Caro Direttore,
l’Italia è di fronte a una grave crisi
strutturale. Non solo per gli indicatori economici che ogni giorno
mostrano il declino del nostro Paese, ma anche e altrettanto
gravemente a causa dell’impoverimento culturale e della coesione
nelle relazioni sociali. Un Paese dilaniato dai conflitti diviene
incapace di assumere scelte strategiche di lungo periodo, rischia di
essere ossessionato dai tatticismi e dalle convenienze immediate; una
nazione che dileggia il sapere e le competenze come qualcosa di
distante dal popolo è un Paese destinato inevitabilmente al declino.
Ma l’Italia non è solo questo.
L’Italia è un grande Paese, con risorse
economiche, culturali e morali da cui poter attingere per ritrovare
speranza e dignità. Abbiamo tutte le possibilità per rimetterci in
marcia perché l’Italia ha bisogno di un sogno, di una speranza e
di un grande progetto di sviluppo e rilancio. Dobbiamo avere
l’ambizione, credo, non solo di completare una legislatura come
doveroso, ma di dare vita a un tentativo culturale oltre che
politico. Va riconosciuto che l’esperimento fallito in Italia della
coalizione populista, con gli enormi rischi e limiti che abbiamo
sempre denunciato, aveva comunque un retroterra ideale comune nel
tentativo di riprendere il controllo di un sistema che produce grandi
diseguaglianze ma poche opportunità e nel primato della politica
contro centri di decisione e fenomeni di dimensioni globali quali
l’immigrazione e la finanza.
Ma il populismo è irrealizzabile perché
fondato sostanzialmente sul ritorno al passato,
sulla chiusura delle relazioni, dei porti, degli scambi e il ritorno
nella fortificazione dello Stato Nazione. Certo è che il popolo non
dovrebbe essere messo nelle condizioni di scegliere fra una
“democrazia dei mercati” e una “democrazia populista”.
Dovrebbe poter vivere in una “democrazia sostanziale” come l’ha
pensata la nostra Costituzione: una democrazia che si nutre di scopi
collettivi e non di paure. La scelta di superare la logica del
contratto giallo verde ha questa ambizione di superare una cultura di
fondo profondamente sbagliata. Un governo che parte con la logica del
“contratto”, porta in sé il DNA della sfiducia, tipico delle
relazioni competitive e che necessitano di essere burocratizzate.
L’Italia ha invece bisogno di fiducia, di
semplicità, di poter sognare fuori da ogni opportunismo individuale,
di superare la logica dell’utilitarismo spicciolo per mettere
davanti il bene comune. La parola comunità è stata espulsa dal
dibattito politico. Ma esistono e vanno riconosciute come ricchezza
numerose comunità con radici spirituali, con senso autentico di
cooperazione umana e di dedizione alle sorti della vita comune. Sono
soprattutto le comunità territoriali come la famiglia, la città e
la provincia dove si può conciliare il lavoro tecnico e la
promozione dell’umano, i principi estetici e naturali con quelli
sociali. Ove la gratuità del gesto d’amore e della cura può
essere praticato, come da sempre vien fatto, in uno spazio di libertà
personale protetta da utilitarismi ed efficienza. Avvertiamo la
necessità di un rinnovato investimento nella educazione per
rafforzare queste comunità. Gli investimenti in cultura, dalle
biblioteche di quartiere alle scuole di quartiere, ebbene tutte
queste cose rispondono a bisogni che non sono in rapporto con la vita
fisica bensì con la vita morale. Che in questo tempo di degrado del
linguaggio e delle posture istituzionali è la vera infrastruttura di
cui si sente il bisogno. Questi bisogni sono altrettanto sentiti e
necessari alla vita quanto quelli fisici.
Ciò che importa è avere una visione di un futuro ed
una speranza per i nostri figli ed arrestare la precarietà e
l’insicurezza che ci spaventano, per costruire relazioni più sane
tra le persone e con l’ambiente in cui viviamo. Non è nella
burocrazia dei contratti che si incarna la politica, ma
nell’esercizio del confronto continuo e nel lavoro comune. Dobbiamo
assumere come verità storica e base culturale il dato che il potere
degli uomini non è determinato dalla somma dei singoli individui ma
dalla capacità di essere collettività. Gli uomini hanno creato un
mondo migliore nel corso degli ultimi decenni grazie alla
cooperazione e non grazie alla violenza e alla competizione. Dobbiamo
parlare a quell’Italia sana che fatica, studia, lavora ogni giorno
e che si aspetta qualcosa di più dei piccoli opportunismi e delle
liti da cortile. Occorre davvero un salto di qualità a partire da un
atteggiamento più adulto e maturo dei protagonisti di questa
scommessa che ha senso solo se collocata dentro a un grande sogno
comune.
Da più parti si pone la questione della capacità di
rappresentare l’opinione della base elettorale dopo anni di
sanguinosi conflitti tra i partiti. Ma come si pensa di scaldare i
cuori delle reciproche basi elettorali? Dicendo che si è stati bravi
a negoziare un punto programmatico in più, facendo intendere che non
ci si è fatti “fregare” o piuttosto coinvolgendo i cittadini
nella costruzione di una nuova speranza di uguaglianza, emancipazione
e riscatto sociale? Rimanere umani, ritornare a essere umani non
significa abbandonare la propria felicità ma realizzarla. Si tratta
di riportare al centro della visione politica le persone e le loro
esigenze esistenziali, che sono una vita autonoma, dignitosa e
vissuta in pienezza con altri. Infine, si deve conseguentemente
assumere una agenda chiara di politiche pubbliche prioritarie che
rendono possibile l’esperienza personale e comunitaria: politiche
radicali di riarmonizzazione con l’ambiente, politiche di welfare
comunitario e generativo di capitale sociale, politiche del lavoro e
dell’impresa responsabile. Lavoro, salute, educazione e ambiente
valgono più del PIL pro-capite per capire la ricchezza di un popolo.
Governare non significa stare in perenne campagna
elettorale e guardare ogni giorno i sondaggi. Significa la fatica di
sporcarsi le mani, risolvere i problemi e investire per il futuro
anche sapendo che i frutti della fatica verranno colti da altri più
in là nel tempo e senza che spesso ci vengano riconosciuti.
Significa essere generosi verso gli altri e verso chi viene dopo di
noi perché il futuro dipende da ciò che ognuno di noi fa nel
presente. Questo significa politica di servizio: essere ogni giorno
in servizio. In silenzio e senza doverlo continuamente annunciare. Di
questo ha bisogno il Paese: di un progetto ambizioso, condiviso,
serio e silenzioso. Serve uno scatto, che mi permetto di dire è
innanzi tutto etico e culturale, per sfruttare questa occasione e per
dare un senso compiuto e una speranza forte a questi giorni
difficili.
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