Giorgio Tonini
Democratica 13 ottobre
2017
Capitò a me dare la
notizia, nell’aula del Senato, della scomparsa di Pietro Scoppola.
Erano da poco passate le 10,30 di giovedì 25 ottobre di dieci anni
fa. Scoppola era morto nella notte, dopo una lunga e logorante
malattia. Ricordai che era entrato in Senato da giovanissimo
funzionario e poi, in una breve pausa della sua feconda carriera di
docente di storia contemporanea, era tornato come senatore
democratico cristiano nella nona legislatura (1983-1987). Ricordai
anche il suo impegno per le riforme, costituzionali ed elettorali, e
per l’Ulivo e il Partito democratico. Concludevo
osservando: “C’è un
filo di ironia della storia o – per chi crede – della
Provvidenza, nel fatto che il professor Scoppola sia mancato due
giorni prima dell’assemblea costituente del Partito democratico”.
La costituente del Pd era stata eletta dieci giorni prima, il 14
ottobre, e si sarebbe riunita per la prima volta, per ratificare
l’elezione a segretario di Walter Veltroni, il sabato successivo.
Al mio annuncio, l’aula del Senato, per pochi minuti, si trasformò.
Era un’aula spaccata
in due come una mela: da
una parte l’Unione di centrosinistra, divisa al suo interno su
tutto, ma schierata a disperata difesa del governo Prodi; dall’altra
quella che allora appariva la falange berlusconiana, protesa nel
tentativo di far saltare governo e legislatura, convinta di essere
maggioranza nel paese. La notizia della morte di Scoppola impose
un’ora (scarsa) di cessate il fuoco. E si unirono nell’omaggio
all’uomo di studi, mai disgiunti da una forte passione civile e
politica, personalità antitetiche tra loro come Quagliariello e
Russo Spena, Salvi e Zanone, D’Onofrio e Palermi.Il testo che
Democratica ha deciso di riproporre ai suoi lettori è forse il
testamento politico di Scoppola. Si tratta della relazione che il
professore tenne a Orvieto, il 6 ottobre del 2006: in quel seminario,
arricchito anche dai contributi di Salvatore Vassallo e Roberto
Gualtieri, furono gettate le fondamenta culturali e politiche del
Partito democratico. Che nacque da un compromesso: tra le istanze
radicalmente e talvolta astrattamente innovative del movimento
ulivista e gli equilibri, anche di potere, tra e nei partiti
fondatori.Scoppola vede lucidamente il compromesso e non lo
demonizza. Del resto, uno dei tratti salienti della ricerca
intellettuale, della vicenda politica e perfino della meditazione
spirituale di Scoppola è sempre stato il suo collocarsi sulla
sottilissima soglia tra conflitto
e mediazione. Il
conflitto, per non degenerare in dissoluzione, deve aprirsi alla
mediazione, che a sua volta deve accettare la sua insuperabile
provvisorietà e strutturale insufficienza. Ciò che conta è che
questa dialettica non si spenga, mai. “I partiti facciano i passi
oggi possibili — conclude Scoppola la sua storica relazione — ma
avvertano il rischio e la tremenda responsabilità delle parole: il
rischio che le speranze cresciute in questi anni diventino nuove
delusioni”.
Le ragioni del Partito
Democratico
Pietro Scoppola
Orvieto 6 ottobre 2006.
La relazione del Professor Pietro Scoppola al convegno “Verso il
Partito Democratico”
Sono grato a Romano Prodi
per avermi chiesto di aprire questo seminario.
I. Nella sua lettera di
invito Prodi indica chiaramente le ragioni che ispirano la proposta
di dar vita a un partito democratico: caduti i motivi che in una
lunga stagione storica hanno diviso le forze democratiche e
riformatrici, occorre, in un sistema bipolare “trasparente e
moderno”, dar vita a un soggetto capace di raccogliere la domanda
di unità e di cambiamento che sale dal Paese. L’obiettivo è
quello di condurre in porto “quel processo politico che dopo anni
di sforzi ed esperimenti, ha
portato, anche attraverso le primarie
del 16 ottobre 2005, alla decisione di proporre la lista unitaria
dell’Ulivo alla Camera”.
