lunedì 20 febbraio 2017

«D'Alema crea sempre problemi»


Sergio Staino
20 febbraio 2017
Il direttore dell'Unità critica l'ex premier. E sulla scissione dice: «Sarebbe una tragedia. Ma andrebbe via chi ci ha portato in un tunnel da cui ci ha fatto uscire Renzi».
Un Partito democratico spaccato, Sergio Staino non lo vorrebbe proprio vedere. Ma il passato è passato, e il direttore dell'Unità non ha dubbi sulla parte con cui schierarsi: «Sarebbe meglio non ci fosse la scissione, non ne capisco il perché, sarebbe una tragedia, ma non finiremmo spogliati. Andrebbe via una parte che ho amato, a cui sono stato vicino, ma è anche la parte che ci ha portato nel tunnel da cui ci ha fatto venir fuori Renzi».
ELOGI A CUPERLO E VELTRONI. Intervenendo a margine del convegno, in corso al Maxxi di Roma, 'Satira, televisione e New media' organizzato dell'Associazione nazionale autori radiotelevisivi e teatrali, il vignettista ha spiegato: «Se i contestatori dovessero andar via, come ha detto anche Renzi, me ne farò una ragione», aggiungendo che dell'assemblea di domenica 19 febbraio ha amato i «discorsi alti» di Cuperlo, lo stesso Renzi, Teresa Bellanova, Fassino, Veltroni, «che è stato molto generoso a tornare in questo momento». Per lui la bellezza del Pd è l'essere «una forza polifonica, l'errore che stanno facendo i contestatori è considerarlo un partito monolitico, invece unisce molte più voci».
Staino non risparmia inoltre qualche battuta su D'Alema: «Con lui abbiamo un rapporto pluridecennale che è solo peggiorato. È rimasta la sua autoreferenzialità, il suo considerarsi sempre il più intelligente di tutti, credere di aver capito tutto lui. Ci ha portato così tanti problemi... e anche questa volta».
«D'ALEMA SI FA SATIRA DA SOLO». Durante il suo intervento al convegno ha anche ricordato una recente telefonata proprio con l'ex presidente del Consiglio: «Due giorni dopo il referendum avevo telefonato a D'Alema per chiedergli quell'intervista che prima mi aveva sempre negato per l'Unità. Mi ha detto di nuovo no, io gli ho chiesto perché, e lui mi ha risposto 'sono venuto, ho salvato l'Italia e me ne vado. Se un giorno servirà di nuovo salvarla, tornerò'. Che satira puoi fare su questo? Basta registrarlo».
«GUZZANTI IL MIGLIORE, CROZZA IL PIÙ EFFICACE». Oggi Staino in tutti i movimenti politici vede «cattiveria e grigiore. Anche nel M5s che forse sulla carta è innovativo, non noto intelligenza. Un Di Maio si fa satira da sé». Per quanto riguarda il panorama dei comici, secondo Staino «Guzzanti è il migliore a fare satira, ma quello che funziona di più è Crozza». Infine un commento sul futuro del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: «Sembra che ripartiamo, ci sono nuovi assetti, probabilmente si amplierà la proprietà. Siamo un piccolo giornale, e ora non sarà di cronaca generalista, ma fortemente politico perché ce n'è bisogno in questo momento».

