foto del giorno
giovedì 10 dicembre 2015
mercoledì 9 dicembre 2015
Democrazia a rischio? Catastrofi annunciate (e non vere)
Sabino Cassese
Corriere della Sera 9 dicembre 2015
Si moltiplicano le
voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo
rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere
di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il
Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano
istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al
comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le
riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori
della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri
si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali
internazionali.
Sono corrette queste diagnosi
catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo?
Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non
confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti
i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di
decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che
poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia.
Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e
nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi
rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare
leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera
il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva
crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle
corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative
di regolazione.
Se
si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che
essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere
tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo,
e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare
quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione
Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi
del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si
considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e
quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a
tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una
formula elettorale che premia la più forte minoranza.
Questo non vuol dire che vada tutto
bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema
politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda
la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai
avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di
mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità
aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi
languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società
civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si
autoperpetuano.
I partiti, ridotti in organizzazioni di
seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono
chiusi nel loro particulare . Le elite - quelle poche che abbiamo -
si comportano da caste.
Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi.
Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi.
Sono questi i veri problemi, che gli
annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione
non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al
modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla
classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla
insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi
della politica. Questo non vuol dire che non possano essere
affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di
ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi.
lunedì 7 dicembre 2015
L’Europa deve cambiare
Matteo Renzi
Credo che sia arrivato il momento per le Istituzioni Europee di guardare in faccia la realtà: di sola tattica si muore. Senza un disegno strategico, soprattutto sull’economia e la crescita, i populisti vinceranno prima o poi anche alcune politiche nazionali.
In Italia no. In Italia vinciamo noi perché le riforme stanno finalmente dando frutti: la maggioranza degli italiani sta con chi vuole cambiare, non con chi sa solo lamentarsi.
Io non sono, dunque, preoccupato per l’Italia, ma sono molto preoccupato per l’Europa.
Se l’Europa non cambia direzione subito, le Istituzioni Europee rischiano di diventare (più o meno inconsapevolmente) le migliori alleate di Marine Le Pen e di quelli che provano a emularla.
Credo che sia arrivato il momento per le Istituzioni Europee di guardare in faccia la realtà: di sola tattica si muore. Senza un disegno strategico, soprattutto sull’economia e la crescita, i populisti vinceranno prima o poi anche alcune politiche nazionali.
In Italia no. In Italia vinciamo noi perché le riforme stanno finalmente dando frutti: la maggioranza degli italiani sta con chi vuole cambiare, non con chi sa solo lamentarsi.
Io non sono, dunque, preoccupato per l’Italia, ma sono molto preoccupato per l’Europa.
Se l’Europa non cambia direzione subito, le Istituzioni Europee rischiano di diventare (più o meno inconsapevolmente) le migliori alleate di Marine Le Pen e di quelli che provano a emularla.
venerdì 4 dicembre 2015
I numeri dell’immigrazione: i nuovi cittadini italiani superano gli sbarchi
4 dicembre 2015
Lidia Baratta
Lidia Baratta
La Fondazione Ismu ha presentato il
21esimo rapporto sulle migrazioni: i regolari sono il 93%, molti
vivono in famiglia, meno di un terzo è di religione musulmana.
Diminuiscono gli ingressi per motivi di lavoro. L’Italia è
diventata Paese di transito per chi punta verso il Nord Europa
Duecentotrentunomila contro
duecentotredicimila. «Tra il 2013 e 2014 sono stati di più gli
immigrati approdati alla cittadinanza italiana che quelli sbarcati
sulle nostre coste», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di
demografia all’Università Bicocca di Milano e responsabile del
monitoraggio immigrazione della Fondazione Ismu, che ha presentato il
suo ventunesimo rapporto sulle migrazioni in Italia. «In Italia è
residente il 14,5% del totale degli stranieri presenti nei 28 Paesi
europei. Il nostro Paese va considerato a pieno titolo uno dei grandi
Paesi europei di immigrazione». Al 1 gennaio 2015 la popolazione
straniera in Italia ammonta a 5,8 milioni di individui, di cui circa
5 milioni (93%) sono regolarmente residenti nel nostro Paese. E
quattro su cinque vivono all’interno di nuclei familiari con un
progetto di vita stabile. Gli irregolari restano però oltre 400mila,
in crescita rispetto ai 350mila dell’anno scorso.
