martedì 14 marzo 2017

«cattolici democratici», un’etichetta carica di storia.

Cesare Trebeschi 
Corriere della sera 14 marzo 2017
L’ex sindaco di Brescia Cesare Trebeschi, spedisce, via Corriere, questa lettera aperta a Gregorio Gitti, parlamentare del Pd, coordinatore di un gruppo a sostegno di Andrea Orlando che si chiama «Cattolici democratici».
Caro Gregorio, un secolo fa, un grande Papa, Benedetto XV, non curandosi dello sgomento di migliaia di santi cappellani militari del sacro romano Impero e dell’allora regno d’Italia, e, diciamo pure, di tanti ottimi cristiani spiazzati nel loro impegno patriottico, ma preoccupandosi del suo compito primario salvaguardia della fede cristiana fondata sull’amore e sulla dignità della persona umana definiva la guerra un’inutile strage. Credo che nei nostri, allora diecimila paesi, e nelle nostre forse centomila parrocchie, milioni di mamme, di spose, di fidanzate, di bambini, lungi dal deplorare l’invasione della Chiesa nella politica, forse ne abbiano sommessamente pianto la tardività. Proprio per scongiurare il pericolo dei ritardi, un paio d’anni dopo un animoso prete siciliano, fratello di un vescovo, ma anche organizzatore dell’Associazione, laica, dei Comuni italiani, chiese udienza a Benedetto XV per benedire una grande battaglia laica, santa ma pur sempre battaglia, gravida di perdite non tutte incruente. Don Luigi Sturzo non andò solo a quelle udienze, ma con un piccolo gruppo di uomini maturi ed esperti, uno dei quali pensò bene di farsi accompagnare da un giovanissimo figlio che mezzo secolo dopo sarebbe salito alla responsabilità di Benedetto, il quale avrebbe corretto, e non soltanto qualche virgola di quell’appello ai liberi e forti che segna la nascita del partito popolare. Non so chi da quell’appello e in quel partito avesse cancellato l’aggettivazione cristiana che molti, alla scuola di don Romolo Murri avrebbero voluto: che se poi quell’aggettivo fosse inteso a significare non solo e non tanto l’eguale dignità di tutti, indipendentemente dalla razza, dal censo, dal familismo e soprattutto dalla ricchezza, ma addirittura comportare una sorta di ufficiale garanzia e protezione da parte della Chiesa, proprio don Sturzo – e forse proprio il giovane correttore del suo nobile appello - da buoni manzoniani avrebbero dovuto ricordare, ed ahimè a ragion veduta, e veduta proprio da loro personalmente, l’amaro lamento dei promessi sposi: quale protezione! Il preambolo è troppo lungo, ed invade grossolanamente un campo di studi che non mi è proprio: ma francamente, caro Gregorio, ti leggo direi quasi con tristezza inventore, non so se di un movimento, ma quanto meno di una sigla di sedicenti «cattolici democratici». Certo, tu non avresti potuto intitolare il tuo partito, gruppo, movimento che sia, partito di nutellademocratici, perché i proprietari della nutella non avrebbero mancato di rivendicarne l’esclusiva, facendoti condannare dal tribunale di Alessandria a spogliarti di una appropriazione indebita: non mi dirai, spero, che nessuno può vantare l’esclusiva della cattolicità, e non a torto, se è proprio papa Francesco quasi a svestirsene per riportare i cristiani a unità, ma non conviene accontentarsi di seguirne l’esempio senza inventarne l’etichetta?