Il cenno alle primarie
indica la volontà di una apertura a realtà popolari, ad
associazioni e a personalità che hanno lavorato per l’Ulivo e poi
per il Partito democratico. Ma è esplicito nella lettera il richiamo
ai partiti che hanno dato voce e rappresentanza alle tradizioni
riformatrici e sono parte fondamentale e costitutiva della
Repubblica e dello Stato democratico. Perciò – dice Prodi –
“dobbiamo immaginare un percorso in cui le scelte e le decisioni
dei partiti (nei loro organi decisionali fino ai congressi) si
incontrino e convergano con una platea di soggetti più ampia e meno
o diversamente strutturata”.
I partiti sono perciò i
principali protagonisti del processo verso il partito democratico che
Romano Prodi propone. E’ inevitabile che sia così come era
inevitabile -se è consentito un paradossale richiamo storico- che i
sovrani assoluti, i detentori del potere, quando erano costretti
dagli eventi, concedessero le costituzioni. L’alternativa era solo
la rivoluzione i cui esiti, peraltro, come la storia insegna, sono
stati sempre ricondotti entro un equilibrio fra vecchi e nuovi
poteri.
Voglio dire insomma che
nella proposta di Prodi non c’è un azzeramento dell’esistente,
non c’è e non ci poteva essere uno scioglimento preventivo dei
partiti. I partiti sono e rimangono protagonisti della transizione.
Ho richiamato questo dato
della decisiva rilevanza dei partiti solo perché di qui nascono le
difficoltà, le tensioni con cui dobbiamo misurarci. Dice Prodi nella
sua lettera: “in tutte le obiezioni che vengono mosse al progetto
[….] c’è qualcosa di vero”. Ma noi, prosegue, dobbiamo tener
conto di tutti i dubbi e non farci bloccare. Effettivamente le
polemiche intorno alla proposta di un partito democratico sono tante
e così piene di equivoci da esigere il massimo di chiarezza e onestà
intellettuale. Tener conto di quei dubbi significa anzitutto capirne
le ragioni.
La prima domanda da porsi
è quella più radicale: il partito non è ormai una forma vuota ed
anzi rifiutata per la partecipazione alla vita politica? Non rischia
di servire solo per consentire alle oligarchie di sopravvivere, come
è avvenuto in altri campi, in economia, nella finanza,
quando attraverso fusioni, incorporazioni, od operazioni
straordinarie sul capitale, capi deboli o azionisti di minoranza
hanno preteso di conservare il loro potere? Le reazioni di molti
all’idea del partito democratico sono il segno di problemi reali,
di verità da non nascondere.
E allora appena
riconosciuto realisticamente il ruolo prevalente e, per restare nel
paradosso storico, il carattere octroyé del partito democratico,
bisogna porre al giusto livello le condizioni perché l’operazione
sia possibile e al tempo stesso credibile ed efficace. La centralità
del ruolo dei partiti non poteva non provocare le reazioni
identitarie, a sinistra come al centro. A sinistra si teme di perdere
un’identità che ha radici profonde nella nostra storia e che ha
indubbiamente contribuito a fare del nostro Paese una democrazia
veramente popolare, ha sostenuto rivendicazioni fondamentali di
libertà e di giustizia. Ma la sinistra, nel partito democratico, può
guardare al futuro.
I cattolici democratici
non possono accettare il pur cortese invito a ritrovarsi in Europa
nella casa socialista, come se fossero dei nostalgici o degli
sconfitti. Consentitemi un rinvio alla prefazione scritta “a
quattro mani” con Beppe Tognon alla seconda edizione
dell’intervista su La Democrazia dei cristiani.