GLI SBARCHI Negli ultimi anni gli
sbarchi via mare di migranti e richiedenti protezione internazionale
sono aumentati. Ma i numeri sono lontani da un’invasione, come
qualcuno vorrebbe far credere. Tanto più che l’Italia più che
meta di immigrazione è diventata Paese di transito verso altri Paesi
europei. Nel bienno 2013-2014 gli sbarcati sulle nostre coste sono
stati 231mila (mentre nel 2012 erano stati meno di 20mila), di cui
170mila sono nel 2014, molti dei quali poi hanno «proseguito la loro
traiettoria migratoria verso altri Paesi, soprattutto nel Nord
Europa», spiegano i ricercatori di Ismu. Nel corso del 2015 lo
scenario è cambiato: a causa della pericolosità della tratta tra la
Libia e l’Italia i flussi migratori hanno deviato su altre rotte,
dirigendosi soprattutto verso la Grecia, per poi proseguire lungo i
Balcani. Dall’inizio del 2015 fino al 20 novembre hanno raggiunto
l’Europa via mare 863mila migranti, di cui solo 143mila sono
arrivati in Italia. Principalmente eritrei, nigeriani e somali. Un
fenomeno in crescita è però quello dei minori non accompagnati.
Solo dal 1 gennaio alla fine di ottobre del 2015 in Italia ne sono
arrivati 10.820. Di molti di loro si perde traccia.
Il 2014 e il 2015 sono stati anni
record per il numero dei morti nelle acque del Mediterraneo: dal 1
gennaio al 24 novembre 2015 3.548 hanno perso la vita in mare.
L’aumento degli sbarchi è legato all’aumento dei richiedenti
asilo. Le domande di asilo nel nostro Paese nel 2014 sono state
65mila. Nei primi dieci mesi del 2015 sono state 61.545 (in Germania
sono più del doppio).
“Dall’inizio del 2015 fino al 20
novembre hanno raggiunto l’Europa via mare 863mila migranti, di cui
solo 143mila sono arrivati in Italia. Principalmente eritrei,
nigeriani e somali”
IMMIGRAZIONE STABILE Dal 2010, per
colpa della crisi economica, gli ingressi di non comunitari con
permesso per motivo di lavoro sono scesi dell’84 per cento.
Sono in salita invece i permessi per
motivi familiari, che nel 2014 rappresentano il 40% del totale.
All’inizio del 2015 il numero di famiglie composte da 3-4 persone
tra gli stranieri è superiore al numero dei single. Cifre che
«dimostrano che la popolazione straniera che vive in Italia è
sempre più radicata sul nostro territorio», dice Blangiardo. Le
coppie con figli sono quasi il 60% dei residenti. I single sono il 21
per cento. I minori stranieri sono ormai oltre 1 milione. «Le
famiglie si radicano così sul territorio attorno a questi bambini
che crescono».
Uno straniero su 16 è presente nel
nostro Paese sin dalla nascita, mentre oltre il 45% è arrivato prima
del 2003, oltre dieci anni fa. Crescono anche i residenti con
permesso di soggiorno di lungo periodo. Negli ultimi quattro anni gli
extracomunitari con questo permesso hanno superato il 56 per cento.
La quota più alta tra albanesi, marocchini ed egiziani.
NUOVI CITTADINI Le acquisizioni di
cittadinanza sono in aumento, soprattutto da parte di interi gruppi
familiari. Nel biennio 2013-2014, 231mila stranieri hanno ottenuto la
cittadinanza italiana, di cui 130mila nel 2014. Nel 2012 erano poco
più di 60mila. Un nuovo italiano su tre ha meno di 15 anni.
