martedì 15 novembre 2016

informazione disparitaria

Franco Valenti
15 novembre 2015
Giovane muratore romeno accusato di stupro di una ultraottantenne nel bresciano. Subito si sono alzati i latrati dei segugi Lombardi . Dei media cialtroni hanno dato fiato alle trombe creando un nuovo mostro senza prima attendere la conferma di un simile reato. Ora la medicina legale del Civile di Brescia certifica che il dna trovato sugli indumenti della signora non è quello del cittadino romeno. I segugi latranti stanno rientrando , coda tra le gambe, nelle loro tane in attesa di una nuova occasione. I media in piccolo e sottovoce riferiscono della immediata scarcerazione del manovale romeno. Lo fanno sommessamente in modo che rimanga nella mente del popolino lo sdegno per il supposto mostro. Ora suggerirei al legale di questo cittadino di chiedere lauti indennizzi sia all'accusa che a chi sopra la notizia ci ha marciato alla grande.

I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inciucio


Fabrizio Rondolino
L'unità 15 novembre 2016
Il populismo si sconfigge con la buona politica, cioè con l’alternanza di governo.
Alla variegata e variopinta armata che sostiene il No al referendum di dicembre si rimprovera, fra le altre cose, di non proporre alcuna alternativa praticabile – o, il che è lo stesso, di proporne troppe e tutte diverse tra loro – e, soprattutto, di avere in comune un unico obiettivo, che peraltro non è oggetto di voto: fare la pelle a Renzi.
In realtà, c’è un altro elemento fondamentale che unifica il fronte del No, e che è destinato a pesare nel futuro politico del Paese persino in caso di vittoria del Sì: il ritorno al proporzionale.
Proporzionale “alla spagnola” è la proposta di riforma elettorale depositata dal Movimento 5 stelle; proporzionali sono le proposte che vengono dalla minoranza del Pd e dalla sinistra radicale; per il proporzionale si è schierato – a sopresa ma non troppo – addirittura Silvio Berlusconi, il cui merito storico, da tutti riconosciuto, è l’“invenzione” del bipolarismo maggioritario.
Il nesso riforma-Italicum può dunque considerarsi valido in entrambe le direzioni, ma in un significato più profondo, più strategico: l’approvazione della riforma istituzionale consolida un sistema politico fondato sull’alternanza, cioè sulla possibilità di avere governi e maggioranze politiche omogenee scelte direttamente dagli elettori (il che naturalmente non significa che l’Italicum non possa essere cambiato).
Al contrario, la conservazione dell’assetto esistente porta con sé la restaurazione di un sistema politico in cui le scelte si spostano dagli elettori alle segreterie dei partiti. O meglio: agli elettori è riservata la rappresentanza, maggiore con un sistema proporzionale, ma soltanto ai partiti spetta la governabilità.
Il vero argomento a favore del proporzionale, come ha candidamente e sinceramente spiegato Eugenio Scalfari domenica scorsa, è impedire che il M5s vinca le prossime elezioni: poiché in Italia, come nel resto del mondo, ci sono i barbari alle porte, gli altri che barbari non sono – tutti gli altri – devono fare fronte comune.
E’ accaduto in Germania e, seppur molto più faticosamente, in Spagna, e potrebbe accadere l’anno prossimo in Francia: perché non anche in Italia?
Ma se davvero così stanno le cose, a me pare che ci sia un motivo in più per votare Sì.
La rappresentanza proporzionale e il governo di coalizione non sono in sé un male, ci mancherebbe: ma rischiano di diventarlo quando vengono piegati alla necessità di salvarsi dai barbari. L’antipolitica – qualunque cosa significhi questo termine – non si sconfigge alzando un muro fortificato a protezione dell’establishment di sinistra e di destra: si sconfigge con la buona politica. E l’ossigeno della buona politica è l’alternanza, cioè la possibilità di avere alla guide del Paese un governo scelto dagli elettori, politicamente omogeneo, responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Altro che “deriva autoritaria”: l’alternativa è fra una democrazia che funziona e un sistema politico bloccato; fra il potere degli elettori e quello dei partiti o dei loro simulacri; fra l’apertura e la chiusura: in una parola, fra la responsabilità e l’inciucio.