Quello che è avvenuto in
Francia, con figure di grande prestigio come un Delors, non può
avvenire in Italia per tre ragioni che si riassumono in tre parole:
per la forza maggiore nel nostro Paese della tradizione politica
cattolico democratica, per la debolezza della tradizione
socialdemocratica e per il peso dell’eredità comunista nella
nostra storia. E quando dico peso, dico importanza, forza di
condizionamento della nostra società e della vita politica, in
positivo e in negativo.
E per un’ulteriore
ragione alla quale tutti i democratici dovrebbero essere sensibili:
perché spingerebbe irrimediabilmente verso una destra senza storia
la Chiesa italiana vanificando lo sforzo di due generazioni di
democratici cristiani da De Gasperi a Moro che hanno lavorato con
passione, con sofferenza, ma con frutto per tenere la Chiesa
agganciata alla democrazia, per l’ “istituzione della democrazia
nel mondo cristiano” per dirla con Tocqueville. E’stato più
difficile che altrove per la Chiesa italiana adattarsi ad uno schema
bipolare: evitiamo di favorire il riflusso verso destra di questa
Chiesa.
Non è un caso che si sia
affidata, di nuovo, a Romano Prodi, la guida del governo non solo per
la sua indiscussa competenza, ma anche, io credo, perché nella sua
formazione non è certo assente il cattolicesimo democratico. Il
problema della collocazione europea, dovrebbe essere semplicemente
rinviato a dopo la nascita del partito, quando i suoi aderenti
potranno far sentire la loro voce.
Non penso che i problemi
cosiddetti eticamente sensibili rappresentino un ostacolo
insuperabile purché siano assunti come problemi da risolvere e non
come pretesto per dividersi e purché si sappia collocarli in una
dimensione pienamente consapevole della complessità del rapporto
oggi esistente fra la scienza e una tecnologia che ha ambizioni di
onnipotenza.
Dunque i partiti del
centro sinistra facciano i passi possibili sulla via dell’unità:
unità di liste, unità di gruppi, momenti assembleari aperti alla
partecipazione di non iscritti ai partiti, assemblee costituenti a
livello territoriale. Naturalmente l’esito dipenderà dalla regia e
c’è da augurarsi che la regia sia illuminata ed aperta a questi
sviluppi e perciò sia affidata ad un organismo sufficientemente
libero e indipendente dalle logiche di partito. C’è da augurarsi
che una costituente del partito democratico, se ad essa si
arriverà, sia formata sulla base di una partecipazione larga ed
aperta.
Una questione
pregiudiziale è quella della riforma elettorale. Abbiamo una legge
elettorale che esaspera il potere dei gruppi dirigenti dei partiti,
che taglia ogni legame fra gli elettori e gli eletti e che è
funzionale ad una partitocrazia….. senza veri partiti. Bisogna
dirlo chiaramente: senza riforma elettorale il partito democratico
non può mettere radici; ma la determinazione dei partiti su questo
tema, dopo l’appello di Prodi per una riforma, appare assai
incerta.
Altro elemento
qualificante del nuovo partito dovrebbe essere a mio avviso
l’applicazione del famoso artico 49 della Costituzione anche alla
vita interna dei partiti. Ai molti che in questi anni hanno con
generosità aiutato Prodi e l’Ulivo. alle numerose associazioni che
si battono per il nuovo partito, a tutti quanti hanno creduto e
sperato nell’Ulivo e ora nel Partito democratico io direi:
prendiamo atto dei passi oggi possibili, ma teniamo viva una idea,
una speranza più impegnativa e giochiamola non contro il processo ma
oltre, oltre questo processo oggi possibile, quando scelte più
impegnative saranno necessarie. Teniamo viva l’idea di un vero
partito nuovo.
II. Ma quale partito
nuovo? Quale è il suo retroterra sociale e culturale? A quali
riserve si può attingere? Come fare per metterle in circolo?
Storicamente i partiti nascono per rappresentare interessi e valori
emergenti che non hanno spazio nella realtà sociale e politica e
vogliono conquistarlo: così il partito liberale, così il partito
socialista, così il partito popolare e poi i comunisti, la
Democrazia cristiana, e più tardi gli ambientalisti, i verdi.
