9 aprile 2019
Alberto De Bernardi
presidente di Libertà Eguale
Dopo diversi anni nei quali Bologna aveva perduto la sua fama di
laboratorio della vita politica nazionale conquistate a ragione negli
anni dell’Ulivo, tra il 7 e l’8 di marzo del 2019 essa è tornata
sulla scena come il centro della vita politica nazionale.
La vecchia sinistra riunita a Bologna
In quei giorni si è svolto innanzitutto il I° congresso di
Articolo 1 il partitino di Bersani e D’Alema, inutilmente
coordinato da Speranza, che ha aperto i battenti al canto
dell’Internazionale e del pugno chiuso militante, ha aderito al
comitato Lula libero, evocando il tradizionale terzomondismo della
tradizione cattocomunista e si è concluso esaltando la necessità di
una sinistra radicale sul modello Sanders-Corbyn e l’impegno a dare
vita a un partito socialista e ambientalista: rosso-verde. Al di la
dei temi discussi il focus del congresso era sdoganare l’alleanza
con il Pd, che seppur nel dibattito sia stata sottoposta a mille
distinguo e alla richiesta di mille autocritiche, è l’unica cosa
che i suoi dirigenti possono fare se non vogliono scomparire.
Le lacrime di Merola e la tenda di Prodi
Ai margini del congresso un intervento di saluto del sindaco
Merola che ha rivendicato, tra le lacrime, la necessità del
ritorno del “trattino” tra centro e sinistra, perché l’
integrazione – centrosinistra senza trattino – è fallita. Ad
anticipare queste tematiche due dichiarazioni di Prodi – cha deve
essere uscito dalla tenda perché ormai imperversa quotidianamente
dopo anni di burbanzoso silenzio – a sostegno dell’alleanza tra
il Pd di Zingaretti e la sinistra di Mdp perché non solo “uniti si
vince” e lui lo aveva già capito vent’anni fa costruendo
l’Ulivo, ma soprattutto il Pd finisce di essere il partito dei
ricchi e può tornare dopo Renzi ad essere il partito del poveri: a
corredo, i ripetuti inviti ai riformisti della deputata Zampa,
portavoce del “professore” e nulla più, di togliere il disturbo
dal Pd.
Una rappresentazione farsesca della sinistra
Un vecchio saggio nato a Treviri due scoli fa diceva che spesso la
storia quando si ripete diventa una farsa e aveva colto nel segno.
Infatti quella che si è verificata a Bologna e appunto una
rappresentazione farsesca della sinistra, che allegramente rispolvera
i vecchi miti senza sapere di essere “perduta”: una sopravvivenza
del XX secolo che oltre a non contare nulla sul piano elettorale (il
partito di Prodi alle elezioni prese lo 0,6 e Art.1 à dato all’1,5%
in tutti i sondaggi) ha la pretesa di possedere la chiave della
riscossa, presentando vecchia ricette già abbondantemente sconfitte
come fulminati novità, ovviamente con il corteo di giornaloni e
giornalini osannanti.
Una visione prigioniera dello scontro destra-sinistra
In effetti dal congresso di Articolo 1 non è uscito niente di
interessante e nuovo perché quel campo di forze è prigioniero di
una visione del mondo che non riesce a liberarsi del classico scontro
tra destra e sinistra, che riproduce, come ha ben messo in luce
Maurizio Ferrera su “la Lettura” del 24.3.2019, la vecchia
dicotomia tra stato e mercato su cui si erano collocate le
appartenenze politiche nel corso del XX secolo: alla destra
mercatista/liberista si contrapponeva una sinistra che vedeva nello
stato lo strumento per controllare le forze distruttive del
capitalismo e garantire eguaglianza e inclusione sociale.
Erano il baricentro politico della “Grande trasformazione”
analizzata da Polanyi nel fuoco della seconda guerra mondiale e che
ha sorretto il lungo ciclo fordista conclusosi alla fine degli anni
settanta.
