mercoledì 9 dicembre 2015

Democrazia a rischio? Catastrofi annunciate (e non vere)


Sabino Cassese
Corriere della Sera 9 dicembre 2015
Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali.
Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione.
Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza.
Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano.
I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particulare . Le elite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste.
Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi.
Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi.

lunedì 7 dicembre 2015

L’Europa deve cambiare

Matteo Renzi
Credo che sia arrivato il momento per le Istituzioni Europee di guardare in faccia la realtà: di sola tattica si muore. Senza un disegno strategico, soprattutto sull’economia e la crescita, i populisti vinceranno prima o poi anche alcune politiche nazionali.
In Italia no. In Italia vinciamo noi perché le riforme stanno finalmente dando frutti: la maggioranza degli italiani sta con chi vuole cambiare, non con chi sa solo lamentarsi.
Io non sono, dunque, preoccupato per l’Italia, ma sono molto preoccupato per l’Europa.
Se l’Europa non cambia direzione subito, le Istituzioni Europee rischiano di diventare (più o meno inconsapevolmente) le migliori alleate di Marine Le Pen e di quelli che provano a emularla.

venerdì 4 dicembre 2015

I numeri dell’immigrazione: i nuovi cittadini italiani superano gli sbarchi


4 dicembre 2015
Lidia Baratta
La Fondazione Ismu ha presentato il 21esimo rapporto sulle migrazioni: i regolari sono il 93%, molti vivono in famiglia, meno di un terzo è di religione musulmana. Diminuiscono gli ingressi per motivi di lavoro. L’Italia è diventata Paese di transito per chi punta verso il Nord Europa
Duecentotrentunomila contro duecentotredicimila. «Tra il 2013 e 2014 sono stati di più gli immigrati approdati alla cittadinanza italiana che quelli sbarcati sulle nostre coste», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di demografia all’Università Bicocca di Milano e responsabile del monitoraggio immigrazione della Fondazione Ismu, che ha presentato il suo ventunesimo rapporto sulle migrazioni in Italia. «In Italia è residente il 14,5% del totale degli stranieri presenti nei 28 Paesi europei. Il nostro Paese va considerato a pieno titolo uno dei grandi Paesi europei di immigrazione». Al 1 gennaio 2015 la popolazione straniera in Italia ammonta a 5,8 milioni di individui, di cui circa 5 milioni (93%) sono regolarmente residenti nel nostro Paese. E quattro su cinque vivono all’interno di nuclei familiari con un progetto di vita stabile. Gli irregolari restano però oltre 400mila, in crescita rispetto ai 350mila dell’anno scorso.
GLI SBARCHI Negli ultimi anni gli sbarchi via mare di migranti e richiedenti protezione internazionale sono aumentati. Ma i numeri sono lontani da un’invasione, come qualcuno vorrebbe far credere. Tanto più che l’Italia più che meta di immigrazione è diventata Paese di transito verso altri Paesi europei. Nel bienno 2013-2014 gli sbarcati sulle nostre coste sono stati 231mila (mentre nel 2012 erano stati meno di 20mila), di cui 170mila sono nel 2014, molti dei quali poi hanno «proseguito la loro traiettoria migratoria verso altri Paesi, soprattutto nel Nord Europa», spiegano i ricercatori di Ismu. Nel corso del 2015 lo scenario è cambiato: a causa della pericolosità della tratta tra la Libia e l’Italia i flussi migratori hanno deviato su altre rotte, dirigendosi soprattutto verso la Grecia, per poi proseguire lungo i Balcani. Dall’inizio del 2015 fino al 20 novembre hanno raggiunto l’Europa via mare 863mila migranti, di cui solo 143mila sono arrivati in Italia. Principalmente eritrei, nigeriani e somali. Un fenomeno in crescita è però quello dei minori non accompagnati. Solo dal 1 gennaio alla fine di ottobre del 2015 in Italia ne sono arrivati 10.820. Di molti di loro si perde traccia.
Il 2014 e il 2015 sono stati anni record per il numero dei morti nelle acque del Mediterraneo: dal 1 gennaio al 24 novembre 2015 3.548 hanno perso la vita in mare. L’aumento degli sbarchi è legato all’aumento dei richiedenti asilo. Le domande di asilo nel nostro Paese nel 2014 sono state 65mila. Nei primi dieci mesi del 2015 sono state 61.545 (in Germania sono più del doppio).
“Dall’inizio del 2015 fino al 20 novembre hanno raggiunto l’Europa via mare 863mila migranti, di cui solo 143mila sono arrivati in Italia. Principalmente eritrei, nigeriani e somali”
IMMIGRAZIONE STABILE Dal 2010, per colpa della crisi economica, gli ingressi di non comunitari con permesso per motivo di lavoro sono scesi dell’84 per cento.
Sono in salita invece i permessi per motivi familiari, che nel 2014 rappresentano il 40% del totale. All’inizio del 2015 il numero di famiglie composte da 3-4 persone tra gli stranieri è superiore al numero dei single. Cifre che «dimostrano che la popolazione straniera che vive in Italia è sempre più radicata sul nostro territorio», dice Blangiardo. Le coppie con figli sono quasi il 60% dei residenti. I single sono il 21 per cento. I minori stranieri sono ormai oltre 1 milione. «Le famiglie si radicano così sul territorio attorno a questi bambini che crescono».