Cosa di nuovo dovrebbe
rappresentare il partito democratico, a quali interessi, a quali
valori, a quali domande dovrebbe rispondere? Certo c’è un problema
di difesa, di conservazione, con i necessari aggiornamenti, delle
conquiste del periodo precedente alle quali hanno contribuito in
forme diverse socialisti e cattolici: intendo la difesa del Welfare
dalla sfida della globalizzazione. Ma questa è una funzione di
sostanziale, legittima conservazione delle conquiste conseguite, una
funzione che da sola non può innervare culturalmente un partito
nuovo.
Dobbiamo chiederci quali
sono le domande inevase che giustificano la nascita di un partito
nuovo: sono le domande, i problemi che il secolo scorso ha lasciati
irrisolti, legati tutti a un intreccio di beni e interessi materiali
e immateriali. Dobbiamo scavare nella eredità del vecchio secolo per
guardare al futuro.
Provo a indicare alcuni
di questi nodi. Non posso fare a meno di riprendere alcune idee già
enunciate a Chianciano nel convegno dei Popolari il 27 scorso. Il
secolo scorso è stato dominato dalla domanda assillante su come
rispondere alla sfida di una modernità che metteva in crisi tutte le
vecchie identità tradizionali. Gran parte del ‘900 è stato
attraversato dalla nostalgia per la “coesione sociale”, una
nostalgia che ha condizionato le diverse ideologie.
I totalitarismi di destra
hanno tentato di rispondere a loro modo, rifiutando la pluralità, la
complessità, attraverso la sacralizzazione della nazione, dello
stato, della razza. Anche il comunismo si è posto lo stesso
problema; la sua risposta è stata abissalmente diversa nella
prospettiva del futuro da costruire -un futuro di libertà e di
uguaglianza – ma è stata tuttavia travolta, dagli strumenti di
governo e di repressione adottati. Questo scarto totale fra obiettivi
ideali e realizzazione storica ha messo radicalmente in crisi tutta
l’ideologia ispiratrice del comunismo. In definitiva la democrazia
ha vinto: in Italia un ruolo importante per la sua vittoria lo hanno
certamente avuto la tradizione liberal democratica e liberal
socialista; i cattolici democratici, e i comunisti italiani, con la
loro diversità, pur sulla base di un aspro conflitto hanno saputo
dare alla democrazia un vasto consenso di popolo. Ma la domanda da
cui quei movimenti totalitari erano nati–quella esigenza di
coesione sociale e in definitiva di nuova identità collettiva- non è
stata compiutamente accolta: le identità cui la democrazia ha dato
luogo, sulla scia del modello americano, sono risultate legate
prevalentemente alle dinamiche della produzione e dei consumi.
In Italia la rinascita
democratica è stata segnata per giunta dalla fragilità di una
comune identità democratica in favore di identità di partito. In
fondo, si potrebbe dire che anche la contestazione del ’68 – pur
nell’enorme differenza di strumenti e di esiti – è stata
animata, in forme contraddittorie e talvolta impazzite, da quel
problema di identità. Si pensi ad alcuni temi del movimento:
l’infelicità prodotta dall’individualismo, il rifiuto del
materialismo, il desiderio di ritrovare un contatto con la natura,
l’angoscia per l’isolamento, per l’alienazione prodotta da una
società sempre più anonima.
Ma anche per il ’68
come per i totalitarismi “tutto era politica”; la politica
invadeva la vita quotidiana. Proprio i movimenti di contestazione
degli anni ’60 e ’70, e più di recente il movimento cosiddetto
“no-global”, hanno mostrato che se la democrazia è riuscita ad
integrare le masse popolari nello Stato, se ha prodotto maggiore
benessere, se ha distribuito in modo più equo la ricchezza, non ha
risposto fino in fondo alle domande, alle paure provocate dalla
«modernità».
La politica non ha dato e
non poteva dare queste risposte. Quando la politica manifesta il suo
limite, essa viene travolta da spinte opposte e distruttive: da
risposte antidemocratiche o da risposte antipolitiche, che diventano
a loro volta antidemocratiche.