I MUSULMANI NON SONO LA MAGGIORANZA Gli
stranieri aderenti all’Islam rappresentano meno di un terzo del
totale degli stranieri, circa un milione e 700mila unità. Poco più
di un terzo è rappresentato da cristiani, per metà cattolici, ma
crescono anche ortodossi e copti.
“Gli stranieri aderenti all’Islam
rappresentano meno di un terzo del totale degli stranieri, circa un
milione e 700mila unità. Poco più di un terzo è rappresentato da
cristiani, per metà cattolici”
IL MERCATO DEL LAVORO DEGLI STRANIERI
Dopo un calo nel primo trimestre del 2015, l’occupazione tra gli
immigrati è tornata a crescere, aumentando di 50mila unità rispetto
al 2014. Gli occupati stranieri hanno superato la soglia del 10% sul
totale degli occupati. Ma se prima della crisi gli stranieri godevano
di tassi di occupazione più elevati rispetto agli italiani, questo
vantaggio si è via via ridotto, passando dal 65,5% del 2005 al 59,2%
del 2015. Gli italiani sono fermi al 56 per cento. Cresce anche la
disoccupazione, che è arrivata al 16,9 per cento. «Sempre più»,
dicono dall’Ismu, «l’Italia si trova così a condividere con gli
altri grandi Paesi europei la duplice sfida rappresentata da un lato
dagli immigrati che perdono il loro lavoro e dai nuovi immigrati che
faticano a trovarne uno».
Tra gli stranieri, gli inattivi sono
1,2 milioni, di cui oltre il 70% è costituito da donne, per via
della «difficoltà che trovano nel conciliare l’impegno lavorativo
con la necessità di accudire i figli o persone non autosufficienti».
Aumentano i Neet anche tra i giovani stranieri, toccando punte
preoccupanti soprattutto in alcune comunità. Sono Neet quasi otto
donne su dieci nel caso del Bangladesh, quasi sette su dieci nel caso
del Pakistan, Marocco ed Egitto.
Ma per gli stranieri che arrivano in
Italia le possibilità di carriera sono poche, anche per i più
istruiti. Oltre il 70% è occupato come operaio, solo l’1% occupa
posti dirigenziali. Dopo il primo lavoro, quasi la metà degli
stranieri non ne trova uno migliore. Anzi, quasi un terzo peggiora la
propria condizione lavorativa. E negli ultimi anni è aumentata la
quota di immigrati occupata nell’agricoltura, con fenomeni diffusi
di sottoretribuzioni e lavoro nero. Unica novità: l’imprenditoria
straniera, cresciuta del 7% rispetto all’anno precedente.
Si conferma l’immagine dell’Italia
come un Paese che attrae soprattutto manodopera poco qualificata: il
42% degli stranieri ha un livello di istruzione basso, solo il 12%
alto, contro una media europea del 31 per cento. L’immigrazione nel
tempo è divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la
fascia di lavori poco qualificati. Non a caso, quattro immigrati su
dieci guadagnano meno di 800 euro al mese. Soltanto lo 0,6% ha una
busta paga superiore a 2mila euro.
“L’immigrazione nel tempo è
divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la fascia di
lavori poco qualificati, concorrendo in questo modo ad alimentare un
processo di complessivo peggioramento delle condizioni di lavoro“
GLI STRANIERI TRA I BANCHI Nell’anno
scolastico 2014/2015 gli studenti stranieri erano 805.800. Ma la
percentuale di coloro che abbandonano la scuola, 34,4%, è ancora
troppo alta. Così come è alto il tasso dei ragazzi sotto i 15 anni
che non riescono a raggiungere un livello sufficiente in lettura,
matematica e scienze.