Nostalgia canaglia della Prima repubblica: tornano Pli, Msi e pugni chiusi


Mario Lavia
L'Unità 20 febbraio 2017
Torna la proporzionale. Occhetto: “Rischio conflagrazione per il Pd”
“Un numero così alto di liste non si vede neppure al Carnevale di Rio“, disse Bettino Craxi nel 1992. Quando il sistema politico si sbrindellava sotto i colpi della questione morale e del moltiplicarsi di liste e listarelle, effetto esasperato del proporzionale, all’epoca senza sbarramento. Proiezione elettorale di localismi, potentati, leaderismi, purismi ideologici.
Ora, un quarto di secolo dopo, ci risiamo.
Sui muri del centro di Roma sono apparsi dei manifesti del Pli – Partito liberale italiano – sconosciuto nipotino dell’antico e glorioso Pli di Giovanni Malagodi. L’operazione degli ex giovani neri Alemanno e Storace –  il Movimento nazionale per la sovranità – occhieggia nostalgicamente all’MSI, dove resta la dizione “Movimento” e la “s” sta per “sovranista” (aggettivo tanto di moda) e non per “sociale” come nel partito di Giorgio Almirante.
Persino i nuovi gruppi parlamentari bersaniani pare si chiameranno Nuova sinistra: forse non se lo ricorda nessuno, ma Nuova sinistra unita fu un cartello elettorale di estrema sinistra presentatosi alle politiche del 1979 che voleva far riunire tutti i partiti alla sinistra del Pci, una proiezione elettorale (sfortunata) di Democrazia proletaria che non elesse nemmeno un deputato.
Sì, c’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi, di antico. Come se la crisi della Seconda repubblica non schiudesse le porte alla Terza ma le spalancasse alla Prima. Tornano bandiere rosse e pugni chiusi e non ci sarebbe da meravigliarsi se rispuntassero edere, rose nel pugno, garofani, scudi crociati e persino soli nascenti (la falce e martello è già di Paolo Ferrero).
E’ il proporzionale che suscita l’esplosione del sistema politico, tanto quanto, per converso, il maggioritario aggrega.
Ecco perché proprio stamane Achille Occhetto, fautore del maggioritario quando la sinistra era ancora proporzionalista nel midollo, ha parlato di “conflagrazione” del Pd: perché si aspetta, nell’Italia post-4 dicembre (perché lo spartiacque è quello), un’esplosione di pezzi e pezzetti ciascuno geloso della propria autonomia e soprattutto custode della propria nicchia elettorale, locale, corporativa o addirittura personalistica. Con tanti saluti al cammino ventennale che, appunto, va dalla Bolognina dell’89 al Pd del 2007 passando per l’Ulivo.
Il punto è esattamente questo. E’ che una parte dei leader della sinistra italiana (il nome che viene facile è quello di Massimo D’Alema) ha sempre considerato il Pds, l’Ulivo e il Pd come meri strumenti tecnici e organizzativi per superare questa o quella crisi e non come una acquisizione politica e culturale sempre più avanzata. Ecco perché l’Ulivo non resse, ecco perché l’amalgama non era riuscito, ecco perché il Pd di Renzi va spaccato.
D’altra parte, guardiamo cosa già sta succedendo a sinistra del Pd. In pochi giorni sono nati Sinistra Italiana di Fratoianni, il gruppo di Arturo Scotto (scisso da SI), il Campo progressista di Pisapia, il nuovo partito bersanian-dalemiano, forse una “Cosa” meridionalista di De Magistris e, chissà, Emiliano, poi c’è sempre Possibile di Civati, e magari torneranno i Verdi, e chissà che succederà ai radicali, divisi fra i boniniani (Cappato-Magi) e il partito transnazionale di Maurizio Turco. E in questo quadro, si potrà negare una autonoma presenza repubblicana o socialista? E Maurizio Landini?
Ugualmente ci sarà un fiorire di liste centriste, una galassia già esplosa con l’esaurirsi dell’esperienza di Scelta civica di Mario Monti e con l’ennesima spaccatura del centro cattolico fra Casini e Cesa, ultimo capitolo di una saga infinita che dalla morte della Dc non ha mai conosciuto fine. E che anzi è andata intrecciandosi con la crisi della “vecchia” Forza Italia – dall’Ncd a Ala, è stato tutto un fabbricare piccoli alambicchi politici e di potere, microgruppi sul mercato parlamentare buoni a tutti gli usi. Qualcosa di più confuso dell’antico trasformismo.
Il pulviscolo di partiti e sigle elettorali pertanto destinato ad infittirsi. La soglia di sbarramento del 3% non è insormontabile. E dunque, ci si può provare.
Di fronte a tutto questo, Matteo Renzi ha puntato tutto sul referendum costituzionale e ha perso. Forse le fiches doveva metterle più sul maggioritario che sul Senato o sul Cnel. Ieri però ha citato, anche se en passant, la necessità di “una legge elettorale di impianto maggioritario” e Walter Veltroni ha ripreso la formukla del partito a vocazione maggioritaria “che fa alleanza”, una concezione più dinamica della”suo” Pd del 2008.
Non è detto, insomma, che moriremo proporzionalisti. Altrimenti, benvenuti al Carnevale politico del 2017.

