale che lo ospita.
“Il Pd ha sconfitto e tradito la
sinistra”: così, fra virgolette – dunque simulando una
trascrizione esatta delle parole di Reichlin – il Fatto titola oggi
in prima pagina un’intervista al leader storico del Pci. Purtroppo
per i lettori del Fatto, e fortunatamente per tutti gli altri, di
quest’affermazione non c’è neppure l’eco nelle parole di
Reichlin. Non un accenno, un’allusione, un indizio. Niente.
Intendiamoci: Reichlin non è un
renziano. Come tutti i grandi comunisti italiani, è prima di tutto
un grande conservatore. Scrive spesso sull’Unità e non manca di
far valere il suo punto di vista. E anche nell’intervista al Fatto
non lesina le critiche a Renzi: sul rapporto con i sindacati, per
esempio, o sulla gestione della crisi di Roma. Ma del Pd critica
l’essere nato come assemblaggio di “spezzoni di ceto politico”
(dunque si riferisce ad una fase che precede l’arrivo di Renzi) e
della sinistra post-comunista dice che “siamo stati sconfitti”,
non che il Pd l’ha sconfitta. E al presidente del Consiglio
riconosce il suo essere “una personalità straordinaria”, sebbene
non sia “il fondatore di una cultura di partito”.
Che bisogno c’è di stravolgere il
pensiero di un uomo presentato, giustamente, come “una testa
lucida, lucidissima, una delle grandi memorie storiche del nostro
paese”? Qual è il vantaggio, lo scopo, il guadagno? E,
soprattutto, che cosa spinge Travaglio a pensare che i suoi lettori
siano così stupidi?
lunedì 2 novembre 2015
Roma "città delle città": una grande riforma nel tempo del superprefetto
David Sassoli
2 novembre 2015
Con l'arrivo in Campidoglio del
commissario, la "questione romana" darà il via ad una
lunga campagna elettorale. Come spesso avviene, le ragioni della
battaglia, dei rancori, dei mea culpa tartufeschi e della voglia di
rivincita potrebbero far perdere di vista alcune questioni di fondo
che, sindaco dopo sindaco e decennio dopo decennio, continuano a
lacerare la Capitale. Se ci pensiamo a mente sgombra, cosa difficile
in queste ore, tanti degli errori compiuti negli ultimi 8 anni hanno
sempre rimandato a domande più generali. Come si governa Roma? Con
quali strumenti è possibile amministrare il più vasto territorio
comunale d'Europa?
Il tempo 'neutrale' del
commissariamento prefettizio è una straordinaria occasione per
correggere meccanismi arcaici e impedire che le prossime
amministrazioni si ritrovino impotenti a sguazzare nel pantano. Per
molti aspetti, non tutti naturalmente, anche l'ultima débacle impone
un'urgente opera di ristrutturazione dei meccanismi
politico-amministrativi. Ma non c'è molto tempo e Parlamento e
Governo dovrebbero intervenire rapidamente.
Alcune cifre, per rendersi conto di
cosa stiamo parlando. Roma (1.285,30 kmq) ha un territorio grande
quanto la somma dei Comuni di Milano, Napoli, Torino, Palermo,
Genova, Bologna, Firenze, Bari e Catania. La nostra Capitale è un
unicum non solo in Italia. In Europa, la sua area è superiore a
quella di Comuni come Berlino, Parigi e Madrid. E anche New York e
Mosca hanno territori più piccoli. Finora tutto è stato accentrato
al Campidoglio. Anzi, con la legge sulle città metropolitane, il
Comune di Roma ha acquisito nuovi poteri, ampliando così la propria
zona d'influenza e di responsabilità su buona parte della sua
provincia. La legge Delrio (n.56/2014), infatti, stabilisce che alla
città metropolitana di Roma Capitale si applichino le stesse regole
- salvo per i profili di "capitalità" - delle altre città
metropolitane. È un buon metodo?