Tra il 2010 e il 2014 le politiche di
integrazione scolastiche in Italia sono peggiorate, tant'è che in
questi quattro anni il nostro Paese è passato dal 19esimo posto al
23esimo. Gli studiosi di Mipex (Migrant Integration Policy Index)
sottolineano la difficoltà che ha la scuola italiana nel rispondere
ai bisogni dei differenti target di allievi stranieri, oltre
all'assenza di misure per inserire i neo-arrivati più svantaggiati.
“DEFICIT DI INTEGRAZIONE” «Non
dobbiamo sottovalutare il deficit di integrazione degli immigrati nei
Paesi europei», spiega Vincenzo Cesareo, segretario generale della
Fondazione Ismu. «È anche questo che induce a sposare il terrorismo
di matrice islamica, un malessere profondo che può indurre i
giovani, anche quelli della classe media, a sposare le idee
estremiste».
«Non dobbiamo sottovalutare il deficit
di integrazione degli immigrati nei Paesi europei. È anche questo
che induce a sposare il terrorismo di matrice islamica, un malessere
profondo che può indurre i giovani, anche quelli della classe media,
a sposare le idee estremiste»
Vincenzo Cesareo, segretario generale
della Fondazione Ismu
giovedì 3 dicembre 2015
California, tutte le nostre paure in una sola strage
Vittorio Zucconi
Astio verso i colleghi? Una pista terroristica? Tante incognite nella strage di San Bernardino di Syed Rizwan Farook e sua moglie Tashfeen Malik. Ma la certezza è che nell'America delle armi libere l'impulso alla violenza si trasforma in sangue. Tra il 2001 e il 2013 le armi da fuoco hanno ucciso oltre quattrocentomila americani (i dati sono dei Centers for Disease Control and Prevention). Nel 2015 le sparatorie sono state ben 355, mentre i morti in un anno raggiungono i 33mila.
Gli investimenti sono arrivati: la ripresa dov’è?
Tortuga dal blog l'inkiesta
Il governo Renzi ha deciso di
rinunciare alla redistribuzione e si è lanciato su riforme per
aumentare la produttività e la crescita. Ma se gli investimenti
finalmente tornano a salire, ora servono segnali dalla produttività
per consolidare la ripresa dopo un ventennio bruciato
Stefano Fassina ha definito la politica
economica di Matteo Renzi un “liberismo da happy days”,
Berlusconi lo accusa di “copiare il nostro programma”, Brunetta e
i Cinque Stelle la giudicano fallimentare e incoerente. In effetti,
le ricette economiche di Renzi non erano chiare fin dall’inizio,
hanno piuttosto preso forma col proseguire degli eventi e dell’azione
di governo, passo dopo passo, cercando di mantenere un equilibrio
politico precario e cogliendo le occasioni quando si presentavano.
Questa politica economica, giudicata da
alcuni un po’ “à la carte”, si è lanciata con forza su
riforme riconosciute come “prioritarie”, “di buon senso”,
“necessarie” per il rilancio dell’economia in termini
produttività e crescita. Piuttosto che da una volontà di
redistribuzione della ricchezza o di difesa di particolari interessi
o classi sociali, la Renzinomics sembra partire dal concetto che in
vent’anni di mancate riforme l’economia italiana sia rimasta ben
al di sotto della sua frontiera di efficienza, lasciando ampio spazio
per provvedimenti “pareto improving”, in grado nel lungo periodo
di alzare tutte le barche, aumentando la torta per tutti. Pochi
preconcetti (si parte “da sinistra” ma anche “parlando alla
parte più produttiva del Paese”), molto focus sui risultati. Per
questo forse il dibattito sui dati è più infiammato del solito: la
pura efficacia in termini economici della politica di Renzi è per
molti la discriminante fondamentale nel giudizio sul governo.
“Secondo l’Ocse, se implementate
fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad
un rialzo del Pil del 6 per cento”
Purtroppo, i dati non sono così
semplici da interpretare, ma sono facili da estrapolare e sfoderare
in un discorso o in un “cartello” di un programma televisivo.