Stato e Mercato si sono combinati in maniera dinamica
Ma per quarant’anni mercato e stato seppur contrapposti
nell’immaginario politico, si sono combinati in maniera dinamica
creando una sosta di capitalismo statalmente organizzato fondato
sull’egemonia americana e lo stato nazionale, che affondava le sue
basi sociali in un compromesso progressista tra le due classi
dominanti della società industriale: la borghesia e il proletariato.
La sovrapposizione tra destra e sinistra da un lato e mercato e stato
dall’altro reggeva, anche se l’ordine del mondo occidentale era
fondato su una collaborazione che, al di la dei conflitti sociali
anche aspri che lo attraversavano, presupponeva il comune
riconoscimento della crescita e del benessere collettivo come
principi fondanti e irrinunciabili della stabilità politica
democratica.
Ma la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale hanno
radicalmente modificato questo scenario obbligando a ricollocare la
dicotomia destra-sinistra lontana da quell’altra: non si tratta
della fine della contrapposizione tra destra e sinistra di cui
parlano i populisti, ma, come già ricordava Giddens, di ridisegnare
il profilo ideale e progettuale della sinistra oltre la
contrapposizione tra stato e mercato, per il venir meno dello stato
nazionale e per il moltiplicarsi delle fratture sociali oltre quelle
di classe che hanno perso centralità.
Oltre la contrapposizione tra stato e mercato
Questo è il cammino difficile, ma imprescindibile, da
intraprendere già dalla fine del secolo scorso se la sinistra vuole
ancora rappresentare il cambiamento sociale e le speranze degli
ultimi, che costituiscono le origini della sua storia ormai
bisecolare. E un cammino ancora in corso, che ha seguito itinerari
poco lineari, che ha visto crescere fratture e contrapposizioni
drammatiche tra diverse anime e diverse visioni, vittorie e sconfitte
brucianti, e il traguardo ancora non si vede.
Il modello consociativo e l’eccezione italiana
La sinistra italiana costituisce un esempio di scuola di questa
difficoltà a uscire dalle sua vecchia ortodossia che è stata
speculare a quella della destra legata a un capitalismo familista
alla permanente ricerca di protezioni pubbliche. Paradossalmente, la
protezione dalla concorrenza internazionale sotto l’ombrello
statale perseguita dalle èlites economiche e la difesa del vecchio
welfare novecentesco da parte dei sindacati e dei partiti nati dalla
dissoluzione del Pci hanno unificato destra e sinistra contribuendo
non solo a creare il modello consociativo più solido dell’occidente,
ma anche a dare un notevole contributo all’eccezione italiana del
XXI secolo: bassa crescita, bassa produttività del lavoro, scarsa
mobilità sociale, scarsi investimenti infrastrutturali, debito
pubblico in continua crescita. Se era questo il partito dei poveri
auspicato da Prodi sarebbe meglio collocarlo tra gli errori da non
ripetere.
Il progressismo liberale di Renzi e la sinistra ‘perduta’
Renzi è stato l’unico leader della sinistra italiana che ha
cercato di trasformare in programma di governo il nodo strategico di
ricalibrare il discorso progressista con una forte carica di
liberalismo democratico puntando a ridefinire la domanda di
protezione sociale che proviene da strati sociali non protetti o
protetti poco dal vecchio welfare (giovani, donne, famiglie) con la
valorizzazione delle opportunità nuove e straordinarie offerte dalla
globalizzazione tecnologica: cioè di riproporre a distanza di quasi
un secolo l’integrazione tra socialismo e liberalismo che aveva
pensato Carlo Rosselli nel suo esilio lipariota.
