Pierluigi Mele intervista Giorgio
Tonini
24 febbraio 2017
Senatore Tonini, come sta vivendo,
personalmente, questa scissione?
Diciamo che abbiamo conosciuto momenti
migliori. Un gruppo di dirigenti storici della sinistra italiana, pur
di abbattere il segretario in carica, peraltro alla prova di un
congresso tutt’altro che scontato, non esita a dare un colpo al
partito con l’obiettivo dichiarato di fargli perdere il primato
elettorale nel paese. Un obiettivo folle e irresponsabile, non solo
nei riguardi del Pd, ma anche nei confronti del paese, che non mi
pare disponga di un’alternativa di governo pronta. E tutto questo
in uno scenario europeo e internazionale da brivido, alla vigilia di
elezioni francesi che potrebbero segnare la fine dell’Unione
europea, o viceversa aprire una fase di nuovo sviluppo della
costruzione politica dell’Europa, dalla quale un’Italia resa
nuovamente instabile dall’esito infausto del referendum
costituzionale, rischia di essere esclusa.
Nel suo territorio, il Trentino, che
tipo di reazioni ha registrato?
Sconcertate. Praticamente nessuno ha
seguito i fuoriusciti. Semmai c’è chi, contro la scissione
politica, invoca la secessione territoriale. È un altro, piccolo
sintomo dei rischi di disgregazione del paese.
A rivedere il film di questi ultimi due
mesi, in cui il suo partito ha dato il peggio di sé, si fa ancora
fatica a comprendere le motivazioni profonde di una scissione che
assomiglia sempre più ad uno psicodramma collettivo. Insomma possono
le differenze programmatiche, e ve ne sono diverse, giustificare una
scissione? Questo è quello che si domanda l’opinione pubblica….
Differenze programmatiche ce ne sono,
come è evidente, ma anche fisiologico, in un grande partito popolare
e plurale. Ma non si fa una scissione, tanto meno in un momento
drammatico come quello che stiamo vivendo, per qualche divergenza
programmatica. Semmai ci si presenta al congresso con una piattaforma
alternativa a quella del segretario uscente e si prova a metterlo in
minoranza.
Parliamo di Matteo Renzi. Dica la
verità Senatore Tonini, il comportamento dell’ex-segretario non è
stato proprio di uno che fosse dispiaciuto della scissione. Anzi! Il
comportamento ha continuato ad essere improntato sulla supponenza,
menefreghismo delle ragioni degli altri, ingordigia di rivincita….
A parte quella piccola autocritica fatta in quella intervista ad Ezio
Mauro su Repubblica, non c’è stata una vera autocritica sul suo
operato. Eppure ragioni per farla ve ne sono. Insomma come può una
persona così essere percepita come un segretario di tutti?
Per la verità, Renzi ha fatto molto di
più che sottoporsi al rito un po’ comunista dell’autocritica: si
è dimesso da presidente del Consiglio e poi da segretario del
partito. Detto questo, è indubbio che la dote più spiccata di Renzi
non sia l’inclinazione alla mediazione e al compromesso. Ma neppure
questa è una ragione sufficiente per andarsene da un partito. Del
resto, il principale regista della scissione, Massimo D’Alema, può
dare poche lezioni al riguardo, diciamo… Siamo seri. La ragione
della decisione di uscire sta in un radicale dissenso sulla natura
del Pd. Per D’Alema e Bersani doveva essere l’ennesima
metamorfosi del Pci, a cominciare dalla forma-partito, basata sulla
mediazione al centro piuttosto che sulla competizione tra proposte
alternative, e su un gruppo dirigente sostanzialmente inamovibile,
che si rinnova lentamente e quasi solo per cooptazione. Renzi, pur
con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito storico di prendere sul
serio il modello nuovo di partito pensato e voluto da Veltroni e di
metterlo in atto, di farlo vivere non solo negli statuti, ma nella
prassi quotidiana. Un modello aperto e competitivo, fondato sui due
principi della vocazione maggioritaria e della contendibilità di
tutte le cariche. Questo modello si è rivelato insopportabile per
D’Alema e soci, al punto di tentare, con la scissione, di farlo
saltare. Per fortuna non sembra che le dimensioni della rottura siano
letali per il Pd. Anche se certamente sarebbe stato meglio poterne
fare a meno.
E poi questa voglia smisurata, da parte
di Renzi, di andare presto alle elezioni: non la vede come un
suicidio per il PD? E la decisione dalla Direzione di concludere
l’iter congressuale il 30 aprile non suona come una sconfitta del
segretario dimissionario e la vittoria del partito della conclusione
della legislatura a scadenza naturale?
Trovo la disputa sulla data delle
elezioni, sei mesi prima o sei mesi dopo, malinconicamente comica.
Renzi avrebbe avuto torto a pretendere di andare alle elezioni
saltando il passaggio della sua rilegittimazione democratica
attraverso il congresso. Ma ora il congresso c’è e si terrà prima
del voto. A questo punto è la fuoriuscita dei dalemiani (e non le
presunte smanie di rivincita di Renzi), che potrebbe portarci alle
elezioni subito. A prescindere dai tempi del congresso del Pd. Da
presidente della commissione Bilancio del Senato, mi sentirei di
sconsigliare al governo di entrare nella sessione di bilancio con la
sola certezza che i fuoriusciti dovranno utilizzarla per distinguersi
tutti i giorni dal Pd, pena la loro irrilevanza politica e la loro
scomparsa dai media. Ho già visto questo film: tra il 2006 e il
2008, protagonisti i gruppi e gruppetti che assediavano il Pd e il
governo Prodi da sinistra e dal centro. Il finale obbligato furono le
elezioni anticipate.