Tutte le invenzioni del Fatto sulla scissione “a rate” del Pd


Fabrizio Rondolino
L'Unità 20 febbraio 2017
Rileggere i titoli di oggi aiuta a capire qual è il senso politico della scissione che si apprestano a compiere Bersani, Rossi e (forse) Emiliano
Le prime cinque pagine del Fatto di oggi – come del resto quelle di quasi tutti gli altri quotidiani – sono dedicate alla scissione “a rate” del Pd (così viene canzonata con indubbia efficacia nel titolo di apertura). Il filo rosso che accompagna pezzi, titoli e foto è naturalmente la disumana cattiveria di Matteo Renzi, reo di aver sfasciato tutto per narcisismo, autoritarismo, delirio di onnipotenza, arroganza e chi più ne ha più ne metta.
Rileggere i titoli del Fatto di oggi aiuta dunque a capire qual è il senso politico della scissione che si apprestano a compiere Bersani, Rossi e (forse) Emiliano, quali effetti avrà, e chi ne pagherà il prezzo più alto: se infatti l’house organ della Casaleggio Associati srl è così convinto che sia tutta colpa di Renzi, il dubbio che la verità stia dalla parte opposta, e che ad avvantaggiarsi dell’avventura scissionista sarà proprio il M5s, è più che legittimo.
“Renzi se ne frega di Bersani e si prende tutto il partito”, spara il primo titolo (dimenticandosi che è stato Bersani a “fregarsene” di Renzi, visto che ha parlato alle telecamere dell’Annunziata anziché ai microfoni dell’Assemblea nazionale). Il secondo incalza: “Emiliano spaventa Speranza e Rossi, ma Matteo lo caccia” (qui la colpa è non essere intervenuto nuovamente alla fine del dibattito: il che non era tecnicamente possibile, visto che Renzi alla fine della giornata non era più il segretario del Pd).
Voltiamo pagina: “L’ex mister 40 per cento vince giocando da solo”, insiste un terzo titolo (ignorando che a “giocare da soli” sono semmai gli scissionisti, visto che hanno posto come condizione della loro permanenza nel Pd la rinuncia di Renzi a candidarsi a qualsiasi carica). E infine: “Il lungo addio del Pd dalla rossa Testaccio a Matteo il pariolino”. Accipicchia!
Da tre anni Renzi discute pazientemente con tutti i suoi oppositori, nessuno dei quali è stato mai cacciato da niente, e da tre settimane propone di fare ciò che i suoi oppositori hanno chiesto a gran voce, minacciando addirittura “le carte bollate”, e cioè il congresso, che fino a prova contraria è l’unico modo democratico di cui un partito dispone per scegliere liberamente linea politica e leadership. Ma per il Fatto Renzi è un dittatore egotico.
E Grillo? Sempre sulla prima pagina del Fatto di oggi leggiamo: “Oggi Grillo è a Roma per tentar di mettere ordine sullo stadio nel Movimento 5 stelle, che, specialmemte nella Capitale, parla con troppe voci. E tutte cacofoniche”.
Sì, avete letto bene: gli attivisti e i militanti del M5s che si permettono di ricordare che il Movimento è sempre stato contrario alla costruzione del nuovo stadio sono dei provocatori e le loro opinioni sono “tutte cacofoniche”, mentre Grillo che cala da Genova per dare la linea è un modello di serietà e di democrazia. E vabbè.