lunedì 14 novembre 2016



se si vuole superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione per regolamentare le materie di competenza dello Stato e delle regioni si vota Si. Altrimenti rimane tutto come ora. Brescia per il sì 

Sveglia, prima che sia troppo tardi


Walter Veltroni
L'Unità 13 novembre 2016
Insisto da tempo sulla dimensione (per me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente
Il titolo dell’ultimo editoriale, quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso.
Non sono un indovino, non faccio il bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi, lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato tempo fa.
Proviamo a mettere in ordine le cose che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto. La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute. La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali e collettivi fossero inarrestabili.
Il mondo, che aveva visto cadere i regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra.
La sinistra cresce in tempi di speranza economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”, in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò il secondo dopoguerra del novecento.
Nel 2008 la crisi devastante dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro, patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato l’incubo di perderlo. Dieci anni così. Tutto è diventato precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi.
Nelle frettolose analisi delle elezioni americane è passata solo una parte della verità: la conquista di consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero, come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa. Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha perso brutalmente nelle fasce di reddito medio.
È la grande crisi di quella enorme zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare. L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate, rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione. Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva.
E oggi è la paura il cemento favorito per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexit e dalla sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita ed equità, rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia, tutto l’Occidente.
Non ci stancheremo di ripetere che la democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi. Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto: «Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei un voto».
E ha ragione. Non so quanto durerà, perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende “immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure, la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie.
Il mondo sta virando e non sappiamo dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump, roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo presidente americano.
L’ufficio della Casa Bianca è il più difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da dire, specie a sinistra, di stare molto attenti.
Di fronte a questa fase inedita la sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione.
Ma il paradosso contrario sarebbe anche grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi.

domenica 13 novembre 2016

Senatore Corsini...ma quale libertà di coscienza?


Riccardo Imberti
Mi chiedo come ci si possa appellare alla libertà di coscienza di fronte ad un voto che, il 4 dicembre, non riguarderà i principi fondamentali della Costituzione, ma semplicemente il rapporto tra Stato e Regioni, o le modalità più efficienti ed efficaci per fare le leggi. Il sen. Paolo Corsini lo sa bene, tant’è vero che “tende a precisare” a Beppe Pezzotti, nella lettera del 4 novembre a questo Giornale, che lui “propenderebbe” soltanto per il No alla riforma costituzionale, ma non vorrebbe prefigurare schieramenti politici con i compagni di viaggio No-global e No-euro. Eppure è recente il manifesto che presenta il sen. Corsini tra due importante relatori della Lega Nord, impegnati in un dibattito a favore del No in quel di Chiavenna. Immagine che farebbe accigliare il sen. Mino Martinazzoli che nel 1994 aveva preso proprio dalle mani di Corsini il testimone della candidatura a sindaco di Brescia per impedire il governo della città alla rampante Lega Nord per l’indipendenza della padania. Tirato per i capelli da Massimo D’alema, il senatore Corsini non si ritiene vincolato dal voto ricevuto dagli elettori bresciani, né dalla disciplina di partito. Non pensa che il No alla riforma costituzionale mantiene l’attuale assetto e quindi il ritorno al sistema elettorale proporzionale e quindi ad una prospettiva di governi di “larghe intese”, con drammatici dubbi sulla conseguente politica economica, sociale, europea, mediterranea e atlantica. La disciplina di partito non è più una virtù. Questa è la riforma della Costituzione che il Pd ha discusso, condiviso, modificato, plasmato e poi votato in Parlamento. Anche da parte del sen. Corsini, credo. Questo referendum, tra l’altro, deve essere collocato in un contesto complessivo di riforme volute dal governo sui temi del lavoro, della scuola, della pubblica amministrazione. Il partito democratico è giovane, ma è un partito, composto da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, impegnati a traghettare il centrosinistra italiano verso la modernità. Non avrebbe bisogno di essere diviso e lacerato.

