Aldo Moro, “Discorso per il trentennale della Resistenza”,
Bari, 25 Aprile 1975
L’italia rivive cosi una drammatica ma esaltante esperienza ed
approfondisce la sua identità nazionale. Quella identità nazionale
appunto che si rivela in momenti di svolta, destinati ad esercitare
una decisiva influenza nella storia dei popoli.
La Resistenza fu
uno di questi momenti. Ad essa dunque, ancora oggi, facciamo
riferimento. Ad essa ci rivolgiamo come al luminoso passato, sul
quale è fondato il nostro presente ed il nostro avvenire.
La Resistenza fu lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso
alla conquista della sua libertà. Ma essa non fu solo un moto
patriottico-militare contro l’occupante tedesco, destinato, perciò,
ad esaurirsi con la fine del conflitto mondiale. La Resistenza viene
da lontano e va lontano. Affonda le sue radici nella storia del
nostro Stato risorgimentale. E’ destinata a caratterizzare l’epoca
della rinnovata democrazia italiana. Un dato storico è da mettere in
rilievo: alla Resistenza parteciparono, spontaneamente, larghe forze
popolari, e non solo urbane, ma della campagna e della montagna.
Furono coinvolti ad un tempo il proletariato di fabbrica, che
difendeva gli strumenti essenziali del suo lavoro, e la realtà
contadina.
Alle azioni gloriose delle formazioni partigiane e del nostro
corpo di liberazione, schierati in battaglia, si accompagnò
un’infinità di episodi spontanei, il più delle volte oscuri o
poco noti, che rappresentarono l’immediata risposta delle
popolazioni alle sopraffazioni delle brigate nere o dell’esercito
nazista, una risposta data anche fuori dai centri urbani, nei più
sperduti paesi rurali, nelle zone collinari e pedemontane. Questa
Resistenza più ramificata e diffusa, che non è stata classificata
tra le operazioni delle divisioni partigiane direttamente impegnate
nello scontro armato, si è collegata molto spesso al ricordo delle
lotte lunghe e tenaci che le leghe, contadine avevano condotto in
tante regioni: dal Veneto alla Toscana, all’Emilia, alle Puglie,
contro lo squadrismo agrario e le violenze nazionalistiche o
fascistiche degli anni venti e anche oltre. Ma non era mero ricordo,
bensì un dato vitale, una sorta di impegno civile, che ha immesso
nella Resistenza fattori sociali connessi con la storia delle grandi
masse popolari, a lungo escluse dalla partecipazione alla vita dello
Stato unitario. La Resistenza supera cosi il limite di una guerra
patriottico-militare, di un semplice movimento di restaurazione
prefascista, come pure da talune parti si sarebbe allora desiderato.
Diventa un fatto sociale di rilevante importanza.
A lungo si è ripetuto che alla piena esplicazione della
Resistenza ha nociuto il peso negativo rappresentato dal Mezzogiorno,
che non ha compiuto l’esperienza della lotta partigiana del Nord
Italia. Gli storici tendono ora a correggere questa visione
dualistica, di un Nord, proiettato verso una peraltro indefinita
rivoluzione, e un Sud, ancora una volta “palla al piede” dello
sviluppo italiano. Il rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza è
complesso. Non va dimenticato, nello sfondo, ciò che pagarono le
campagne del Mezzogiorno al fascismo. E’ vero, fu avviata una
politica di bonifiche che consentì in un secondo tempo la formazione
di ceti agrari più progrediti, meno attaccati alla esclusiva
conservazione della rendita. Ma quel poco che si fece sotto il
fascismo per il Sud, ebbe come corrispettivo il blocco
dell’emigrazione interna, una politica di bassi salari,
sperequazioni tributarie e pesanti vincoli contrattuali nelle
campagne.
Il programma fascista di un’Italia rurale ed eroica portò in
realtà ad un eccesso di popolazione contadina, costretta a vivere
entro strutture economiche rimaste arcaiche e statiche e perciò
prive, di impulsi creativi. Crollato il fascismo e liberato il
Mezzogiorno dalle truppe alleate, non per caso ancora una volta
furono le campagne a muoversi. Si trattava della lotta al latifondo e
della riforma agraria, cioè di una delle esperienze più
significative di questo dopoguerra, che ha consentito lo svilupparsi
di un grande movimento contadino nel Sud ed ha impegnato i governi in
un notevole sforzo, nel suo insieme positivo. Ma, tornando agli anni
cruciali che vanno dalla fine del ’43 a tutto il ’45, non ci
sembra si possa dire che il Mezzogiorno fu una remora alla
realizzazione degli ideali della Resistenza. Non vanno dimenticati
gli intellettuali meridionali schierati sul fronte della libertà.