Renzi al congresso coperto dal “padre” Veltroni


Emilia Patta
Il Sole 24 Ore
Pier Luigi Bersani esce dalla sala convegni dell'Hotel Parco dei Principi di Roma dove è in corso l'attesa assemblea del Pd per ripetere le sue richieste in collegamento tv con Lucia Annunziata («congresso vero, che parta a giugno e finisca nei tempi normali a dicembre del 2018, e sostegno pieno al governo Gentiloni fino alla scadenza naturale della legislatura nel febbraio del 2018»). Il congresso intanto, con le dimissioni formali di Mattei Renzi, è già partito. Per concludersi verosimilmente entro aprile con l'elezione del nuovo segretario tramite primarie aperte agli elettori. Prima che Bersani decidesse di dire la sua in tv, davanti ai delegati del “parlamento” del Pd avevano già preso la parola contro ogni ipotesi scissionistica tutti gli ex segretari del partito. Dario Franceschini, che pure nelle ultime ore si è scontrato duramente con Renzi nel tentativo, fallito, di convincerlo a rimandare il congresso come chiesto dalla minoranza per tenere unito il partito, e che ora si schiera comunque con il segretario addossando a chi esce, e non a chi guida il partito, la responsabilità di una scissione «incomprensibile». Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds in quel congresso di dieci anni fa che decise lo scioglimento del partito erede del Pci nel neonato Pd assieme ai cattolici della Margherita. E soprattutto Walter Veltroni, che in un momento difficile per il Pd scende di nuovo in campo e si schiera senza se e senza ma a fianco di Renzi, riconoscendolo di fatto come figlio politico. Proprio Veltroni, che nel 2008 fece il passo indietro rinunciando a indire un congresso anticipato per chiarire il dissidio politico con Massimo D'Alema (e Bersani) per il timore che il neonato Pd potesse spaccarsi in partenza, e che ora ricorda che il congresso è lo strumento principe del confronto democratico in un periodo storico in cui fuori dal Pd ci sono «i partiti azienda e i partiti personali».
Una scelta che ha fatto molto discutere, quella della rinuncia di Veltroni di allora, e che comunque sta a ricordare che la storia presenta sempre il suo conto. Con un discorso molto alto, il fondatore del Pd ricorda non a caso il momento clou delle divisioni a sinistra degli ultimi venti anni: quando nel '98 si fece cadere il governo Prodi per sostituirlo con il governo D'Alema. I nomi ricorrono, le lotte intestine pure, mentre fuori – dice Veltroni - avanza la destra populista di Le Pen e di Trump «a ricordarci quali sono i valori della sinistra».
Lui, Renzi, come da previsioni della vigilia ha confermato l'avvio del congresso, ricordando che era stato chiesto dalla minoranza proprio come condizione per evitare quella scissione che ora si vuole fare contro il congresso-lampo, e si è appellato al principio democratico del confronto interno come scolpito dalla statuto del Pd. «Peggio della scissione ci sono i ricatti». Citando Arturo Parisi, uomo di Prodi, Renzi ha scandito: «A chi appartiene il Pd? Dove è il centro del potere, del comando nel nostro partito? Il Pd appartiene agli iscritti e agli elettori, e saranno loro a decidere chi lo guiderà». Con la protezione dei padri, da Fassino a Veltroni, Renzi dice chiaramente che non sarà fatto a lui quello che è stato fatto allo stesso Veltroni dieci anni fa: chi sarà il prossimo leader non lo decidono i dirigenti in una contrattazione tra di loro come avveniva nella prima repubblica, ma lo decideranno le primarie aperte.
Stop. Congresso al via, mentre Bersani, in diretta tv seduto nel giardino su cui si affaccia la sala stampa attende inutilmente la replica del segretario appena dimessosi. Per Renzi hanno parlato i padri che vengono dalla stessa storia politica di Bersani, lasciandolo obiettivamente solo e ricordando che «nessuno ha il copyright della parola sinistra» e che «il futuro di un grande partito riformista di governo non può ripartire, con tutto il rispetto, dalla rivoluzione socialista» (parole di Veltroni, commentando il “titolo” della kermesse della minoranza al teatro Vittoria).
Il referendum sulla riforma del Senato e del Titolo V, è analisi di Renzi, è stato il vero spartiacque della legislatura. Un'occasione perduta anche per colpa di quei compagni di partito che, come appunto Bersani e D'Alema, hanno martellato contro il loro leader ogni giorno e infine hanno brindato alle sue dimissioni da premier la notte della sconfitta, il 4 dicembre. Immagini che non si dimenticano, certo, ma il punto è che con la vittoria del No - secondo Renzi - si è impantanato il sistema Paese, anche dal punto di vista economico: «Ci si accorgerà presto dei capitali stranieri che stanno scappando – dice -. E in Parlamento la settimana si è accorciata, non certo per colpa dei parlamentari ma perché c'è un'oggettiva stasi».
Il rischio del ritorno al proporzionale e al consociativismo è evocato anche da Veltroni. Non è tanto in discussione la vocazione maggioritaria del Pd ma con essa il nodo della governabilità nel nostro Paese. Non a caso Veltroni torna a parlare di collegio uninominale e di Mattarellum. E non a caso un esperto di legge elettorale come il deputato Dario Parrini, moto vicino a Renzi, posta subito sui Facebook questa riflessione: «Il Mattarellum è la posizione votata dal Pd in assemblea nazionale, Non fermiamoci in attesa che gli altri ci dicano ok. Non parliamo di subordinate. Se si crede in qualcosa, bisogna semplicemente portarla avanti, e costringere chi non ci sta a a metterci la faccia assumendosi in Parlamento la responsabilità di dire di no. Il resto tatticismo e palude».
Ecco, una cosa è certa: Renzi, a maggior ragione dopo l'annunciata scissione dei bersaniani, non vorrà avallare un accordo al ribasso sulla legge elettorale. Piuttosto si va a votare con i due sistemi usciti dalle sentenze della Consulta, che qualche elemento di maggioritario lo salvano. La battaglia congressuale del Pd è nell'ottica di Renzi anche questo: una battaglia per evitare la grande coalizione a vita.