Uno straniero su 16 è presente nel nostro Paese sin dalla nascita, mentre oltre il 45% è arrivato prima del 2003, oltre dieci anni fa. Crescono anche i residenti con permesso di soggiorno di lungo periodo. Negli ultimi quattro anni gli extracomunitari con questo permesso hanno superato il 56 per cento. La quota più alta tra albanesi, marocchini ed egiziani.
NUOVI CITTADINI Le acquisizioni di cittadinanza sono in aumento, soprattutto da parte di interi gruppi familiari. Nel biennio 2013-2014, 231mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana, di cui 130mila nel 2014. Nel 2012 erano poco più di 60mila. Un nuovo italiano su tre ha meno di 15 anni.
I MUSULMANI NON SONO LA MAGGIORANZA Gli stranieri aderenti all’Islam rappresentano meno di un terzo del totale degli stranieri, circa un milione e 700mila unità. Poco più di un terzo è rappresentato da cristiani, per metà cattolici, ma crescono anche ortodossi e copti.
“Gli stranieri aderenti all’Islam rappresentano meno di un terzo del totale degli stranieri, circa un milione e 700mila unità. Poco più di un terzo è rappresentato da cristiani, per metà cattolici”
IL MERCATO DEL LAVORO DEGLI STRANIERI Dopo un calo nel primo trimestre del 2015, l’occupazione tra gli immigrati è tornata a crescere, aumentando di 50mila unità rispetto al 2014. Gli occupati stranieri hanno superato la soglia del 10% sul totale degli occupati. Ma se prima della crisi gli stranieri godevano di tassi di occupazione più elevati rispetto agli italiani, questo vantaggio si è via via ridotto, passando dal 65,5% del 2005 al 59,2% del 2015. Gli italiani sono fermi al 56 per cento. Cresce anche la disoccupazione, che è arrivata al 16,9 per cento. «Sempre più», dicono dall’Ismu, «l’Italia si trova così a condividere con gli altri grandi Paesi europei la duplice sfida rappresentata da un lato dagli immigrati che perdono il loro lavoro e dai nuovi immigrati che faticano a trovarne uno».
Tra gli stranieri, gli inattivi sono 1,2 milioni, di cui oltre il 70% è costituito da donne, per via della «difficoltà che trovano nel conciliare l’impegno lavorativo con la necessità di accudire i figli o persone non autosufficienti». Aumentano i Neet anche tra i giovani stranieri, toccando punte preoccupanti soprattutto in alcune comunità. Sono Neet quasi otto donne su dieci nel caso del Bangladesh, quasi sette su dieci nel caso del Pakistan, Marocco ed Egitto.
Ma per gli stranieri che arrivano in Italia le possibilità di carriera sono poche, anche per i più istruiti. Oltre il 70% è occupato come operaio, solo l’1% occupa posti dirigenziali. Dopo il primo lavoro, quasi la metà degli stranieri non ne trova uno migliore. Anzi, quasi un terzo peggiora la propria condizione lavorativa. E negli ultimi anni è aumentata la quota di immigrati occupata nell’agricoltura, con fenomeni diffusi di sottoretribuzioni e lavoro nero. Unica novità: l’imprenditoria straniera, cresciuta del 7% rispetto all’anno precedente.
Si conferma l’immagine dell’Italia come un Paese che attrae soprattutto manodopera poco qualificata: il 42% degli stranieri ha un livello di istruzione basso, solo il 12% alto, contro una media europea del 31 per cento. L’immigrazione nel tempo è divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la fascia di lavori poco qualificati. Non a caso, quattro immigrati su dieci guadagnano meno di 800 euro al mese. Soltanto lo 0,6% ha una busta paga superiore a 2mila euro.
“L’immigrazione nel tempo è divenuta il bacino di reclutamento normale per tutta la fascia di lavori poco qualificati, concorrendo in questo modo ad alimentare un processo di complessivo peggioramento delle condizioni di lavoro“
GLI STRANIERI TRA I BANCHI Nell’anno scolastico 2014/2015 gli studenti stranieri erano 805.800. Ma la percentuale di coloro che abbandonano la scuola, 34,4%, è ancora troppo alta. Così come è alto il tasso dei ragazzi sotto i 15 anni che non riescono a raggiungere un livello sufficiente in lettura, matematica e scienze.
Tra il 2010 e il 2014 le politiche di integrazione scolastiche in Italia sono peggiorate, tant'è che in questi quattro anni il nostro Paese è passato dal 19esimo posto al 23esimo. Gli studiosi di Mipex (Migrant Integration Policy Index) sottolineano la difficoltà che ha la scuola italiana nel rispondere ai bisogni dei differenti target di allievi stranieri, oltre all'assenza di misure per inserire i neo-arrivati più svantaggiati.
“DEFICIT DI INTEGRAZIONE” «Non dobbiamo sottovalutare il deficit di integrazione degli immigrati nei Paesi europei», spiega Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu. «È anche questo che induce a sposare il terrorismo di matrice islamica, un malessere profondo che può indurre i giovani, anche quelli della classe media, a sposare le idee estremiste».
«Non dobbiamo sottovalutare il deficit di integrazione degli immigrati nei Paesi europei. È anche questo che induce a sposare il terrorismo di matrice islamica, un malessere profondo che può indurre i giovani, anche quelli della classe media, a sposare le idee estremiste»
Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu

giovedì 3 dicembre 2015

California, tutte le nostre paure in una sola strage

Vittorio Zucconi 

Astio verso i colleghi? Una pista terroristica? Tante incognite nella strage di San Bernardino di Syed Rizwan Farook e sua moglie Tashfeen Malik. Ma la certezza è che nell'America delle armi libere l'impulso alla violenza si trasforma in sangue. Tra il 2001 e il 2013 le armi da fuoco hanno ucciso oltre quattrocentomila americani (i dati sono dei Centers for Disease Control and Prevention). Nel 2015 le sparatorie sono state ben 355, mentre i morti in un anno raggiungono i 33mila.

Gli investimenti sono arrivati: la ripresa dov’è?


Tortuga dal blog l'inkiesta
Il governo Renzi ha deciso di rinunciare alla redistribuzione e si è lanciato su riforme per aumentare la produttività e la crescita. Ma se gli investimenti finalmente tornano a salire, ora servono segnali dalla produttività per consolidare la ripresa dopo un ventennio bruciato
Stefano Fassina ha definito la politica economica di Matteo Renzi un “liberismo da happy days”, Berlusconi lo accusa di “copiare il nostro programma”, Brunetta e i Cinque Stelle la giudicano fallimentare e incoerente. In effetti, le ricette economiche di Renzi non erano chiare fin dall’inizio, hanno piuttosto preso forma col proseguire degli eventi e dell’azione di governo, passo dopo passo, cercando di mantenere un equilibrio politico precario e cogliendo le occasioni quando si presentavano.
Questa politica economica, giudicata da alcuni un po’ “à la carte”, si è lanciata con forza su riforme riconosciute come “prioritarie”, “di buon senso”, “necessarie” per il rilancio dell’economia in termini produttività e crescita. Piuttosto che da una volontà di redistribuzione della ricchezza o di difesa di particolari interessi o classi sociali, la Renzinomics sembra partire dal concetto che in vent’anni di mancate riforme l’economia italiana sia rimasta ben al di sotto della sua frontiera di efficienza, lasciando ampio spazio per provvedimenti “pareto improving”, in grado nel lungo periodo di alzare tutte le barche, aumentando la torta per tutti. Pochi preconcetti (si parte “da sinistra” ma anche “parlando alla parte più produttiva del Paese”), molto focus sui risultati. Per questo forse il dibattito sui dati è più infiammato del solito: la pura efficacia in termini economici della politica di Renzi è per molti la discriminante fondamentale nel giudizio sul governo.
“Secondo l’Ocse, se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”
Purtroppo, i dati non sono così semplici da interpretare, ma sono facili da estrapolare e sfoderare in un discorso o in un “cartello” di un programma televisivo. Crediamo invece sia utile tirare un attimo le fila riguardo ai fondamentali della nostra economia: crescita, debito e finanza pubblica, lavoro, diseguaglianza e povertà saranno i capitoli su cui costruiremo questa analisi. Facciamo quindi una panoramica volutamente generale, confrontando l’Italia con i partner europei, guardando agli ultimi decenni e utilizzando qualche stima nel breve periodo da fonti autorevoli.