Cara Pini, su certi argomenti non si possono fare queste figuracce


Mario Lavia
L'Unità 14 marzo 2017
La politica di oggi non può non capire che ci sono anche giuste esigenze d’immagine
E’ verissimo, come sostiene Giuditta Pini, che solitamente alla discussione generale su una legge (dunque quando non sono previste votazioni) le aule parlamentari sono deserte. Infatti tempo fa ci fu chi propose di abolirle proprio, queste discussioni generali, ed entrare subito nel merito degli articoli: ma non se ne fece niente e la discussione generale è rimasta.
Ora, nessuno pretende la presenza dei 630 deputati (o dei 300 del Pd, visto che la relatrice della legge, Donata Lenzi, è del Pd e forse avrebbe meritato qualche applauso in più) ma insomma su un tema delicatissimo come il testamento biologico – atteso da anni! – qualche sforzo si poteva e si doveva fare. E l’argomento che era lunedì proprio non regge – anzi, è controproducente – perché se c’è una cosa che fa imbestialire gli italiani è la scusa dell’impegno sul territorio che i parlamentari profonderebbero il lunedì.
Si dice che il Parlamento non può farsi carico delle esigenze delle telecamere. Che non è una ribalta televisiva. Ma  come si fa a non capire, al giorno d’oggi, che una politica che non tiene conto delle necessità dell’immagine è una politica autoreferenziale e schizzinosa? Come si fa a non capire che le scene tv dell’aula vuota alimentano demagogia e qualunquismo? Un clamoroso esempio di questa autoreferenzialità l’hanno dato ieri i deputati di tutti i partiti, populisti e non populisti, destra e sinistra: un pessimo esempio di unità nazionale.

Che congresso sia - leale

Come promesso con il post precedente - che mi premeva troppo, era un'urgenza insopprimibile, un ricordo emerso da comunicare a tutti voi - un breve report sul Lingotto.
Il Matteo che ha aperto venerdì, più che per il richiamo alla collettività ed alla squadra, leit-motiv della 3 giorni, mi è piaciuto per l'espressione "un uomo si valuta da come indossa le sue ferite". La mia recente esperienza personale - forse - me la fa apprezzare di più. Ed ha ragione.

Tanta squadra, tanta collettività, tanta sinistra. Non abbiamo paura di questo, ricordando il mio motto recentemente ricordato in Direzione Provinciale: "Sinistra è chi sinistra fa" #forrestgump.

Comunque vada sarà un successo, nemici non ne abbiamo (neanche fuori dal partito) e nel partito nemmeno avversari. Buon congresso a tutti, a Michele Emiliano, ad Andrea Orlando, a Matteo Renzi, ed ai loro sostenitori. Il 7 maggio, in ogni caso, avremo un segretario per 4 anni. Sarà il segretario di tutti.

lunedì 13 marzo 2017

Quella ragazza del '25 e le primarie

Sono tornato ieri dalla tre giorni del Lingotto in cui Renzi e noi che lo sosteniamo ci siamo prefissi il compito di delineare il PD e l'Italia del '27, di qui a 10 anni cioè. Della tre giorni e delle primarie magari parlerò in un altro post. Voglio condividere con tutti voi un ricordo personale, adesso.

E' legato alla consultazione per scrivere le liste alla Camera ed al Senato di fine 2012 (si tennero tra Natale e Capodanno, mi pare il 30 dicembre): le cosiddette Primarie per i Parlamentari.
Faceva freddo, e con l'amico Riccardo Imberti, anima di questo blog, passammo la giornata all'Auditorium non riscaldato, me lo ricordo come se fosse oggi, con gli amici del circolo che ci portavano bevande calde e generi di conforto.
C'era la neve fuori e il ghiaccio per terra, non spazzato.

Ebbene: di quella consultazione ho un ricordo indelebile. Due donne minute che, di prima mattina, poco dopo le 8, furono le prime ad arrivare, con passo malcerto per il ghiaccio per terra, a votare per decidere i nostri parlamentari da mettere in lista. Una di quelle donne era nata nel 1927 (100 anni prima del '27 che ci proponiamo di immaginare), l'altra del 1925.