Risposte
antidemocratiche, come nel caso dei movimenti rivoluzionari o dei
fondamentalismi di oggi.
Risposte antipolitiche,
come abbiamo potuto vedere proprio nel nostro paese, anche se i
segnali in questa direzione si moltiplicano in altre aree
geografiche. Ma le posizioni antipolitiche, che teorizzano un mondo
privo di conflitti (e dunque privo di politica), si trovano di fronte
all’insanabile contraddizione rappresentata dal fatto che si
appellano alla politica – come con la famosa «discesa in campo»
del 1994 – per produrre la fine della politica stessa.
Si promette cioè di
giungere a una situazione in cui una buona amministrazione sostituirà
una volta per tutte la politica, ma nello stesso tempo si produce
un’estremizzazione dello scontro frontale, la demonizzazione
dell’avversario, l’esasperazione dei toni per chiamare alla
mobilitazione contro i nemici della libertà individuale. In
altre parole, ci si propone di cancellare la dimensione politica con
l’uso estremo delle armi fornite dalla politica stessa.
III. Il tema della
identità si salda con quella che definirei la questione democratica.
In sostanza il secolo XX ha segnato il fallimento delle ideologie di
liberazione dell’uomo legate al mito dell’uomo nuovo costruito
dal potere politico o dalla Stato. Ma ha segnato anche il fallimento
del mito di una democrazia spontaneamente capace di assicurare le
risposte giuste alle sfide della modernità, di diffondersi, di
conquistare terre e popoli nuovi e di autoriprodursi. Già nel suo
libro del 1984 Il futuro della democrazia Bobbio osservava che una
delle promesse della democrazia era quella di alimentare
autonomamente e spontaneamente lo spirito democratico, ma che questa
promessa non era stata mantenuta: insomma la democrazia
spontaneamente non si alimenta; la democrazia non è autosufficiente.
Quella intuizione di
Bobbio è stata ripresa e approfondita in una ampia letteratura che è
impossibile qui richiamare. La democrazia è in crisi sotto l’effetto
della società dei due terzi; è spesso schiava degli interessi
costituti, degli interessi forti, più che interprete delle speranze
dei deboli. E’ in crisi la democrazia americana: si riprenderà
perché ha radici profonde, ma il suo disagio è evidente e
sintomatico.
La democrazia stenta a
rappresentare e a fare sintesi di fronte ad una realtà sempre più
complessa e contraddittoria; nel suo recentissimo libro Forme di
Stato e forme di governo Giuliano Amato stabilisce un parallelo fra
la sfida alla democrazia rappresentata all’inizio del secolo dai
totalitarismi e le nuove sfide del nostro tempo che nascono da una
esasperata complessità sociale.
La crisi della democrazia
è anche problema di classi dirigenti. Il passaggio di secolo ha reso
visibile la mancanza di grandi figure politiche. La figura di Papa
Wojtyla è stata di gran lunga quella dominante. Nessun politico nel
mondo ha dominato la scena del passaggio di millennio.
Il vecchio secolo ci ha
consegnato dunque un problema irrisolto di selezione delle classi
dirigenti e di leadership. Ci sono ottimi professionisti sulla scena,
ci sono ancora politici che credono in quello che fanno, ma non
possiamo negare che nel momento in cui la complessità dei problemi
richiederebbe il massimo di apertura a nuove competenze e a nuove
generazioni, abbiamo, almeno in Italia, il massimo di
autoreferenzialità del sistema politico.
La forma partito che
abbiamo ereditato dal secolo scorso non è più idonea a selezionare
una classe politica all’altezza delle nuove sfide ed è per questo
che dobbiamo tenere ben presente la domanda di partenza: quale è il
retroterra sociale e culturale del partito democratico? A quali
riserve si può attingere? come fare per metterle in circolo?