Questo progetto ha incontrato l’opposizione della vecchia
sinistra, che ha combattuto con testardaggine e con armi che si
riterrebbero irrituali e discutibili anche se venissero utilizzate
contro gli avversari, per impedire che dal suo declino inarrestabile
– in Francia il Ps e al 7% in Olanda al 6%, in Grecia il Pasok è
sparito come il partito socialista israeliano, in Germania sono
arrivati al 20% e nei paesi dell’est europeo sono ai margini –
prendesse forma una nuova sinistra liberale capace di ripensare
radicalmente il rapporto tra stato e mercato. Ma al di là della
protervia e della cecità, la sinistra “perduta” è stata solo un
protagonista residuale di questa sconfitta: una mosca cocchiera si
sarebbe detto nel Pci, perché il vero protagonista della crisi della
sinistra è stato il nuovo imprenditore politico uscito dalla crisi
del 2007, cioè il populismo.
La vecchia sinistra si rispecchia nel populismo statalista
Un nuovo attore che si è fatto paladino del vecchio statalismo
caro alla sinistra, riconiugato però nel nuovo quadro ideologico
sovranistra: stati nazionali chiusi vengono rilanciati come strumenti
per difendere quel che resta (e in Europa è moltissimo) delle
protezioni ereditate dal grande ciclo progressista tra gli anni
cinquanta e settanta a favore di gruppi sociali a loro volte eredi di
una stratificazione sociale del passato.
Non è un caso che in Italia gli operai e i dipendenti pubblici
siano il grande bacino elettorale della Lega e dei 5S perché in nome
di uno statalismo assistenzialista garantiscono il mantenimento di
solide tutele sociali a chi già le possiede ed è esposto assai poco
ai rischi del cambiamento. I populisti occupano oggettivamente uno
spazio che era della sinistra novecentesca e ciò spiega perché
pezzi della sinistra radicale e del suo elettorato siano attratti da
un dialogo con queste nuove forze: si rispecchiano in un campo di
parole d’ordine, di simboli, di programmi che appartiene alla loro
identità profonda.
L’alleanza tra Pd e i partitini di sinistra cancella il
progetto riformista
In questo nuovo scenario, il terreno effettivo di una alleanza
possibile tra il PD e questa galassia di forze alla sua sinistra sta
nel cancellare il progetto riformista della precedente legislatura,
che si può sicuramente catalogare tra le migliori esperienze di
“terza via” da Blair in poi, e ricostruire una forza politica
interamente iscritta nella tradizione socialista del passato, anche
se oggi è la famiglia politica più malandata d’Europa: D’Alema
questo ha chiesto dal palco del congresso di Bologna a Zingaretti,
invitandolo per le spicce a portare a termine il rinculo progettato
dai suoi strateghi Bettini e Smeriglio.
Verso l’alleanza tra sinistra tradizionale e populismo
di sinistra
Ma questa alleanza per avere un senso non può che essere
propedeutica all’altra, ben più consistente sul piano strategico,
che è quella di un’alleanza tra una sinistra ricondotta nel suo
alveo tradizionale – che in Italia però non è stata la
socialdemocrazia ma il comunismo eccentrico del Pci – e il
populismo a sua volta “di sinistra”, che ha per base
programmatica il ritorno alla vecchia contrapposizione tra stato e
mercato come fulcro dello scontro tra destra e sinistra: una follia,
che per ora è stata impedita dall’ultima grande scelta politica di
Renzi (altro che pop corn…) ma che ritorna costantemente perché ha
delle sue oggettive basi politiche.
L’alternativa è muoversi in direzione di una rinnovata “terza
via”, o come la si intenda chiamare. Cioè si torna a costruire il
“partito della nazione” maggioritario e liberalprogressista, che
ha nel populismo il suo avversario su scala mondiale; oppure si
ritorna al “socialismo”, che combatte con la destra la sua
storica battaglia, che in Italia, però, nella la sua storia recente,
non evoca il volto di Brandt, di Mitterand o di Palme, ma quello di
un ircocervo rappresentato da D’Alema e dalla Bindi, da Bersani e
da Cofferati, dalla Camusso e da Bertinotti, insieme a uno stuolo di
intellettuali e di padri della patria sul viale del tramonto.