In termini reali l’Italia ha sicuramente recuperato terreno rispetto ai principali partner europei. La crescita del nostro Paese raggiungerà livelli di poco inferiori alla Germania nel 2016, superando la Francia. Padoan you-tuber annuncia questo risultato come il successo della politica di riforme, che ha restituito credibilità e capacità di innovare al Paese. Questa visione è in buona parte condivisa da molti analisti, dalla Commissione Europea e dall Ocse, secondo cui “se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”. Tra queste riforme, si citano la riforma del processo civile, della Pa, il credito d’imposta R&S, ma sopratutto il Jobs Act. Secondo l’Ocse, la riforma del lavoro “traina la crescita”, puntando a sbloccare le assunzioni, a favorire l’investimento in formazione, a rendere più flessibile il mercato del lavoro a fronte però di maggiori sussidi di disoccupazione.
“Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività. Gli investimenti negli ultimi sei anni sono crollati, con una ripresa solo negli ultimi trimestri”
Bisogna tuttavia considerare i fattori esterni di cui ha beneficiato la nostra economia, per esempio il basso prezzo del petrolio, che per un Paese con poche risorse energetiche come il nostro significa un crollo nei costi di produzione, ed il QE, che garantisce bassi interessi sul debito pubblico e un euro debole a favore dell’export. Inoltre, come spiegato in questo articolo, le manovre “espansive”, ovvero che utilizzano un deficit di bilancio come successo nel 2014 e nel 2015, per definizione danno una spinta “extra” al Pil che in futuro dovrà essere rimodulata, per evitare l’aumento esponenziale del debito. Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività.
Investimenti e produttività erano in effetti due punti chiave del programma Renzinomics: con crescita demografica nulla, investire nell’innovazione ed aumentare la produttività rappresentano l’unica strada per poter crescere nel lungo periodo. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati ad un ritmo medio di 80 miliardi l’anno: le aziende ed i privati hanno congelato gli investimenti, lo Stato ha ridotto la spesa in conto capitale e gli investitori stranieri sono stati spaventati da un Paese inefficiente e a rischio default. Negli ultimi trimestri vi è stato tuttavia un netto miglioramento: da gennaio gli investimenti hanno ricominciato a crescere fino al 6% a trimestre e l’Italia è tornata tra le prime 20 mete per gli investimenti esteri. Ora bisognerà vedere se anche la produttività reagirà ai nuovi investimenti e alle riforme che, come quella del lavoro, hanno l’esplicito obiettivo di aumentare la formazione dei lavoratori e l’efficienza del mercato del lavoro.
Se questo governo ha davvero cambiato verso alla crescita del Paese si vedrà quindi solo nei prossimi anni. Tuttavia, allargando lo sguardo ai dati decennali, dobbiamo renderci conto di come l’Italia esca da un ventennio completamente bruciato: in termini reali, il Pil si attesta su una media di -0,75% tra 2001 e 2014, peggio della Grecia. Il fatto che dopo decenni di stagnazione e i duri colpi inflitti della doppia crisi il nostro Paese stia reagendo testimonia, come dice Padoan, la resilience della nostra economia. In aggiunta a questo, bisogna però riconoscere i meriti di un contesto politico mutato rispetto al Berlusconi deriso in Europa o alle manovre d’emergenza del governo Monti, insieme a una politica economica giudicata favorevole alla crescita dalla maggior parte degli addetti ai lavori e che forse permette una maggiore fiducia, perseguendo esplicitamente un obbiettivo di crescita della produttività.