sabato 18 febbraio 2017

le ragioni del grande vecchio


Fine di una comunità politica.... si può evitare?

Giorgio Tonini
Alla vigilia dell'Assemblea nazionale che dovrebbe indire il Congresso, il Pd è in piena tempesta emotiva ed è normale che sia così. Quando la dialettica interna ad un partito degenera, al punto da rendere possibile, se non inevitabile, una scissione, è umanamente comprensibile che emergano ed esplodano paure e angosce, recriminazioni e risentimenti.
Proprio in momenti come questi, nei quali il cuore diventa inevitabilmente molto caldo, è tuttavia indispensabile fare di tutto per mantenere la testa fredda. Cercare di capire, prima di giudicare, le ragioni degli uni e degli altri, è del resto l'unico modo, sia per avere rispetto vero di tutti, sia per tentare sul serio e senza ipocrisie di evitare che la crisi porti alla rottura definitiva.
Proviamo allora a cercare di capire dove stia la vera ragione del conflitto interno al Pd. È evidente, e non deve scandalizzare nessuno, perché la politica è sempre anche lotta per la conquista e la conservazione del potere, che la causa scatenante del conflitto sono le liste da presentare alle prossime elezioni politiche. Sulla base della legge elettorale in vigore, l'Italicum corretto dalla Corte costituzionale, almeno alla Camera (diverso è il caso del Senato), le liste saranno composte, in ciascuno dei cento collegi in cui è stato suddiviso il territorio nazionale, da un capolista "bloccato" e da quattro o cinque altri candidati che si disputeranno a colpi di preferenze il secondo seggio in palio: l'unico possibile, oltre a quello destinato al capolista, per un partito come il Pd che, stando ai sondaggi, dovrebbe attestarsi attorno al 30 per cento dei voti. Senza il premio di maggioranza (per conquistare il quale ora serve il 40 per cento dei suffragi), al 30 per cento dei voti corrisponde infatti grosso modo il 30 per cento dei seggi, quindi circa 200 deputati su 630. Dunque, con questa legge elettorale: 1) il Pd perderà un terzo degli attuali deputati (oggi, grazie al generoso premio del Porcellum, sono più di 300); 2) solo i cento capilista saranno pressoché certi della elezione, tutti gli altri dovranno conquistarsela sul campo di lotta fratricida delle preferenze.
È dunque evidente e comprensibile che le modalità di selezione dei cento capilista siano al centro della contesa. La minoranza di sinistra del Pd considera infatti certa la rielezione di Matteo Renzi alla guida del partito e teme che la scelta, da parte del segretario, dei cento capilista premi in modo abnorme i suoi fedelissimi e lasci a loro, alla minoranza, solo le briciole. A quel punto, dicono in molti, tanto vale rischiare la scissione: se ci va male non ci andrà comunque peggio che se restassimo nel Pd, se invece ci andasse bene... Che la eventualità di una forte penalizzazione della minoranza nella scelta dei cento capilista non sia irrealistica, dipende proprio dal comportamento parlamentare della minoranza stessa in questa legislatura. Non si contano infatti le occasioni nelle quali la minoranza non si è limitata a criticare le scelte del