La questione democratica
comprende per noi italiani quella della riforma costituzionale. La
nostra Costituzione “contesa” alla fine del secolo scorso è
stata poi “aggredita”, per riprendere un titolo di Leopoldo Elia,
dalla riforma imposta dalla destra nella passata legislatura, ma ha
ritrovato il suo radicamento nel recente referendum popolare: il
referendum ha confermato e rafforzato quello che in altra sede mi è
sembrato di poter definire il triplice radicamento della
Costituzione: nella storia d’Italia e in una Resistenza
intesa sempre più come vicenda di popolo e non come una guerra
civile di minoranze; un radicamento nella grande tradizione del
costituzionalismo europeo; un radicamento nella coscienza religiosa
del Paese per avere, nel primo comma dell’articolo 7, dato una
definitiva risposta alla questione storica della presenza del Papato
in Italia.
Il rinnovato radicamento
non esclude anzi esige una riforma, sulla quale giustamente il
Presidente Napolitano ha richiamato ripetutamente l’attenzione, una
riforma calibrata sulle nuove esigenze, ma fedele alla tradizione
parlamentare e quindi non plebiscitaria, non presidenzialista, non
tale da tradurre la spinta alle autonomie in un rischio per la unità
nazionale. La giusta esigenza di cercare un ampio consenso intorno
alla riforma non può tradursi in cedimento di fronte a principi e
valori che il voto popolare del giugno 2006 ha solennemente
consacrato.
Connessa al tema della
riforma è la questione della identità e della unità nazionale che
esige un ripensamento della idea di cittadinanza.
Oggi non c’è un
soggetto sociale, classi o ceti ben determinati da integrare: la
realtà è frammentata. Da una parte, è necessario evitare che i
soggetti deboli (le nuove povertà) siano espulsi o messi ai margini
del sistema; dall’altra, è necessario produrre una nuova
integrazione per gli immigrati, che non hanno accesso al
benessere prodotto dal nostro modello di sviluppo; infine bisogna
ricreare le condizioni per una corretta mobilità sociale fondata
sull’impegno e sul merito. È necessario produrre un’integrazione
che dia senso dell’appartenenza comune, senso dei diritti e dei
doveri, delle regole, della partecipazione attiva e del confronto,
che sono tra le eredità più positive lasciateci dal mondo cattolico
e dal movimento dei lavoratori.
Centrale è dunque la
questione della cittadinanza, cioè della piena appartenenza alla
comunità
politica, che è anche una comunità di culture plurali
che si riconoscono reciprocamente, di storie
plurali ognuna delle
quali trova un posto e un ruolo rispetto alle altre, in cui non ci
sono ghetti o
isole di esclusione o di autoesclusione.
IV. Ma la questione
democratica con le sue varie implicazioni è solo un aspetto della
eredità del XX secolo. Quella crisi di identità prodotta dalla
modernità che ha dominato il secolo scorso assume oggi forme ancor
più incisive e allarmanti. Il secolo XX ci ha consegnato un modello
di società, un modello di sviluppo (mi riferisco al modello nostro
occidentale) in cui il futuro è rigidamente preordinato, in cui non
c’è futuro libero.
Sappiamo con certezza
scientifica che il nostro modello di sviluppo se non subirà
modifiche radicali, renderà in un tempo che con qualche
approssimazione è stato già calcolato, il pianeta invivibile. Il
problema enorme, che tuttavia un partito che guardi al futuro non può
non aver presente come orizzonte culturale, è quello della libertà
delle future generazioni oggi chiuse, e per questo senza speranza e
fiducia nel futuro, in un ferreo determinismo. Il secolo scorso che
si aprì nel clima ingenuo di una sconfinata fiducia nella
possibilità della scienza di operare per la liberazione dell’uomo,
ci consegna in eredità la drammatica coscienza di un progresso
tecnologico che sfugge alla possibilità di ogni controllo.