Crediamo invece sia utile tirare un attimo le fila riguardo ai
fondamentali della nostra economia: crescita, debito e finanza
pubblica, lavoro, diseguaglianza e povertà saranno i capitoli su cui
costruiremo questa analisi. Facciamo quindi una panoramica
volutamente generale, confrontando l’Italia con i partner europei,
guardando agli ultimi decenni e utilizzando qualche stima nel breve
periodo da fonti autorevoli.
In termini reali l’Italia ha
sicuramente recuperato terreno rispetto ai principali partner
europei. La crescita del nostro Paese raggiungerà livelli di poco
inferiori alla Germania nel 2016, superando la Francia. Padoan
you-tuber annuncia questo risultato come il successo della politica
di riforme, che ha restituito credibilità e capacità di innovare al
Paese. Questa visione è in buona parte condivisa da molti analisti,
dalla Commissione Europea e dall Ocse, secondo cui “se implementate
fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad
un rialzo del Pil del 6 per cento”. Tra queste riforme, si citano
la riforma del processo civile, della Pa, il credito d’imposta R&S,
ma sopratutto il Jobs Act. Secondo l’Ocse, la riforma del lavoro
“traina la crescita”, puntando a sbloccare le assunzioni, a
favorire l’investimento in formazione, a rendere più flessibile il
mercato del lavoro a fronte però di maggiori sussidi di
disoccupazione.
“Prima o poi, il segno più dovrà
venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e
della produttività. Gli investimenti negli ultimi sei anni sono
crollati, con una ripresa solo negli ultimi trimestri”
Bisogna tuttavia considerare i fattori
esterni di cui ha beneficiato la nostra economia, per esempio il
basso prezzo del petrolio, che per un Paese con poche risorse
energetiche come il nostro significa un crollo nei costi di
produzione, ed il QE, che garantisce bassi interessi sul debito
pubblico e un euro debole a favore dell’export. Inoltre, come
spiegato in questo articolo, le manovre “espansive”, ovvero che
utilizzano un deficit di bilancio come successo nel 2014 e nel 2015,
per definizione danno una spinta “extra” al Pil che in futuro
dovrà essere rimodulata, per evitare l’aumento esponenziale del
debito. Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal
deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività.
Investimenti e produttività erano in
effetti due punti chiave del programma Renzinomics: con crescita
demografica nulla, investire nell’innovazione ed aumentare la
produttività rappresentano l’unica strada per poter crescere nel
lungo periodo. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati ad un
ritmo medio di 80 miliardi l’anno: le aziende ed i privati hanno
congelato gli investimenti, lo Stato ha ridotto la spesa in conto
capitale e gli investitori stranieri sono stati spaventati da un
Paese inefficiente e a rischio default. Negli ultimi trimestri vi è
stato tuttavia un netto miglioramento: da gennaio gli investimenti
hanno ricominciato a crescere fino al 6% a trimestre e l’Italia è
tornata tra le prime 20 mete per gli investimenti esteri. Ora
bisognerà vedere se anche la produttività reagirà ai nuovi
investimenti e alle riforme che, come quella del lavoro, hanno
l’esplicito obiettivo di aumentare la formazione dei lavoratori e
l’efficienza del mercato del lavoro.
Se questo governo ha davvero cambiato
verso alla crescita del Paese si vedrà quindi solo nei prossimi
anni. Tuttavia, allargando lo sguardo ai dati decennali, dobbiamo
renderci conto di come l’Italia esca da un ventennio completamente
bruciato: in termini reali, il Pil si attesta su una media di -0,75%
tra 2001 e 2014, peggio della Grecia. Il fatto che dopo decenni di
stagnazione e i duri colpi inflitti della doppia crisi il nostro
Paese stia reagendo testimonia, come dice Padoan, la resilience della
nostra economia. In aggiunta a questo, bisogna però riconoscere i
meriti di un contesto politico mutato rispetto al Berlusconi deriso
in Europa o alle manovre d’emergenza del governo Monti, insieme a
una politica economica giudicata favorevole alla crescita dalla
maggior parte degli addetti ai lavori e che forse permette una
maggiore fiducia, perseguendo esplicitamente un obbiettivo di
crescita della produttività.