governo, come è suo diritto indiscutibile in un partito democratico, ma si è dissociata nel voto, talvolta perfino in quello di fiducia, nelle aule parlamentari. Questo comportamento, tanto più se ripetuto, è strutturalmente incompatibile con l'appartenenza ad un partito. È già, di per sé, un comportamento scissionistico. Questo la minoranza lo sa e sa anche che Renzi è tentato (e pressato) di restituire pan per focaccia: poiché avete dimostrato di essere inaffidabili, non posso che ridimensionarvi in modo drastico nella scelta dei candidati e in particolare dei capilista.
Il mio amico e grande politologo Sergio Fabbrini ama dire provocatoriamente che la politica è una scienza esatta. Ha ragione: anche la politica ha le sue leggi, diverse da quelle della fisica o della chimica, ma non meno stringenti. Una di queste leggi è la complementarietà, in un partito complesso e composito, del pluralismo della rappresentanza con la disciplina nel voto. Se si viola sistematicamente la disciplina, si mette a repentaglio la sostenibilità del pluralismo e si pongono quindi le basi della scissione. Questa regola non conosce eccezioni, nella storia dei partiti politici, e averla sottovalutata, da parte degli amici della minoranza, è stato un grave atto di superficialità.
Giunti a questo punto, lo spazio della mediazione possibile è molto stretto, ma teoricamente non inesistente. Ricostruire la fiducia reciproca è possibile, se tutti si impegnano, pubblicamente e solennemente, al rispetto contestuale sia della regola del pluralismo nella composizione delle liste, da parte della maggioranza congressuale, sia della regola della disciplina nel voto in parlamento, da parte della minoranza.
E tuttavia, la riaffermazione di queste due regole presuppone, da entrambe le parti, la condivisione che ciò che unisce le diverse anime del Pd è più grande e importante di ciò che le divide. Dalla manifestazione romana guidata da Emiliano, Rossi e Speranza non sono pervenuti segnali incoraggianti in questo senso. La richiesta a Renzi di farsi da parte non va in questa direzione sul piano politico. E non va in questa direzione, sul piano della cultura politica, l'apparato simbolico scelto dagli organizzatori: dallo slogan "rivoluzione socialista", che nella storia si attaglia solo alla rivoluzione di Ottobre, fino alle note di "Bandiera Rossa", che accompagnavano le parole "evviva il comunismo e la libertà", tutto sembra fatto apposta per segnare una cesura difficilmente ricomponibile con il progetto del Pd. E perfino, verrebbe da dire, con quello del Pds e poi dei Ds, nati dalla svolta dell'89.
Se questa deriva sarà confermata e si arriverà alla scissione, vorrà dire che avranno avuto ragione quanti sostengono che le categorie "sociali" di destra e di sinistra non rappresentano più la principale discriminante politica e sono destinate a cedere il primato a quelle "liberali" di apertura e chiusura: alla globalizzazione, alla competizione, all'innovazione. E che c'è da aspettarsi un processo lungo e travagliato di ridefinizione degli assetti politici e partitici della nostra come di altre democrazie occidentali.