La vera vittoria politica del populismo? Resuscitare la
sinistra identitaria
Un ritorno la cui prima vittima sarebbe proprio il Pd, che prima
con Veltroni e poi con Renzi si era allontanano da quelle derive ma
che la forza del populismo ha risospinto nelle vecchie ridotte delle
tradizioni consunte, negli approdi apparentemente convincenti della
sinistra perduta. Al di la dei voti, la vera vittoria politica del
populismo è stata interrompere il processo di affermazione della
sinistra liberale che era in corso e farla riconfluire nel suo
passato identitario e minoritario.
Ma Zingaretti è come l’asino di Buridano: i suoi consiglieri lo
spingono in quella direzione, ma sembra consapevole che una parte
consistente del suo gruppo dirigente, al di la degli opportunismi
congressuali e delle ambizioni di carriera personali, non sarebbe
disponibile a tornare al Pds, anche per la costatazione banale che un
partito cosi fatto farebbe fatica a raggiungere il 20% nei prossimi
anni: anche se ha vinto il congresso promettendo “il grande ritorno
al passato”, appare sempre più evidente che realizzare
effettivamente la promessa è andarsi a mettere nel vicolo cieco nel
quale stanno ormai da tempo i congressisti di Bologna, cioè laddove
li ha spinti la vittoria di Di Maio e Salvini, che per loro è stata
un sberla ancor peggiore di quella presa dal PD.
Unire la sinistra contro la destra: una proposta datata e
consunta
In un vuoto di indirizzo politico, il segretario mesta nel torbido
della “politica delle alleanze”: una scelta suicida perché
impegna uno dei più ragguardevoli capitali politici della sinistra
europea – solo il partito socialista portoghese e il Labour hanno
più voti del Pd – in una operazione politicista e di retroguardia,
priva di appeal elettorale (ricordarsi Bersani 2013), senza
esplicitare la qualità e i contenuti dell’offerta politica del
partito che dirige.
Presentarsi alle Europee con il messaggio “unire la sinistra”
per aprire una nuova stagione di lotta contro “la destra”
prevedendo uno scenario occidentale attraversato da una
radicalizzazione dello scontro tra queste due polarità non è
sensato perché la proposta è datata e consunta, ma soprattutto è
priva di interlocutori.
Nonostante gli sforzi del gruppo Espresso-Repubblica e delle
televisioni di Cairo di accreditare la tesi che la sinistra esista e
sia uno spazio dinamico, come nel 1994/5, in Italia la sinistra è un
deserto (23% a essere ottimisti) di voti e di idee, che ha inoltre
come unico elemento di coesione interna lo scontro con i riformisti
per aprire all’alleanza populista, spaccando o spacchettando il Pd.
E’ in realtà un manipolo di ceto politico residuale soprattutto di
ex comunisti e di intellettuali che provengono dalla stessa storia,
sovraesposto sul piano comunicativo, ma sganciato da ogni effettiva
rappresentanza sociale: tutti baby boomers, che dominano da anni, il
mondo della comunicazione scritta e televisiva, che, però, le
elezioni del 4 marzo del 2018 e quelle successive hanno dimostrato
essere generali senza esercito.
“Campo largo” o vicolo cieco?
Se tutta questa strategia del “campo largo” si riduce a due o
tre posti in lista alle europee per seconde fila di Articolo 1 (gli
ultimi quadri locali del dalemismo), più qualche ex dirigente della
Cgil, più qualche magistrato antimafia nel Mezzogiorno (come se
tutto il sud fosse Gomorra) e la foglia di fico di Calenda, non
fornisce una prospettiva credibile, perché è basata su una analisi
sbagliata della fase politica e della struttura sociale del paese:
andare da Macron a Tsipras è una strategia; andare da Calenda a
Pisapia è galleggiare senza una effettiva prospettiva.