È il più bel ricordo che ho della mia esperienza nel PD ed a loro rendo grazie, e lo direi loro personalmente se ci fossero ancora.


giovedì 9 marzo 2017

Renzismo 2.0: dalla fase “garibaldina” alla costruzione del partito-comunità


Andrea Romano
L'Unità 9 marzo 2017
E’ chiara l’intenzione di aprire una nuova stagione nella proposta politica e culturale del renzismo
L’appuntamento del Lingotto permette di collocare il “renzismo” in prospettiva storica, guardando da una parte alle tappe più recenti che hanno condotto il PD dove si trova oggi e dall’altra alle principali innovazioni che si annunciano nel profilo politico della proposta di Matteo Renzi. Per quanto non sia una pratica molto diffusa, persino all’interno della comunità PD, giova sempre ricordare cos’è accaduto nella sinistra italiana negli ultimi cinque anni. E dunque il voto legislativo del 2013, con la “non vittoria” di Pierluigi Bersani, i tre milioni e mezzo di voti persi dal 2008, l’incombere di uno stallo drammatico nella vita politica e istituzionale del paese dinanzi sia all’assenza di una chiara maggioranza parlamentare sia all’emersione della forza rabbiosa e distruttiva dei Cinque Stelle. Un incrocio che produsse in tempi rapidi la caduta della segreteria Bersani e l’avvio di una fase di governo di carattere insieme trasversale ed emergenziale, mentre un PD tramortito guardava al proprio interno e intorno a sé per capire quale (nuova) strada percorrere.
La leadership di Matteo Renzi si afferma in quel contesto, rispondendo ad un bisogno radicale che era insieme di discontinuità e direzione avvertito a tutti i livelli del partito. E quella leadership, per come si era costruita negli anni precedenti, aveva in quel momento l’aspetto insieme “garibaldino” e “pratico” del giovane sindaco di una grande città che si era candidato a ribaltare il PD e la sua percezione pubblica. Da qui la centralità che nell’azione di governo fu data immediatamente alle “cose da fare” – e da fare subito, con l’urgenza avvertita da gran parte del paese oltre che dalla politica – e insieme il rinvio ad un secondo e successivo momento della costruzione dei contenuti culturali e organizzativi dell’innovazione che Renzi e il renzismo avevano portato con sé nel Partito democratico.
Anche solo guardando alla sintesi della proposta programmatica della candidatura di Renzi a queste nuove primarie, oltre che al programma del Lingotto, si avverte con chiarezza l’intenzione di aprire una nuova stagione nella proposta politica e culturale del renzismo. Non si tratta tanto della sconfessione delle cose fatte – perché al netto di insufficienze che pure vi sono state sarebbe velleitario (e persino fantasioso) pretendere che il Partito Democratico non si consideri e non sia percepito come la forza politica che ha concretamente guidato l’Italia dal 2013 in avanti – quanto piuttosto della volontà di allargare e consolidare le basi per l’appunto culturali e organizzative del renzismo.
Un segnale molto significativo, da questo punto di vista, è lo spazio dedicato al tema del partito sia nelle linee programmatiche sia nella stessa organizzazione dei lavori del Lingotto, con un seminario riservato a quello che è stato forse l’argomento più negletto in questi ultimi anni di vita del PD. L’esigenza di ripensare le forme organizzative del partito appare insieme un’urgenza dettata dai fatti, in quella che appare la stagione della massima delegittimazione della politica, e una risposta alla necessità di dare respiro, solidità e persino protezione all’innovazione radicale di linguaggi e contenuti venuta con la leadership di Renzi.
Un buon metodo per il futuro, dove il rilancio della nostra proposta politica non sia concepito solo come orgoglio per le cose fatte ma anche e soprattutto come la costruzione di un condominio (politico, organizzativo e culturale) più solido sulle basi nuove che sono state poggiate nella rocambolesca stagione del 2013-2014.