venerdì 10 febbraio 2017

Non tiriamo a campare, serve un Pd forte e unito


Salvatore Vassallo
L'Unità 10 febbraio 2017
Per noi, in questo quadro, il problema non è solo vincere in Italia
Il documento sottoscritto da 40 senatori Pd e pubblicato ieri su l’Unità chiede giustamente «una riflessione profonda» sul contesto globale nel quale si inserisce anche la vicenda italiana prima di trarre conclusioni sui prossimi passi.
L’indebolimento dei confini nazionali e la grande recessione hanno ridefinito dappertutto il tradizionale conflitto politico tra destra e sinistra, che però non è affatto scomparso. Le appartenenze religiose o di classe che avevano contrapposto socialdemocratici, democristiani, liberali o conservatori si erano abbondantemente allentate già nella seconda metà del secolo scorso.
Ma dall’inizio dell’attuale decennio sta capitando qualcosa di inusitato, con un tratto comune ben evidente in molte democrazie: la crescita dei consensi per leader e forze politiche che, sfruttando il disagio di categorie che sono o si sentono penalizzate dalla globalizzazione, vendono facili ricette neo-nazionaliste. Alla base di questa svolta c’è un dato di fatto reale. I vantaggi maggiori dell’integrazione economica e della parallela rivoluzione digitale, sono andati ai Paesi meno sviluppati.
Mentre nei Paesi occidentali sono andati a chi ha capitali mobili o ha capitalizzato sulle economie di scala nei nuovi oligopoli. I vincitori sono per ora la Cina e Amazon. Ci hanno perso i lavoratori meno specializzati e meno istruiti con aspirazioni frustrate o espulsi dal mercato del lavoro, i giovani rimasti ai margini o che non ci sono mai entrati, tutte le filiere dell’interme diazione divenute obsolete, nel settore bancario, nel commercio o nella pubblica amministrazione. La crescita fisiologica delle migrazioni, con i suoi picchi del 2004 (allargamento ad Est) e del 2015 (crisi dei rifugiati da Siria, Afghanistan e Somalia), preoccupa soprattutto chi ha meno strumenti culturali e si sente minacciato dai diversi, chi compete con gli immigrati o più spesso immagina di competere con loro per l’o ccupazione, per i benefici delle politiche sociali, per un posto in autobus o negli alloggi pubblici.
Il populismo neo-nazionalista offre loro capri espiatori su cui scaricare il biasimo (gli immigrati, i complotti delle élites cosmopolite, la classe politica incapace o collusa) e soluzioni semplici (il muro con il Messico, il bando per i musulmani e la cancellazione del Nafta; il reddito di cittadinanza, il superamento di Schengen, il ritorno alle monete nazionali o l’uscita dell’Ue). Offre ricette inconsistenti ad un pubblico esasperato, impacchettate insieme a teorie economiche fantasiose e spudorate menzogne che prima o poi verranno a galla.
Il punto è: quando? E cosa succederà prima, dove hanno già vinto o potrebbero farlo? I possibili danni collaterali sono molti. Nel frattempo dobbiamo prendere atto che il populismo neonazionalista ha cambiato la struttura della competizione politica interna e minaccia di avere un impatto sull’ordine globale. Ha già vinto dove si è saldato alla destra tradizionale radicalizzandone le posizioni. Il caso Trump non è il primo ma il salto di scala è impressionante. In Gran Bretagna la vena anti-immigrati e anti-europea è stata incorporata, attenuandola, nell’agenda politica dei conservatori, che si preparano così, fino a che non ci saranno cambiamenti rilevanti a sinistra, a rimanere dominanti ancora per molto tempo. Per noi, in questo quadro, il problema non è solo vincere in Italia.
Ma rafforzare al più presto l’intesa tra un nocciolo duro di Paesi guida per rinnovare e rilanciare il progetto europeo. Dobbiamo sperare che all’interno di ciascuno di essi prevalgano governi coerenti con questo progetto e forse dovremo prendere in qualche modo esempio da loro. In Germania il governo potrebbe rimanere nelle mani di grandi coalizioni rese stabili dalla forza istituzionale del Cancelliere e dalla collaudata capacità dei partiti tradizionali di intendersi dopo che gli elettori avranno deciso chi lo guida. In Spagna, dove la cultura della coalizione non è mai stata appresa, c’è una coalizione di fatto, con il leader del primo partito a capo di un governo di minoranza. In Francia, con il semipresidenzialismo e il maggioritario a due turni, saranno gli elettori a decidere l’antagonista della Le Pen.
Se vincerà Macron potrebbe essere costretto anche lui a formare governi di coalizione, perché difficilmente i candidati parlamentari di En Marche avranno le sue stesse fortune. L’Italia avrebbe potuto avere un percorso più lineare con il Sì al Referendum. Ora lo scenario è diverso e dobbiamo prenderne atto. È certo però che anche le coalizioni, se necessarie, funzionano con leader, partiti e progetti forti. E quindi, che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è prendere tempo, tirare a campare, dividere il Pd o indebolirne la leadership.