Sono passati 42 anni dall’assassinio dello statista
democristiano. Una vicenda ancora parzialmente oscura, ma che ha
offuscato la parabola di un uomo che è stato il vero perno
dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia
di Guido FORMIGONI
Docente di Storia contemporanea - Prorettore Iulm
Docente di Storia contemporanea - Prorettore Iulm
La vicenda ancora parzialmente oscura del sequestro e
dell’assassinio di Moro, di cui ricordiamo in questo periodo i 42
anni, ha oscurato per molto tempo la sua parabola di politico e di
statista. Nella memoria degli italiani resta la R4 amaranto con il
suo mesto carico, non un percorso di vent’anni in cui Aldo Moro fu
il vero perno dell’evoluzione politica della Repubblica in Italia.
La sua morte tragica ha dato il suggello definitivo a un ruolo
storico che egli pensava nel senso dell’evoluzione, della crescita,
del pacifico e ordinato movimento verso obiettivi condivisi. E che
invece è stato segnato dalla contrapposizione aspra e
dall’incomprensione sul fronte esterno, ma anche da una interna
tensione e da una drammaticità esistenziale crescente, di cui
abbiamo la possibilità di cogliere solo alcuni bagliori.
Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può
essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei giudizi
storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare né
l’originalità delle sue intenzioni e delle sue motivazioni, né
gli esiti di questo impegno. In termini di progetto, il suo pervicace
tentativo fu quello di rendere la «Repubblica dei partiti» capace
di realizzare quel modello ideale che restò sempre la sua stella
polare: lo Stato democratico-sociale avanzato delineato nella prima
parte della Costituzione del 1948. Lo perseguì costruendo le
strategie del primo centro-sinistra e poi della «solidarietà
nazionale» degli anni 1976-’78: allargare a sinistra il consenso,
quindi, tentando però di evitare che si creassero contraccolpi e
rotture. Egli riteneva indispensabile che non si divaricasse dal
governo del Paese il peso di quel moderatismo italiano che era a
rischio di involuzioni destrorse e financo autoritarie: per questo fu
un sostenitore continuo dell’unità della Dc. In termini di
risultati, siamo sempre più consapevoli che la sua scomparsa
coincise con la fine di un periodo tutto sommato evolutivo della
storia repubblicana, cui fece seguito una crisi sempre più grave
della politica, precipitata infine nel baratro di Tangentopoli.
Cosa resta ai giorni nostri di quella esperienza e della lezione
di quell’impegno? Il suo magistero intellettuale è vasto. Si
tratta di scritti tutt’affatto che difficili e oscuri (come una
certa retorica polemica è usa a dire), magari un po’ lenti e
noiosi per i ritmi moderni, ma molto logici e addirittura pedagogici
nei loro contenuti.
Certamente, a tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai
suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché
purtroppo la brusca troncatura della sua presenza non ha aiutato una
possibile continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della
sua ispirazione. E ancor di più, perciò, molta parte delle lezioni
che scaturiscono dalla sua vita ci sembrano segnate dall’inattualità
di una stagione molto lontana. Non ci sono più i riferimenti vitali
della politica di Moro: il quadro internazionale della guerra fredda,
i partiti di massa, una Chiesa capillarmente viva negli strati
popolari, una società in tumultuoso e ottimistico sviluppo.
Ma credo senz’altro che la società e la politica attuale
potrebbero imparare parecchio proprio da questa inattualità:
confrontarsi con qualcosa di totalmente diverso dovrebbe aiutare a
comprendere i limiti del presente. Pensiamo alla sua capacità di
intuire i grandi problemi storici senza farsi condizionare troppo
dall’attualità contingente, alla fiducia nella lentezza dei
processi più che nell’apparente rottura del decisionismo astratto,
all’uso mite della parola e della ragione per ricondurre sempre le
tensioni su un terreno di dialogo civile, all’arte della mediazione
non finalizzata semplicemente alla propria sopravvivenza ma
all’evoluzione lenta di un sistema fragile come la democrazia
italiana, alla sua tensione interiore nell’essere fedeli al
Vangelo assumendo la responsabilità di scegliere nella storia i
passi ad esso coerenti (in una sorta di permanente «principio di non
appagamento» verso una meta di giustizia e di libertà). Sono
elementi del passato? Forse, ma quanto potrebbero insegnare all’oggi!
Nessun commento:
Posta un commento