Abbiamo bisogno di
cercare e inventare nuovi modelli di sviluppo: gioverebbe forse a
questo fine prestare attenzione alle voci che ci vengono da lontane
civiltà asiatiche che propongono di sostituire al prodotto interno
lordo, come indice di progresso, l’indice della complessiva
felicità nazionale. E’ cresciuta la dimensione reale e la
coscienza dell’ insostenibile rapporto fra il Nord e il Sud del
pianeta, un rapporto che, così come sta oggi, non può durare. Il
rapporto attuale fra popolazione e risorse nelle diverse aree del
pianeta non è sostenibile: il fenomeno delle immigrazioni sarà
sempre più massiccio senza interventi che vadano alle radici del
problema. Su questi temi pesa l’eredità di una lunga storia dei
processi di colonizzazione e decolonizzazione che chiamano
direttamente in causa l’Europa.
Il fattore religioso è
riemerso sulla scena mondiale in primo piano, ma ha assunto anche,
specie nell’Islam, forme fondamentaliste che rappresentano una
sfida imprevedibile e inquietante alla democrazia e ai valori
liberali: proprio a questi valori il fondamentalismo islamico
attribuisce la responsabilità della crisi del tessuto etico
religioso della società occidentale verso la quale concentra perciò
la sua polemica e il suo attacco.
Guai ai corti circuiti e
alle semplificazioni culturali, ma il fatto che il secolo si sia
aperto con la tragedia dell’11 settembre non è certo casuale. La
risposta non può essere la rinuncia alla libertà religiosa e alla
laicità dello Stato ma dobbiamo forse ripensare la laicità in
termini che non escludano anzi valorizzino l’apporto delle
esperienze religiose alla formazione del tessuto etico della società.
Se non vogliamo che del fattore religioso, del cristianesimo, si
impadroniscano i teocon, con l’effetto di favorire uno scontro di
civiltà in cui di fatto i valori di libertà cui essi si appellano,
quando parlano di Occidente, sarebbero radicalmente
compromessi.
Il terrorismo ha avuto
una sua prima vittoria nel porre in crisi, con il Patriot Act i
principi stessi dell’habeas corpus, fondamento del liberalismo.
Dahrendorf segnalava pochi giorni fa come uno scandalo la “nuova
teoria” enunciata dal primo ministro inglese Blair, secondo cui la
sicurezza sarebbe la prima delle libertà, una sicurezza della quale
lo Stato definisce le condizioni anche limitando la libertà dei
cittadini.
Così al senso di
dipendenza e di frustrazione prodotto da un determinismo frutto del
sistema economico e dalla rincorsa tecnologica si aggiunge un secondo
motivo di insicurezza tutto interno alle responsabilità politiche e
religiose: la crisi nel rapporto tra i popoli e le religioni. La
libertà dal determinismo, la liberazione dalla paura e la riscoperta
della speranza come spazio vitale necessario alle nuove generazioni
non sono certo obiettivi facili, alla portata soltanto di un partito
politico, sono tuttavia elemento essenziale di una cultura che un
partito democratico deve coltivare. Tutto si inquadra in una visione
europeistica e internazionalistica che non deve essere un punto del
programma del nuovo partito ma una sua connotazione essenziale.
Ma l’incertezza che
assilla le nuove generazioni ha altri aspetti che sono parte
essenziale di una nuova domanda di politica. Si pensi alla
possibilità e alla stabilità del lavoro, alle garanzie per la
vecchiaia e per la malattia, insomma a quello che il welfare aveva
conquistato e la globalizzazione ha messo in discussione. Qui il
rischio è quello di una difesa quantitativa che si risolva in un
progressivo arretramento senza un salto di qualità.
Quello che l’individuo
della società preindustriale trovava nella grande famiglia
patriarcale di un tempo e che l’individuo isolato e la famiglia
nucleare della società industriale ha cercato e trovato, almeno in
parte, nello Stato sociale, deve essere ricuperato sul terreno di un
tessuto sociale nuovo che alla solitudine dell’uomo moderno
risponda con un tessuto libero di amicizie. L’amicizia contro la
solitudine, l’amicizia come l’etimologia suggerisce che nasce
dall’amore e non l’amicizia politica anticamera di corruzione.