Le esperienze europee vanno esattamente
in direzione opposta. Roma è l'unica grande città europea in cui
quasi 3 milioni di abitanti e circa 150mila ettari di territorio sono
riuniti in un solo Comune. Una situazione che ha sviluppato, nel
corso della sua storia moderna, una costante cultura dell'emergenza e
ha prodotto, a parte alcune illuminate esperienze a cavallo del
secolo scorso, disprezzo per gli strumenti della pianificazione e una
ricerca costante e umiliante di strumenti straordinari. La stessa
vita quotidiana della città si svolge sempre all'insegna
dell'emergenza. Il degrado del tessuto urbano poi, è sotto gli occhi
di tutti. Non è un caso, invece, che le grandi metropoli si
caratterizzino per una forte diversificazione di poteri e
competenze.
Da noi, i 15 Municipi di Roma
somigliano a enti inutili: vengono eletti dai cittadini, ma sono
senza bilancio, hanno poteri delegati e riferiti solo ad alcune
materie; al contrario, in gran parte delle grandi città europee si
tratta di veri Comuni, con tanto di sindaco, bilancio, urbanistica,
servizi di controllo, responsabilità sulla manutenzione. Molto
spesso hanno anche poteri sui servizi sociali, edilizia popolare e
raccolta e smaltimento dei rifiuti. A Bruxelles, città di poco più
di un milione di abitanti, vi sono 19 Comuni autonomi e alla Région
de Bruxelles è demandata la competenza sulle grandi opere, le
infrastrutture più rilevanti, la metropolitana, i trasporti
pubblici, le politiche ambientali e abitative, la lotta alla
disoccupazione. Sì, perché in numerose esperienze europee i Comuni
si occupano anche di politiche per il lavoro. Il resto - bilancio,
pianificazione urbana, manutenzione, cultura, assistenza sociale - è
di responsabilità del sindaco di Ixelles, Anderlecht, Saint
Gilles... Comuni spesso amministrati da giunte di colore politico
diverso, consentendo così concorrenza sull'efficienza di molti
servizi.
Troppo piccola Bruxelles? Allora
prendiamo Londra, dotata di un ordinamento specifico disciplinato
dalla Greater London Authority Act (GLA) del 1999. La Grande Londra è
equiparabile alle 8 regioni del Regno Unito, e comprende 33 Borghi
(Boroughs) fra i quali è compresa la City, un'area di un miglio
quadrato in centro città. Sia la Grande Londra che i Borghi hanno
sindaci e assemblee elette. Competenze: la GLA non fornisce servizi
ai cittadini, ma detiene competenze strategiche e responsabilità sul
sistema dei trasporti, della sicurezza e dei sistemi antincendio,
della pianificazione strategica e dello sviluppo economico. I
Boroughs sono gli enti più importanti della città perché
gestiscono i servizi pubblici: raccolta e smaltimento rifiuti,
agenzie delle entrate, scuole, biblioteche, servizi sociali,
manutenzione, edilizia popolare, salute ambientale, politiche per il
tempo libero sono le funzioni assegnate ai London Borough Council.
E potremmo continuare con Parigi,
Madrid... Nella capitale spagnola, ad esempio, il sistema di governo
è regolato da uno statuto speciale e strutturato su due livelli:
municipale (l'Ayuntamento) e regionale (la Comunidad). Anche a
Parigi, Comune e Arrondissements regolano, anche se in maniera
diversa, le proprie competenze. Sarebbero sistemi utili anche per la
nostra Capitale?
Di certo, Roma ha bisogno rapidamente
di una profonda riforma politico-amministrativa per troncare, ad
esempio, la contrapposizione esistente fra la città consolidata -
quella 'storica' che contiene tutte le funzioni - e le periferie, in
cui abita l'80 per cento dei cittadini. E soprattutto per favorire
logiche di integrazione e riqualificazione di vaste aree abbandonate
e prive di servizi, in cui si esasperano squilibri sociali, privilegi
di casta, vergognosi sprechi di risorse pubbliche. Grandi agglomerati
urbani devono trovare dinamiche di gestione proprie delle città. E
possono farlo solo diventando città. E come tutte le città, trovare
un centro, sviluppare vocazioni, servizi, capacità di produrre
benessere, urbanistica, responsabilità amministrativa.