sabato 12 novembre 2016

Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi'

Espresso 11 novembre 2016
Giuliano Battiston
Per Zygmunt Bauman, decano dei sociologi europei, tra i più autorevoli pensatori contemporanei, la vittoria elettorale di Donald Trump è un sintomo allarmante: riflette il divorzio ormai avvenuto tra potere e politica, da cui deriva un vuoto, un divario colmato da chi promette soluzioni facili e immediate a problemi complessi e sistemici, attingendo al ricco serbatoio della retorica populista.
Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari». 
Negli Stati Uniti e in Europa la reazione prevalente alla vittoria di Trump, perlomeno negli ambienti progressisti, è stata di stupore e paura. C'è chi ha parlato di «un grande pericolo», chi di «una sfida al modello democratico occidentale», chi di «una tragedia per la repubblica americana e per la Costituzione». Questi toni a tratti apocalittici le sembrano appropriati?
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.
Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse
E poi muri da erigere, dittatori da esaltare, immigrati da deportare, bufale da cavalcare. È giunto il momento di analizzare la credibilità di questo candidato attraverso le sue stesse parole. Perché sì, Donald Trump può diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America sostituita dalla volontà indomita e inoppugnabile di “un uomo forte” (o di una donna forte), capace con la sua determinazione e con le sue doti personali di imporre in modo immediato, senza tentennamenti e temporeggiamenti, soluzioni veloci, scorciatoie, decisioni vere. Trump ha costruito abilmente la propria immagine pubblica come una persona ricca di quelle qualità che l'elettorato sognava. Quelli appena citati non sono gli unici fattori che hanno contribuito al trionfo di Trump, ma sono senz'altro cruciali. Al contrario, la trentennale appartenenza di Hillary Clinton all'establishment e la sua agenda politica frammentata e compromissoria hanno giocato contro la popolarità della sua candidatura.
Concorda con quanti si spingono a leggere la vittoria di Trump come una manifestazione della crisi del modello democratico occidentale?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i  social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.
Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?
Trionfa il mito del cowboy bianco, l'America non urbana, i tea party. Escono sconfitte le donne, le minoranze, le lotte per i diritti. Resoconto di una battaglia elettorale giunta al termine
Il trucco è stato proprio quello di connettere i due aspetti, di renderli inseparabilmente legati e di rafforzarli vicendevolmente. È ciò che è riuscito a fare Trump, un supremo imbroglione (anche se non è il solo nel panorama politico mondiale). Sono incline ad andare perfino oltre nell'analisi dell'uso che Trump ha fatto del matrimonio tra politica identitaria e ansia economica, perché credo che sia riuscito a condensare tutti gli aspetti e i settori dell'incertezza esistenziale che perseguita ciò che è rimasto della classe lavoratrice e della classe media, indottrinando coloro che soffrono con l'idea che l'espulsione degli stranieri, di quanti sono etnicamente diversi, degli stranieri appena arrivati rappresenti la tanto agognata “soluzione veloce” che li potrebbe ripagare in un colpo solo di tutta la loro ansia e incertezza.
Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica. 
In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.  
Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?
«Donald ha fatto un VDay pazzesco» dice Grillo, incurante delle accuse di chi gli dice di guardare a destra e saltare sul carro del vincitore. Il senatore M5S Nicola Morra spiega perché l'imprenditore in effetti fa simpatia e cos'ha in comune coi pentastellati
In Europa, i vari Grillo sono molto numerosi. Per coloro per i quali la civiltà ha fallito, i barbari sono i salvatori. In alcuni casi è ciò che loro si sforzano in tutti i modi di far credere per convincere i creduloni che sia proprio così. In altri casi è ciò che desiderano ardentemente credere coloro che sono stati  abbandonati e dimenticati nella distribuzione dei grandi doni della civiltà. Alcuni membri dell'establishment potrebbero essere impazienti di approfittare dell'occasione, dal momento che coloro che credono nella vita postuma a volte sono disposti a suicidarsi.