mercoledì 8 marzo 2017

Il cerotto di D’Alema


Massimo Gramellini
Il Corriere della Sera 8 marzo 2017
Lasciare il Pd? Come strappare un cerotto: fa male, però dopo si sta meglio» dichiara con noncuranza D’Alema, la vasta mente già proiettata sulle prossime disfatte. E a chi lo ascolta cascano i cerotti e magari non solo quelli. Ma come? Avete occupato per anni la scena mediatica con la cronaca dei vostri bisticci da cortile spacciati per questioni di principio. Avete bloccato per almeno un anno i lavori del Parlamento con la disfida dei Sì e dei No, le leggi elettorali perennemente interrotte, le paccottiglie tattiche su primarie aperte, chiuse o cabriolet. Poi le correnti, gli spifferi, le scissioni agitate come clave di pastafrolla, le elezioni anticipabili, i governi a scadenza tipo yogurt. E tutto questo, dicevate, perché il Pd era il centro pulsante del sistema. L’architrave della democrazia. Avete creato intorno alla sua disgregazione un clima solenne da tragedia nazionale. E adesso che il dramma è finalmente compiuto, il capo dei congiurati minimizza il suo stesso operato e celebra il distacco con un’alzata di spalle? Se ne deduce che il primo a non avere mai creduto fin dall’inizio che il Pd fosse una cosa seria è stato lui, con buona pace dei militanti che invece ci avevano investito tempo e passione, e oggi si sentono sconfitti come coniugi alle prese con un fallimento matrimoniale. Si è strappato il cerotto, dice. Il guaio è che, prima di strapparselo, se l’era messo, indossandolo per anni come una medaglia. Perché a questo ormai si è ridotta la politica. A un mettere e togliere cerotti sopra ferite che non guariscono mai.

giovedì 2 marzo 2017

L’inchiesta Consip finirà nel nulla ma Travaglio già sentenzia


Fabrizio Rondolino
L'Unità 2 marzo 2017
Il “metodo Travaglio” è già stato condannato dalla Corte di Strasburgo
Per commentare il Fatto di oggi, interamente dedicato a “babbo Renzi” in un crescendo di insinuazioni, allusioni, manipolazioni, è sufficiente ricordare una recentissima sentenza della Corte di Strasburgo – naturalmente ignorata dal Fatto e dunque ignota ai suoi lettori – che chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come funziona il “metodo Travaglio” e perché quel metodo costituisca un reato.
Nel 2008 e nel 2010 il Direttore di Bronzo fu condannato per aver diffamanto Cesare Previti in un articolo, pubblicato sull’Espresso nel 2002, che riportava soltanto una parte delle dichiarazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, “generando così nel lettore – scrive la Corte – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. Spiega la Corte: “Come stabilito dai tribunali nazionali [Travaglio era già stato condannato in primo e in secondo grado, Ndr], tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata nel resto della dichiarazione non inclusa nell’articolo”.
E’ significativo che sia stato lo stesso Travaglio a ricorrere a Strasburgo rivendicando il diritto alla libertà d’espressione (non per caso è il Direttore di Bronzo): ma la libertà d’espressione, com’è noto a chiunque tranne che a Travaglio, non è libertà di diffamazione.
Prendere una frase a piacere, decontestualizzarla, omettere tutto ciò che contraddice la propria tesi e amplificare un frammento a scapito dell’insieme, così da costruire una “verità alternativa” – questa l’opinione dei giudici europei – non c’entra niente con la libertà di espressione, e anzi ne è in un certo senso il rovescio. In buona sostanza, è una bugia. E come tale va giustamente sanzionata.
Vedremo come andrà a finire l’inchiesta Consip nella parte che sembra coinvolgere Tiziano Renzi e Luca Lotti: con ogni probabilità, nel nulla. Il presunto reato (“traffico di influenze”) è a dir poco gassoso, prove non ce ne sono, le testimonianze sono frammentarie e contraddittorie, di pagamenti e tangenti non c’è la minima traccia. Ma per il Fatto non ci sono dubbi: “Tangenti a Consip e 30mila euro al mese promessi a babbo Renzi” è il titolone di prima pagina.
Siamo da capo: l’importante è sputtanare, distruggere la reputazione, attivare la macchinetta del fango. Fino alla prossima condanna – di Travaglio, naturalmente.