Disegnare una "città delle
città", con sei o otto veri Comuni, potrebbe inoltre consentire
al Campidoglio di dotarsi di un piano strategico e acquisire poteri
di indirizzo e controllo idonei ad amministrare una vasta area
urbana. Criminalità, malaffare, strumenti insufficienti, personale
sotto utilizzato o male utilizzato, classe politica inadeguata,
dipartimenti obsoleti, irresponsabilità amministrativa sono stati i
fenomeni che hanno caratterizzato gli ultimi 8 anni di vita
cittadina. La politica e i partiti hanno enormi responsabilità e
oggi ci ritroviamo con una città non amministrata. Per molti aspetti
non può esserlo con gli strumenti attuali. E non basta chiedere
scusa ai romani - modo infantile e offensivo di prendere atto della
propria incapacità - come fanno a gara in queste ore solitari
esponenti di partito.
Dopo l'ultima umiliante stagione, sarà
il caso di farsi delle domande e una volta tanto cercare di andare in
profondità nelle risposte. La stagione del commissario prefettizio è
il tempo giusto per una ristrutturazione politico-amministrativa, in
grado di sconfiggere la cultura dell'emergenza e
dell'irresponsabilità, e dotare le istituzioni cittadine di
strumenti in grado di governare un territorio che è sette volte più
grande di quello di Milano e circa 11 volte il Comune di Napoli.
don Milani...riabilitato!!!
Pierluigi Castagnetti
Dopo 56 anni don Lorenzo Milani è stato riabilitato dalla Chiesa di papa
Francesco. Era ora! Sicuramente dal Cielo don Lorenzo ne sorriderà. Più
o meno è il periodo mediamente atteso dalla chiesa per riconoscere le
virtù di tanti preti e laici che in vita, essendo considerati se non
eretici quantomeno "stravaganti", hanno dovuto soffrire l'incomprensione
e l'emarginazione. Ecco a me pare anche questa una delle novità
introdotte da papa Francesco: il reato di radicalità evangelica è
estinto con effetto immediato, anzi è riconosciuto come virtù da
proporre come esemplare almeno agli occhi dei credenti.
domenica 1 novembre 2015
"Orgoglio bresciano" ha vinto.
Giovanni Colombo
31 ottobre 2015
Nel mistero dell’Infinito
oscilla un pianeta,
e, sul pianeta, una
città,
e, nella città, un
parco giochi,
e, nel parco giochi,
un albero
che la sera si
trasforma in luce…
Il simbolo dell’Expo è
lui, l’albero della vita.
Non poteva essere
altrimenti. Dal Genesi in poi tutto ruota intorno agli alberi.
Il popolo del decumano,
quando l' ha visto in fondo al cardo, per giunta in
formato elettronico e multicolor, col sonoro incorporato, non ha
capito più niente e si è messo a cliccare all’impazzata.
L’Expo non sarà stato
completamente inutile se sarà servito a ricordarci la nostra natura
originaria e il nostro sogno fondamentale.
Chi siamo? Siamo corpi
che hanno scritto dentro, a caratteri invisibili
ma incancellabili, il paradiso (tipo il
bendidio esposto nei padiglioni), e nel paradiso,
l’albero splendente.
Cos’è quest’albero?
E’ il ricordo dell’inizio, tanto buono tanto bello, poi
perduto, ora da ritrovare. Il fine di tutte le lotte eroiche (e
di tutte le ricette migliori) è recuperare nel futuro il tempo
passato. La vita è davvero “ la recherce du temps perdu"
. Perché il tempo perduto è stato eros, non thanatos. E noi
adesso abbiamo il desiderio (vocazione) di riconquistarlo
e di mangiarlo quale cibo succulento.
"Chi siamo?”,
"Cos’è l’albero della vita?” sono le due
domande che userei per selezionare il prossimo sindaco - giardiniere.
Aggiungendone una terza: “Dove lo metti, l’albero? Fuori le
mura o nel cuore della città?"
Non farei neanche le
primarie, di più, abolirei le elezioni se qualcuno mi
rispondesse con linguaggio esente da errori;
“Lo pianto nel posto
più importante. Non lo lascio ai bordi della periferia. Lo voglio
davanti alla mia finestra, in Piazza della Scala. E’ l’albero
- non l’obelisco, la piramide, la ziggurat, la guglia del
grattacielo - che dà la
vita. L’albero
regala i suoi frutti dodici volte all’anno, per ciascun
mese il suo frutto; le sue foglie guariscono le nazioni”.