martedì 1 dicembre 2015
“Diamogli tempo ma Renzi si occupi di più del partito”. Parla Michele Salvati
Stefano Cagelli
L'Unità 30 novembre 2015
Il partito, l’ideologia, le primarie, il doppio ruolo di
premier-segretario, il rinnovamento: otto anni dopo la sua nascita,
il punto sul Pd con uno dei suoi principali teorici
È stato uno dei teorici più autorevoli del Partito democratico.
Otto anni dopo gli abbiamo chiesto quanto di quell’idea originaria
ci sia nel partito di oggi. Michele Salvati, economista e politologo
vede il bicchiere mezzo pieno: “Il Pd di oggi si avvicina molto a
quello che ci eravamo immaginati”. Non nasconde le difficoltà e
percepisce tutta la delicatezza del momento. “Diamo tempo a Renzi,
ma lui si occupi di più del partito”. Nella nostra chiacchierata
parliamo di primarie e di rottamazione, del ruolo del
premier-segretario e della necessità di una nuova elaborazione
ideologica.
Professore, otto anni dopo la nascita del Pd, che
partito abbiamo? Si avvicina a quella che era la sua
idea originaria?
“Anche se non coincide perfettamente con l’idea di partito che
avevamo allora, si può dire che si avvicina molto. Crollate le
grandi ideologie del passato, dal comunismo alla visione dei
democristiani di sinistra, l’ideale comune alla base della nascita
del Partito democratico doveva essere quello che io chiamo
‘liberalismo di sinistra’. E così è stato, in questo senso si
può dire che quello che abbiamo oggi si avvicina all’idea di
partito riformista che avevamo otto anni fa”.
In questi otto anni il Partito democratico è cambiato
molto e molto rapidamente. Dalla brevissima ma intensa suggestione
del Partito del Lingotto con Veltroni alla ditta di Bersani, fino al
partito del cambiamento di Renzi basato sul concetto forte di
rottamazione. In quale di queste impostazioni si è ritrovato di più?
“Io mi sono ritrovato, da subito con l’impostazione iniziale
di Veltroni, perché lui rappresentava l’idea di partito liberale
di sinistra. Un partito che superava nettamente le due componenti
ideologiche che hanno dato origine al Partito democratico, cioè
quella democristiana di sinistra e quella comunista. Dopo di lui la
cosa si è attenuata, le due componenti di un tempo, benché
ideologicamente defunte, sono tornate ad emergere. Con Renzi è
avvenuta una cosa che non poteva accadere con Veltroni: il
superamento delle tradizioni precedenti. Renzi è il primo leader del
Pd veramente post ideologico”.
Nei giorni scorsi uno dei ‘renziani della prima ora’,
Matteo Richetti, ha dato voce ad un malcontento abbastanza diffuso.
Partendo dalla constatazione che la rottamazione, soprattutto sui
territori e specialmente nella scelte delle candidature, sia
sostanzialmente fallita, ha lanciato un campanello d’allarme: “Il
Pd – ha detto – è un partito senza identità”. E’ d’accordo?
“Non sono d’accordo con l’idea che il Pd sia un partito
senza identità. Sono però d’accordo con il fatto che la
rottamazione, intesa come necessario processo di cambiamento, sui
territori non si sia ancora compiuta. Stiamo però parlando di un
processo che è in corso ed estremamente difficile e complesso.
Tenendo conto che Renzi ha dovuto lavorare sulla rielaborazione di un
messaggio ideologico da una parte e su un’agenda di governo
particolarmente fitta dall’altra, io gli concederei ancora spazio
per affrontare la questione del partito”.
Se c’è un problema di gestione del partito, a fronte di
quanto di buono sta facendo invece il governo, crede che la questione
del doppio incarico premier-segretario debba essere rivista?