Infatti a una quarantina di giorni dalle elezioni europee non
abbiamo ancora detto all’elettorato quale Europa vogliamo e come e
con chi farla, spingendo molti elettori e militanti del Pd a
scegliere +Europa il cui profilo europeista è più chiaro e marcato
di quello del Pd: con Calenda e Bonafè vai verso l’Alde insieme a
+ Europa e con i verdi centristi, con i transfugi di Leu e Pisapia si
guarda all’ala sinistra del Pse, che guarda a sua volta verso la
gli eurocomunisti e gli ecosocialisti. Forse raccatti un pò di voti,
ma una volta eletto come si muove il gruppo parlamentare
europeo? L’orribile divaricazione del voto su Maduro la dice
lunga di quali rischi si corrono nel costruire carrozzoni elettorali
privi però di identità programmatica.
L’unionismo anti-Salvini è privo di contenuto
Oggi il Pd sta solo “prendendo tempo”: una girandola e di
iniziative e dichiarazioni prive di contenuto, in assenza di
iniziativa politica; sta già “tirando a campare” a solo un mese
dal congresso perché chi lo dirige non ha le risorse politiche per
fare quello che ha promesso e la promessa nei fatti non va oltre una
riedizione dell’Unione, che era già la riedizione farsesca
dell’Ulivo, con forze politiche rissose e ridotte ai minimi
termini, unificate dall’ “antisalvinismo” che a sua volta è la
riedizione farsesca dell’antiberlusconismo, con il suo mesto corteo
di scontri all’arma bianca tra fascismo e antifascismo.
In ogni caso – come era già evidente nel dibattito congressuale
– questa proposta non riesce ad essere il fulcro di una alternativa
effettiva al populismo perché è in attesa di allearsi con la sua
“ala sinistra”, che ai fini degli interessi del paese è forse
più pericolosa della sua ala destra.
Riprendere il cammino del riformismo
Bisognerebbe invece riprendere il cammino interrotto il 4 marzo
per cercare di dialogare con quel 40% di elettori che avevano dato
per ben due volte fiducia al Pd, proprio perché era riuscito a
superare quelle vecchie tagliole ideologiche e a presentarsi come il
partito delle opportunità, ma anche delle nuove protezioni,
collocando la distinzione tra destra e sinistra sulla discriminante
conservazione/innovazione.
Attorno a questo partito “della nazione” si era raccolto il
consenso largo di quel centro “repubblicano” riformatore e
democratico che è una componente essenziale del riformismo europeo,
e che poi si è progressivamente allontanato dal Pd quando il suo
profilo si è opacizzato e si è messo in moto invece il “grande
rinculo”.
Su questo dovrebbe ruotare la nostra proposta politica in Europa
come nei comuni dove si voterà a breve per riprendere il dialogo con
quegli elettori, che per comodità chiamiamo centristi o moderati, ma
che in realtà sono forze vitali che costituiscono la base più
solida della stabilità democratica della nazione, appunto. Sono
quelli che riempiono sale e teatri dove Renzi presenta il suo libro,
ma che al Pd di Zingaretti sembrano non interessare come potenziali
elettori perché fanno emergere l’inconsistenza politica della
demonizzazione del Pd riformista su cui ha vinto il congresso.
Una traversata in mare aperto
Il “nuovo Pd” – mai aggettivo è stato usato in maniera più
maldestra – si accontenterà del 20% dicendo che è una grande
vittoria, perché ha preso 1 o 2 punti in più di quello “vecchio”
e l’elettorato rifomista e democratico rimarrà alla finestra in
attesa di una offerta politica convincente. Per fortuna Renzi è in
campo: è il leader riformista dotato del più altro consenso in
Italia e di una reputazione internazionale notevole. Se darà una
mano alle elezioni tenendo alta la bandiera della sinistra liberale
non tutto è perduto. Ma sarà comunque una traversata in mare aperto
e con poche carte nautiche.
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