Radicato lì, nel mezzo
del viavai, anch’io lo incontrerei ogni mattina.
Appoggerei la mia mano
sul suo tronco, contento di poterlo interrogare: ”Cosa
c’è di nuovo oggi?”
La sua risposta
mi arriverebbe senza esitazioni, portata da centinaia di
foglie: ”Tutto”.
Saluti verdi luminosi
come il fogliame del tuo intimo
"Se non avrai
prima in te, uomo, il Paradiso,
in Paradiso, credimi,
non giungerai mai”
(Angelus Silesius)
Papa Francesco, Romero martire due volte: "Dopo la sua morte per mano dei vescovi"
La Repubblica 30 ottobre 2015
Il Pontefice aggiunge passi a braccio
al discorso in spagnolo ai pellegrini del Salvador, in Vaticano per
ringraziarlo della beatificazione dell'arcivescovo ucciso dagli
squadroni della morte nel 1980: "Dio conosce la persona, e vede
se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste, la lingua"
"Il martirio di monsignor Romero
non fu solo nel momento della sua morte: iniziò prima, ma iniziò
con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e
continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto:
fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche
per mano dei suoi fratelli nel sacredozio e nell'episcopato". Lo
ha affermato Papa Francesco in spagnolo concludendo, a braccio, il
discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador, in
Vaticano in segno di ringraziamento per la beatificazione del grande
arcivescovo di San Salvador avvenuta il 23 maggio scorso.
Romero, "una volta morto - ero giovane sacerdote e ne fui testimone - fu diffamato, calunniato, infangato. Non parlo per aver sentito dire. Ho ascoltato queste cose", ha detto il Papa.
"Solo Dio - ha aggiunto il Papa - conosce la storia della persona. E vede se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua".
Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu ucciso sull'altare il 24 marzo del 1980 dagli squadroni della morte mandati dal regime che il monsignore denunciava senza compromessi. Ma dopo la sua morte in Vaticano arrivarono "una montagna di lettere anonime e firmate contro di lui", ha ammesso il postulatore della causa, arcivescovo Vincenzo Paglia, che da solo non sarebbe mai riuscito ad abbattere quel cumulo di infamie.
"Il primo Papa latinoamericano della storia - ricostruisce il vaticanista Iacopo Scaramuzzi nel pamphlet 'Tango vaticano' pubblicato nei giorni scorsi dalle edizioni dell'Asino - ha fatto chiaramente intendere, fin dai primi giorni, che voleva Romero, martire latino-americano, beato. Lo ha confidato, tra gli altri, al premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel". Così l'anno scorso, "il martedì che i cardinali votano, chi convintamente, chi obtorto collo, per l'avvio del processo che porterà Romero all'onore degli altari", anche se la prassi della Santa Sede vuole che passino due giorni prima che il prefetto della Congregazione porti, di giovedì, i dossier al romano pontefice per la firma definitiva.
Jorge Mario Bergoglio stravolge la tradizione, convoca immediatamente il cardinale Angelo Amato nel palazzo apostolico, e, bruciando i tempi, firma seduta stante il decreto che riconosce che Romero, ucciso in odium fidei: è martire, e sarà dunque beato. Si sono già persi più di trent'anni, meglio non perdere neanche un giorno di più, non si sa mai...".
Secondo Scaramuzzi, "negli anni successivi alla nascita della teologia della liberazione; il Vaticano guarda con aperto fastidio alle convergenze tra cattolicesimo e marxismo in Sud America. "Il cardinale Lopez Trujillo lottò contro il riconoscimento del martirio di Romero", ha raccontato il fondatore della comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, spiegando che il porporato colombiano "riteneva il prelato troppo 'marxisteggiante', e temeva che la sua beatificazione si sarebbe trasformata nella canonizzazione della teologia della liberazione, cui il cardinale si opponeva".