“Assolutamente no, non vorrei che si approfittasse di questa
situazione per rimettere mano a quella norma. Tornare alla
distinzione tra capo del governo e capo del partito porterebbe ad un
dualismo che ad un certo punto diventerebbe insanabile con l’uomo
del partito che inevitabilmente vorrebbe esercitare un’azione di
controllo sull’uomo del governo. Io credo che il segretario, anche
delegando, debba trovare le risorse che gli consentano di tenere
sotto controllo la gestione del partito. Soprattutto per quanto
riguarda il rapporto con i poteri locali, c’è bisogno di un
partito forte. Se Renzi riesce a lavorare bene sull’ideologia, a
far passare l’idea che l’essere dei liberali di sinistra è
altrettanto sexy che essere dei rivoluzionari, penso che gli riuscirà
anche meglio il lavoro di ricucitura sui territori. Sì, credo che
Renzi debba ristudiare la forma di interazione personale con il
partito e con le sue componenti”.
Primarie sì, primarie no. L’ultimo caso che sembra aver
mandato un po’ in tilt il partito è proprio quello di Bassolino a
Napoli. Secondo lei le primarie sono ancora uno strumento identitario
del Pd e pensa sia necessario apportare delle modifiche allo statuto
affinché non diano più adito a polemiche?
“Le primarie sono regolate bene, complessivamente. Pensare a
modifiche in questo momento sarebbe folle, ma quando lo si potrà
fare, lontano da appuntamenti elettorali, io una modifica la farei.
Il successo delle primarie sta nel fatto che allargano la platea di
votanti rispetto alla base classica del partito degli iscritti, dei
militanti. Ma perché le primarie possano esercitare questo ruolo ci
deve essere una partecipazione piuttosto elevata di persone. La
modifica che farei è l’inserimento di un quorum: per esempio
potremmo tenere contro del risultato delle primarie solo se andassero
al voto almeno il 10-15% del numero di elettori che ha votato Pd alle
precedenti elezioni. Dopodiché se la partecipazione non supera
quella soglia, il partito ha il diritto-dovere di intervenire e
scegliere il candidato”.
A proposito di primarie, a Milano c’è un dibattito
aperto sulla scelta del candidato sindaco che succederà Giuliano
Pisapia. Uno dei nomi forti è quello del commissario di Expo
Giuseppe Sala. Come giudica la sua (probabile) candidatura?
“Sala è un bravo amministratore, che ha avuto un grande
successo e una grande notorietà e che assicura di stare nell’alveo
politico-culturale del Partito democratico. Perché non Sala dunque?
Io vedo due problemi. Il primo, che spero non si avveri, è che
qualche procuratore assetato di notorietà tiri fuori qualcosa che
può essere successo durante l’organizzazione di una manifestazione
così complessa e così grande come Expo. Se venissero fuori
questioni che riguardano Sala nel bel mezzo delle primarie sarebbe un
danno non di poco conto. Il secondo rischio della candidatura di Sala
è che assomiglia troppo all’uomo per tutte le stagioni, al buon
amministratore di condominio che non ha dietro un afflato politico di
spessore”.
Sono anni che sentiamo parlare della necessità di
rinnovamento della classe dirigente, della necessità per i partiti
di fare selezione e formazione. Di fatto, secondo lei, come si forma
un nuovo gruppo dirigente, solo attorno alle figure dei nuovi leader?
“I nuovi leader sono sicuramente essenziali, ma non bastano alla
formazione di una nuova classe dirigente. Io credo che debba esserci
una grande varietà di esperienze, anche professionali. Mi piace
l’idea di nuovi leader che si dedichino con passione alla politica
ma che abbiano anche altre competenze alla base, gente che non viva e
non sia sempre vissuta di sola politica. Vi è poi la necessità,
secondo me, che nel partito venga costruito un gruppo che si occupa
di elaborazione ideologica e teorica. E’ assolutamente essenziale,
soprattutto per una visione estremamente moderna di partito di
sinistra come quella di Renzi”.
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