Parliamo dell’ex minoranza PD. Anche
qui errori ve ne sono stati, dove, secondo lei, hanno sbagliato?
In particolare, direi, nel
comportamento parlamentare. Non si contano infatti le occasioni nelle
quali la minoranza non si è limitata a criticare le scelte della
maggioranza del partito e del governo, come è suo diritto
indiscutibile in un partito democratico. Ma si è dissociata nel
voto, talvolta perfino in quello di fiducia, nelle aule parlamentari.
Questo comportamento, tanto più se ripetuto, è strutturalmente
incompatibile con l’appartenenza ad un partito. È già, di per sé,
un comportamento scissionistico. Questo la minoranza lo sa e sa anche
che la politica ha le sue leggi, diverse da quelle della fisica o
della chimica, ma non meno stringenti. Una di queste leggi è la
complementarietà, in un partito complesso e composito, del
pluralismo della rappresentanza e della disciplina nel voto. Se si
viola sistematicamente la disciplina, si mette a repentaglio la
sostenibilità del pluralismo e si pongono quindi le basi della
scissione. Questa regola non conosce eccezioni, nella storia dei
partiti politici, e averla sottovalutata, da parte della minoranza, è
stato un grave errore di superficialità.
Loro dicono: noi, con la nostra
scissione, salviamo il centrosinistra. E’ così?
Il magnifico paradosso delle frequenti
scissioni a sinistra è che vengono consumate sempre in nome
dell’unità: un mito tanto celebrato sul piano retorico, quanto
smentito su quello pratico. Ma la vera o presunta, diciamo tentata,
scissione del Pd, in nome dell’Ulivo è una novità fantastica.
L’Ulivo è sempre stato una coalizione che tendeva a farsi partito,
frenata dall’istinto di conservazione dei partiti che avevano dato
vita alla coalizione. In questo senso, pur con tutti i suoi limiti,
il Pd è l’Ulivo realizzato: scindere il Pd in nome dell’Ulivo è
quindi un nonsenso. Sarebbe come divorziare per tornare fidanzati.
Si potrà ricomporre la scissione? Su
che basi potrà rinascere il centrosinistra?
Per me la domanda non ha senso. Il Pd è
il centrosinistra che si fa partito. Un partito a vocazione
maggioritaria, cioè un partito aperto e inclusivo e che non si
limita a presidiare una nicchia più o meno grande di consenso, ma
cerca di conquistare il “mainstream” del paese. Anche per questo
la coincidenza nella stessa persona della funzione di segretario del
partito con quella di candidato premier è un principio costitutivo
del Pd. Volerlo rimuovere, come ora dice di voler fare Orlando, è
proporsi di snaturare il Pd, per tornare all’idea di partito che
era propria della Prima Repubblica. Questo non significa che il Pd
non possa o non debba fare alleanze con formazioni minori alla sua
sinistra o alla sua destra. Ma queste scelte tattiche, spesso imposte
dal realismo dei numeri, non hanno nulla a che vedere con la natura
del Pd, se non in quanto esprimono la sua vocazione a conquistare
nuovi consensi al riformismo.
Ora inizierà il percorso congressuale.
Ho la sensazione che non sarà facile coinvolgere il “popolo delle
primarie”… Lei che ne pensa?
La partenza è certamente in salita:
dopo una sconfitta strategica e una (per quanto ridotta) scissione,
con alle viste un confronto elettorale che con assoluta probabilità
non produrrà alcun vincitore, non è facile suscitare entusiasmo.
Molto dipenderà dalla capacità di Renzi di rilanciare un progetto
riformista per il paese: un progetto che prenda le mosse dalla
batosta referendaria, assumendo fino in fondo il carico di
inquietudine, di insoddisfazione, di sofferenza e di rabbia che quel
voto ci consegna, ma non per cavalcarlo retoricamente, come fanno le
molte famiglie populiste, ma per corrispondere ad esso con un di più
di intelligenza, di immaginazione, di progettualità e di coraggio
riformisti. La scelta di Renzi di ripartire dal Lingotto e di
affidare il coordinamento del programma a un riformista a tutto tondo
come Tommaso Nannicini è la partenza migliore di questa difficile
impresa.
Infine una parola sul governo
Gentiloni. L’Europa vuole la manovra correttiva presto, Renzi non
ne vuol sapere di privatizzazioni, tasse sulla benzina, ecc. Non vedo
messo bene il governo…
Nemmeno io. Ma non tanto per i presunti
dissensi di Renzi, quanto per gli effetti della scissione. Ho sempre
pensato e detto più volte che l’unico modo per accelerare la fine
del governo Gentiloni è dunque quella della legislatura era la
scissione, anche piccola, del Pd. Si chiama eterogenesi dei fini: un
altro classico nella storia della sinistra.
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