Eppoi parlano le cose. Il Sud ha dato con profonda convinzione il suo
apporto alla guerra di liberazione e ai primi atti dei governi della
coalizione antifascista; ha contribuito al crollo degli eserciti
nazifascisti, facilitando l’avanzata di quelli alleati; ha visto la
nascita e l’affermarsi delle prime libere manifestazioni politiche
dei partiti antifascisti; ha scritto con la insurrezione napoletana
una tra le pagine più belle della Resistenza. (…)
Si è anche talvolta affermato che la Resistenza sarebbe stata
tradita nel suo significato più autentico e che il graduale ritorno
alle vecchie strutture dello stato prefascista avrebbe sancito una
continuità statale di vecchio tipo. Se la polemica non fa velo,
credo possa apparire evidente a tutti il grande salto di qualità che
si è compiuto passando dallo Stato prefascista a quello nato dalla
Resistenza sotto il profilo sia della struttura sia dei fini
istituzionali. Non sono differenze di superficie, ma di sostanza, che
riguardano anzitutto il processo di formazione e articolazione della
volontà politica nazionale attraverso i partiti di massa, la
consistenza democratica di base dello Stato, il suo ruolo di
propulsione e di guida nella vita economica e sociale. Se vi furono
aspetti di restaurazione, se vi furono remore e momenti anche di
arresto nella realizzazione delle premesse ideali della Resistenza,
ciò non può farci dimenticare il progresso compiuto e il senso
storico-culturale della opzione politica in favore della democrazia
che fu alle origini della fondazione del nuovo Stato. (…)
Con tutte le cautele e le gradualità imposte dalle esigenze della
strategia alleata e dalla crescente diffidenza che divise ben presto
le potenze occidentali dall’Unione Sovietica, la Resistenza fu
indubbiamente molto di più di una operazione patriottico-militare.
Essa agì in profondità nella vita politica del nostro Paese, dando
una nuova dimensione allo Stato, arricchendo la vita democratica e
creando una originale mentalità antifascista, la quale superò
quella formale e parlamentaristica che aveva in certo modo
caratterizzato in precedenza la opposizione al fascismo.
Lo Stato al quale i partiti democratici hanno dato vita è lo
Stato che lo spirito della Resistenza e le circostanze oggettive
hanno reso possibile in una valutazione globale di tutti gli
interessi del Paese, interessi nazionali ed internazionali, immediati
e in prospettiva. E certo occorreva uno Stato nel quale si
riconoscesse il maggior numero possibile di cittadini, che fosse
capace, su questa base, di ricostruire l’Italia, dandole un assetto
stabile di libertà e di giustizia.
Sono questi, che ho appena ricordati, momenti della nostra vicenda
trentennale sui quali è ancora aperto il giudizio storico, aperta la
valutazione politica. Credo tuttavia che, pur partendo da punti di
vista diversi e nella comprensibile divergenza d’opinioni sulle
strade seguite e sulle soluzioni date in alcuni stretti passaggi
della nostra vicenda nazionale, una cosa si possa dire e cioè che i
partiti i quali si richiamano alla Resistenza e si riconoscono nella
Costituzione repubblicana, ciascuno secondo la propria responsabilità
ed il proprio ruolo, hanno guardato alle istituzioni democratiche, da
presidiare ed accreditare nella coscienza del Paese. Via via, nel
corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e
gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi
organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha
accettato lo Stato nato dalla Resistenza. Si sono conciliati alla
democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e
chiusure classiste. Ma, soprattutto, sono entrati a pieno titolo
nella vita dello Stato ceti lungamente esclusi.
Grandi masse di popolo guidate dai partiti, dai sindacati, da
molteplici organizzazioni sociali, oggi garantiscono esse stesse
quello Stato che un giorno considerarono con ostilità quale
irriducibile oppressore. Se tutto questo è avvenuto nella lotta, nel
sacrificio, è merito della Resistenza, di un movimento cioè che si
è mosso nel senso della storia, mettendo ai margini l’opposizione
antidemocratica e facendo spazio alle forze emergenti e vive della
nuova società.
Certo, l’acquisizione della democrazia non è qualche cosa di
fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per
tutte. Bisogna garantirla e difenderla, approfondendo quei valori di
libertà e di giustizia che sono la grande aspirazione popolare
consacrata dalla Resistenza.
Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima
affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di
comportamenti coerenti. Non è solo un dato della coscienza, il
risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale
della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine
tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa,
sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e
reazione.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
In questo ambito ed in questo spirito è responsabilità politica
dei partiti l’effettuare quelle scelte di indirizzi, di contenuti e
di schieramenti ritenuti meglio rispondenti agli interessi del
Paese.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.
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