martedì 1 dicembre 2015

“Diamogli tempo ma Renzi si occupi di più del partito”. Parla Michele Salvati


Stefano Cagelli
L'Unità 30 novembre 2015
Il partito, l’ideologia, le primarie, il doppio ruolo di premier-segretario, il rinnovamento: otto anni dopo la sua nascita, il punto sul Pd con uno dei suoi principali teorici
È stato uno dei teorici più autorevoli del Partito democratico. Otto anni dopo gli abbiamo chiesto quanto di quell’idea originaria ci sia nel partito di oggi. Michele Salvati, economista e politologo vede il bicchiere mezzo pieno: “Il Pd di oggi si avvicina molto a quello che ci eravamo immaginati”. Non nasconde le difficoltà e percepisce tutta la delicatezza del momento. “Diamo tempo a Renzi, ma lui si occupi di più del partito”. Nella nostra chiacchierata parliamo di primarie e di rottamazione, del ruolo del premier-segretario e della necessità di una nuova elaborazione ideologica.
Professore, otto anni dopo la nascita del Pd, che partito abbiamo? Si avvicina a quella che era la sua idea originaria?
“Anche se non coincide perfettamente con l’idea di partito che avevamo allora, si può dire che si avvicina molto. Crollate le grandi ideologie del passato, dal comunismo alla visione dei democristiani di sinistra, l’ideale comune alla base della nascita del Partito democratico doveva essere quello che io chiamo ‘liberalismo di sinistra’. E così è stato, in questo senso si può dire che quello che abbiamo oggi si avvicina all’idea di partito riformista che avevamo otto anni fa”.
In questi otto anni il Partito democratico è cambiato molto e molto rapidamente. Dalla brevissima ma intensa suggestione del Partito del Lingotto con Veltroni alla ditta di Bersani, fino al partito del cambiamento di Renzi basato sul concetto forte di rottamazione. In quale di queste impostazioni si è ritrovato di più?
“Io mi sono ritrovato, da subito con l’impostazione iniziale di Veltroni, perché lui rappresentava l’idea di partito liberale di sinistra. Un partito che superava nettamente le due componenti ideologiche che hanno dato origine al Partito democratico, cioè quella democristiana di sinistra e quella comunista. Dopo di lui la cosa si è attenuata, le due componenti di un tempo, benché ideologicamente defunte, sono tornate ad emergere. Con Renzi è avvenuta una cosa che non poteva accadere con Veltroni: il superamento delle tradizioni precedenti. Renzi è il primo leader del Pd veramente post ideologico”.
Nei giorni scorsi uno dei ‘renziani della prima ora’, Matteo Richetti, ha dato voce ad un malcontento abbastanza diffuso. Partendo dalla constatazione che la rottamazione, soprattutto sui territori e specialmente nella scelte delle candidature, sia sostanzialmente fallita, ha lanciato un campanello d’allarme: “Il Pd – ha detto – è un partito senza identità”. E’ d’accordo?
“Non sono d’accordo con l’idea che il Pd sia un partito senza identità. Sono però d’accordo con il fatto che la rottamazione, intesa come necessario processo di cambiamento, sui territori non si sia ancora compiuta. Stiamo però parlando di un processo che è in corso ed estremamente difficile e complesso. Tenendo conto che Renzi ha dovuto lavorare sulla rielaborazione di un messaggio ideologico da una parte e su un’agenda di governo particolarmente fitta dall’altra, io gli concederei ancora spazio per affrontare la questione del partito”.
Se c’è un problema di gestione del partito, a fronte di quanto di buono sta facendo invece il governo, crede che la questione del doppio incarico premier-segretario debba essere rivista?