La riforma del Welfare in
altre parole non è questione di quantità o di tagli, ma di
riconversione qualitativa nel senso di un coinvolgimento di tutto il
tessuto sociale su valori di convivenza. Solidarietà, amicizia
appunto. Non si tratta solo di vecchiaia o di malattia: si tratta
anche di socializzazione di giovani e giovanissimi. Si pensi ai
bambini e ai ragazzi la cui socializzazione è affidata oggi alla
vita di banda nelle strade, a rumorose sale da gioco, alla pratica
non dello sport ma del fanatismo sportivo, alla televisione. Perché
non pensare ad una funzione più ampia della scuola e ad una
valorizzazione, con opportuni incentivi, di tutte le iniziative
esistenti nel quadro di una applicazione larga, non gelosa, del
principio di sussidiarietà.
Ecco: crisi di identità
e questione democratica, determinismo e libertà, paura e speranza di
futuro, solitudine e amicizia, sono queste alcune delle dicotomie
sulle quali un partito nuovo dovrebbe costruire la sua identità e il
suo progetto. I miei sono solo esempi: il discorso avrebbe bisogno di
ben altri sviluppi e ben altre competenze.
Ma questi accenni sono
sufficienti per comprendere che un partito che si muova in un simile
orizzonte culturale esige una struttura del tutto nuova, tutta da
inventare, una nuova forma partito. Non si tratta di mettere insieme
pezzi di classi dirigente portatori di tradizioni culturali di
partito, spesso ossificate, ma pezzi di popolo, milioni di cittadini
personalmente coinvolti ciascuno con la sua storia, la sua cultura,
la sua sensibilità.
L’apporto delle diverse
culture e tradizioni democratiche è essenziale purché non si scambi
questa feconda integrazione solo con un incontro e una intesa dei
gruppi dirigenti dei partiti. Le sfide per la democrazia oggi
riguardano la possibilità di restituire fiducia nella capacità
costruttiva della politica, nell’utopia democratica, di restituire
a quest’ultima nuovo vigore.
V. Ripeto: i gruppi
dirigenti dei partiti e i partiti si incontrino e diano vita per
quanto possibile a un nuovo soggetto unitario ma avvertano il rischio
e la tremenda responsabilità delle parole: il rischio che le
speranze cresciute in questi anni, che negli ultimi mesi i partiti
stessi hanno acceso e diffuso e che hanno dato vita ad un
significativo protagonismo femminile, ad una mobilitazione di popolo
che ha coinvolto milioni di donne, di uomini e di giovani diventino
nuove delusioni. Non si può ripetere all’infinito che il paese è
maturo per un partito democratico, che c’è una diffusa domanda di
base, senza compiere poi atti conseguenti, seri ed efficaci.
I partiti facciano i
passi oggi possibili, ma lascino aperta una grande finestra verso il
futuro. E teniamo noi tutti, cittadini della Repubblica. viva dentro
e fuori i partiti una prospettiva più ampia, un disegno più
ambizioso, una tensione ideale che superi le singole appartenenze,
che non guardi più alle componenti come realtà separate e non
comunicanti, ma piuttosto esalti i valori
comuni. Valori comuni da
cercare proprio nella nostra Costituzione. Si discusse alla
Costituente se la nuova Costituzione dovesse avere un presupposto
ideologico e un punto di incontro fu trovato nell’idea della
dignità della persona umana. Era una idea di matrice cristiana che
laicamente declinata ispirò largamente il testo costituzionale.
Mi chiedo se quella
intuizione che ha fondato non solo tutte le tradizionali libertà ma
il principio di uguaglianza e il rifiuto della guerra non possa
diventare principio animatore della vita associata, non possa
ispirare una laicità e una libertà di coscienza e di religione che
non neghino, anzi valorizzano, l’apporto delle esperienze religiose
alla vita sociale, non possa animare non solo le iniziative statali
di welfare, ma uno spirito di solidarietà (di amicizia) in tutto il
tessuto sociale, non possa sollecitare la ricerca di nuovi modelli di
sviluppo. Il partito democratico può trovare in questo patrimonio di
valori la sua stella polare.