Benedetto XVI disse di ritenere, mentre volava in Brasile nel 2007, che la persona di Romero fosse "degna di beatificazione", parole - lo ha ricostruito Gianni Valente sul sito Vatican Insider - che furono depennate nel testo ufficiale dell'intervista. Jorge Mario Bergoglio, all'epoca arcivescovo di Buenos Aires, all'Assemblea del Celam di Aparecida in quello stesso 2007 - l'episodio è stato raccontato dall'ex segretario di Romero, monsignor Jesus Delgado - affermò: "Se io fossi diventato Papa, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata inviare Lopez Trujillo a San Salvador a beatificare Romero".
Papa Francesco si è pronunciato più volte pubblicamente in merito al sacrificio di questo grande vescovo latino-americano. Il Pontefice "chiamato quasi dalla fine del mondo", ha citato Romero anche durante l'ultima udienza generale: l'arcivescovo di San Salvador, ha ricordato Bergoglio, "diceva che le mamme vivono un 'martirio materno'. Nell'omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: 'Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore... Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicitá del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E' dare la vita. E' martirio'"
Romero, "una volta morto - ero giovane sacerdote e ne fui testimone - fu diffamato, calunniato, infangato. Non parlo per aver sentito dire. Ho ascoltato queste cose", ha detto il Papa.
"Solo Dio - ha aggiunto il Papa - conosce la storia della persona. E vede se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua".
Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu ucciso sull'altare il 24 marzo del 1980 dagli squadroni della morte mandati dal regime che il monsignore denunciava senza compromessi. Ma dopo la sua morte in Vaticano arrivarono "una montagna di lettere anonime e firmate contro di lui", ha ammesso il postulatore della causa, arcivescovo Vincenzo Paglia, che da solo non sarebbe mai riuscito ad abbattere quel cumulo di infamie.
"Il primo Papa latinoamericano della storia - ricostruisce il vaticanista Iacopo Scaramuzzi nel pamphlet 'Tango vaticano' pubblicato nei giorni scorsi dalle edizioni dell'Asino - ha fatto chiaramente intendere, fin dai primi giorni, che voleva Romero, martire latino-americano, beato. Lo ha confidato, tra gli altri, al premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel". Così l'anno scorso, "il martedì che i cardinali votano, chi convintamente, chi obtorto collo, per l'avvio del processo che porterà Romero all'onore degli altari", anche se la prassi della Santa Sede vuole che passino due giorni prima che il prefetto della Congregazione porti, di giovedì, i dossier al romano pontefice per la firma definitiva.
Jorge Mario Bergoglio stravolge la tradizione, convoca immediatamente il cardinale Angelo Amato nel palazzo apostolico, e, bruciando i tempi, firma seduta stante il decreto che riconosce che Romero, ucciso in odium fidei: è martire, e sarà dunque beato. Si sono già persi più di trent'anni, meglio non perdere neanche un giorno di più, non si sa mai...".
Secondo Scaramuzzi, "negli anni successivi alla nascita della teologia della liberazione; il Vaticano guarda con aperto fastidio alle convergenze tra cattolicesimo e marxismo in Sud America. "Il cardinale Lopez Trujillo lottò contro il riconoscimento del martirio di Romero", ha raccontato il fondatore della comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, spiegando che il porporato colombiano "riteneva il prelato troppo 'marxisteggiante', e temeva che la sua beatificazione si sarebbe trasformata nella canonizzazione della teologia della liberazione, cui il cardinale si opponeva".
Benedetto XVI disse di ritenere, mentre volava in Brasile nel 2007, che la persona di Romero fosse "degna di beatificazione", parole - lo ha ricostruito Gianni Valente sul sito Vatican Insider - che furono depennate nel testo ufficiale dell'intervista. Jorge Mario Bergoglio, all'epoca arcivescovo di Buenos Aires, all'Assemblea del Celam di Aparecida in quello stesso 2007 - l'episodio è stato raccontato dall'ex segretario di Romero, monsignor Jesus Delgado - affermò: "Se io fossi diventato Papa, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata inviare Lopez Trujillo a San Salvador a beatificare Romero".