“Assolutamente no, non vorrei che si approfittasse di questa situazione per rimettere mano a quella norma. Tornare alla distinzione tra capo del governo e capo del partito porterebbe ad un dualismo che ad un certo punto diventerebbe insanabile con l’uomo del partito che inevitabilmente vorrebbe esercitare un’azione di controllo sull’uomo del governo. Io credo che il segretario, anche delegando, debba trovare le risorse che gli consentano di tenere sotto controllo la gestione del partito. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i poteri locali, c’è bisogno di un partito forte. Se Renzi riesce a lavorare bene sull’ideologia, a far passare l’idea che l’essere dei liberali di sinistra è altrettanto sexy che essere dei rivoluzionari, penso che gli riuscirà anche meglio il lavoro di ricucitura sui territori. Sì, credo che Renzi debba ristudiare la forma di interazione personale con il partito e con le sue componenti”.
Primarie sì, primarie no. L’ultimo caso che sembra aver mandato un po’ in tilt il partito è proprio quello di Bassolino a Napoli. Secondo lei le primarie sono ancora uno strumento identitario del Pd e pensa sia necessario apportare delle modifiche allo statuto affinché non diano più adito a polemiche?
“Le primarie sono regolate bene, complessivamente. Pensare a modifiche in questo momento sarebbe folle, ma quando lo si potrà fare, lontano da appuntamenti elettorali, io una modifica la farei. Il successo delle primarie sta nel fatto che allargano la platea di votanti rispetto alla base classica del partito degli iscritti, dei militanti. Ma perché le primarie possano esercitare questo ruolo ci deve essere una partecipazione piuttosto elevata di persone. La modifica che farei è l’inserimento di un quorum: per esempio potremmo tenere contro del risultato delle primarie solo se andassero al voto almeno il 10-15% del numero di elettori che ha votato Pd alle precedenti elezioni. Dopodiché se la partecipazione non supera quella soglia, il partito ha il diritto-dovere di intervenire e scegliere il candidato”.
A proposito di primarie, a Milano c’è un dibattito aperto sulla scelta del candidato sindaco che succederà Giuliano Pisapia. Uno dei nomi forti è quello del commissario di Expo Giuseppe Sala. Come giudica la sua (probabile) candidatura?
“Sala è un bravo amministratore, che ha avuto un grande successo e una grande notorietà e che assicura di stare nell’alveo politico-culturale del Partito democratico. Perché non Sala dunque? Io vedo due problemi. Il primo, che spero non si avveri, è che qualche procuratore assetato di notorietà tiri fuori qualcosa che può essere successo durante l’organizzazione di una manifestazione così complessa e così grande come Expo. Se venissero fuori questioni che riguardano Sala nel bel mezzo delle primarie sarebbe un danno non di poco conto. Il secondo rischio della candidatura di Sala è che assomiglia troppo all’uomo per tutte le stagioni, al buon amministratore di condominio che non ha dietro un afflato politico di spessore”.
Sono anni che sentiamo parlare della necessità di rinnovamento della classe dirigente, della necessità per i partiti di fare selezione e formazione. Di fatto, secondo lei, come si forma un nuovo gruppo dirigente, solo attorno alle figure dei nuovi leader?
“I nuovi leader sono sicuramente essenziali, ma non bastano alla formazione di una nuova classe dirigente. Io credo che debba esserci una grande varietà di esperienze, anche professionali. Mi piace l’idea di nuovi leader che si dedichino con passione alla politica ma che abbiano anche altre competenze alla base, gente che non viva e non sia sempre vissuta di sola politica. Vi è poi la necessità, secondo me, che nel partito venga costruito un gruppo che si occupa di elaborazione ideologica e teorica. E’ assolutamente essenziale, soprattutto per una visione estremamente moderna di partito di sinistra come quella di Renzi”.