Papa Francesco si è pronunciato più volte pubblicamente in merito al sacrificio di questo grande vescovo latino-americano. Il Pontefice "chiamato quasi dalla fine del mondo", ha citato Romero anche durante l'ultima udienza generale: l'arcivescovo di San Salvador, ha ricordato Bergoglio, "diceva che le mamme vivono un 'martirio materno'. Nell'omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: 'Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore... Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicitá del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E' dare la vita. E' martirio'"
Il martire "non è qualcuno
relegato nel passato, una bella immagine che adorna le nostre chiese
e ricordiamo con nostalgia", ha detto il Papa nel discorso
preparato per oggi. "No, il martire è un fratello, una sorella,
che continua ad accompagnarci nel mistero della comunione dei santi,
e che, uniti a Cristo, non ignora il nostro pellegrinaggio terreno,
le nostre sofferenze, le nostre agonie. Nella recente storia di
questo amato paese, la testimonianza di mons. Romero, si è unito
agli altri fratelli e sorelle, come padre Rutilio Grande, che, non
avendo paura di perdere la vita, l'hanno guadagnata e sono stati
intercettori del loro popolo davanti al vivente, che vive per secoli
e secoli e ha nelle sue mani le chiavi della morte e della
vita".
Gesuita, collaboratore di Romero, Rutilio Grande Garcia fu ammazzato anch'egli dagli squadroni della morte nel 1977. La sua causa di beatificazione è stata aperta nei mesi scorsi in Salvador.
Gesuita, collaboratore di Romero, Rutilio Grande Garcia fu ammazzato anch'egli dagli squadroni della morte nel 1977. La sua causa di beatificazione è stata aperta nei mesi scorsi in Salvador.
La parabola di Amendola dal Grande fratello alle accuse a Renzi
Fabrizio Rondolino
L'Unità 31 ottobre 2015
Per l’opinionista Marino era un po’
in difficoltà ma le colpe sono del Pd a prescindere dalle
responsabilità, dagli scontrini, dalle Coop e da Mafia Capitale
L’opinionista di punta del Grande
Fratello ha lasciato per qualche ora gli studi di Mediaset e si è
dedicato a studiare la crisi di Roma, certamente meno complessa delle
dinamiche in corso nella casa di Cinecittà e tuttavia non
indegna di un’analisi approfondita. Claudio Amendola, del resto,
è (stato) un attore engagé e de sinistra, e dunque non poteva
mancare all’appuntamento.
Ringraziamo dunque il Fatto per aver
raccolto le sue riflessioni, sottraendolo almeno momentaneamente
ad Alessia Marcuzzi. “L’atteggiamento del Pd e del governo
verso Roma – esordisce l’opinionista del GF – mi terrorizza.
Hanno permesso che Roma restasse senza timone.” Il timone chissà,
ma un timoniere fino a ieri Roma l’aveva: Ignazio Marino. “Era
un po’ in difficoltà”, concede Amendola: ed è l’unico
riferimento al sindaco in un’intervista che occupa un’intera
pagina. Perché il problema, insiste l’opinionista del GF, è
il Pd, o meglio Renzi, “a prescindere da tutte le
responsabilità, dagli scontrini, dalle coop, da Mafia Capitale”.
Beh, se non ci fossero né responsabilità né scontrini né
Mafia Capitale tutto andrebbe per il meglio, e Marino sarebbe ancora
al suo posto: ma questo ragionamento deve apparire troppo grossolano
al raffinato opinionista, che procede spedito “a prescindere”.
A prescindere da Roma, dunque, c’è
Renzi: se si fosse “fatto sentire per dare una mano”, tutto si
sarebbe aggiustato. E invece “quando c’è qualche cazzo serio in
questo paese, manda sempre qualcun altro”. Insomma, solo Renzi
può risolvere i problemi, qualsiasi problema: ma deve andarci
di persona. Se non presiede lui la giunta, se non controlla le note
spese, se non raccoglie con un sacchetto l’immondizia e se non
dirige personalmente il traffico a piazza Venezia, Roma si
blocca. Anzi, peggio: “la merda deborda e Roma ne viene sommersa”.
L’analisi dell’opinionista
momentaneamente sottratto alla Marcuzzi si conclude con una
fosca previsione. Il Giubileo? “Vedremo l’inferno, sarà il
caos. Vivremo cose che non abbiamo mai vissuto.” Un bel
disastro davvero: bisognerebbe chiamare Renzi.
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