Si è scoperto che l'organizzatore della Maratona di Trieste è un fan di Salvini.
foto del giorno
domenica 28 aprile 2019
giovedì 25 aprile 2019
BUON 25 APRILE.
Caro Ministro Matteo Salvini gli uomini e le
donne non si fronteggiarono in un derby ma in una lotta tra chi credeva
nella libertà e nella democrazia e chi l’aveva schiacciata e derisa.
Per la sua libertà deve ringraziare i partigiani, non lo dimentichi mai.
Marco Bentivogli
Per la sua libertà deve ringraziare i partigiani, non lo dimentichi mai.
Marco Bentivogli
Moro: Discorso per il trentennale della Resistenza
Aldo Moro, “Discorso per il trentennale della Resistenza”,
Bari, 25 Aprile 1975
L’italia rivive cosi una drammatica ma esaltante esperienza ed
approfondisce la sua identità nazionale. Quella identità nazionale
appunto che si rivela in momenti di svolta, destinati ad esercitare
una decisiva influenza nella storia dei popoli.
La Resistenza fu
uno di questi momenti. Ad essa dunque, ancora oggi, facciamo
riferimento. Ad essa ci rivolgiamo come al luminoso passato, sul
quale è fondato il nostro presente ed il nostro avvenire.
La Resistenza fu lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso
alla conquista della sua libertà. Ma essa non fu solo un moto
patriottico-militare contro l’occupante tedesco, destinato, perciò,
ad esaurirsi con la fine del conflitto mondiale. La Resistenza viene
da lontano e va lontano. Affonda le sue radici nella storia del
nostro Stato risorgimentale. E’ destinata a caratterizzare l’epoca
della rinnovata democrazia italiana. Un dato storico è da mettere in
rilievo: alla Resistenza parteciparono, spontaneamente, larghe forze
popolari, e non solo urbane, ma della campagna e della montagna.
Furono coinvolti ad un tempo il proletariato di fabbrica, che
difendeva gli strumenti essenziali del suo lavoro, e la realtà
contadina.
Alle azioni gloriose delle formazioni partigiane e del nostro
corpo di liberazione, schierati in battaglia, si accompagnò
un’infinità di episodi spontanei, il più delle volte oscuri o
poco noti, che rappresentarono l’immediata risposta delle
popolazioni alle sopraffazioni delle brigate nere o dell’esercito
nazista, una risposta data anche fuori dai centri urbani, nei più
sperduti paesi rurali, nelle zone collinari e pedemontane. Questa
Resistenza più ramificata e diffusa, che non è stata classificata
tra le operazioni delle divisioni partigiane direttamente impegnate
nello scontro armato, si è collegata molto spesso al ricordo delle
lotte lunghe e tenaci che le leghe, contadine avevano condotto in
tante regioni: dal Veneto alla Toscana, all’Emilia, alle Puglie,
contro lo squadrismo agrario e le violenze nazionalistiche o
fascistiche degli anni venti e anche oltre. Ma non era mero ricordo,
bensì un dato vitale, una sorta di impegno civile, che ha immesso
nella Resistenza fattori sociali connessi con la storia delle grandi
masse popolari, a lungo escluse dalla partecipazione alla vita dello
Stato unitario. La Resistenza supera cosi il limite di una guerra
patriottico-militare, di un semplice movimento di restaurazione
prefascista, come pure da talune parti si sarebbe allora desiderato.
Diventa un fatto sociale di rilevante importanza.
A lungo si è ripetuto che alla piena esplicazione della
Resistenza ha nociuto il peso negativo rappresentato dal Mezzogiorno,
che non ha compiuto l’esperienza della lotta partigiana del Nord
Italia. Gli storici tendono ora a correggere questa visione
dualistica, di un Nord, proiettato verso una peraltro indefinita
rivoluzione, e un Sud, ancora una volta “palla al piede” dello
sviluppo italiano. Il rapporto tra Mezzogiorno e Resistenza è
complesso. Non va dimenticato, nello sfondo, ciò che pagarono le
campagne del Mezzogiorno al fascismo. E’ vero, fu avviata una
politica di bonifiche che consentì in un secondo tempo la formazione
di ceti agrari più progrediti, meno attaccati alla esclusiva
conservazione della rendita. Ma quel poco che si fece sotto il
fascismo per il Sud, ebbe come corrispettivo il blocco
dell’emigrazione interna, una politica di bassi salari,
sperequazioni tributarie e pesanti vincoli contrattuali nelle
campagne.
Il programma fascista di un’Italia rurale ed eroica portò in
realtà ad un eccesso di popolazione contadina, costretta a vivere
entro strutture economiche rimaste arcaiche e statiche e perciò
prive, di impulsi creativi. Crollato il fascismo e liberato il
Mezzogiorno dalle truppe alleate, non per caso ancora una volta
furono le campagne a muoversi. Si trattava della lotta al latifondo e
della riforma agraria, cioè di una delle esperienze più
significative di questo dopoguerra, che ha consentito lo svilupparsi
di un grande movimento contadino nel Sud ed ha impegnato i governi in
un notevole sforzo, nel suo insieme positivo. Ma, tornando agli anni
cruciali che vanno dalla fine del ’43 a tutto il ’45, non ci
sembra si possa dire che il Mezzogiorno fu una remora alla
realizzazione degli ideali della Resistenza. Non vanno dimenticati
gli intellettuali meridionali schierati sul fronte della libertà.
Eppoi parlano le cose. Il Sud ha dato con profonda convinzione il suo
apporto alla guerra di liberazione e ai primi atti dei governi della
coalizione antifascista; ha contribuito al crollo degli eserciti
nazifascisti, facilitando l’avanzata di quelli alleati; ha visto la
nascita e l’affermarsi delle prime libere manifestazioni politiche
dei partiti antifascisti; ha scritto con la insurrezione napoletana
una tra le pagine più belle della Resistenza. (…)
Si è anche talvolta affermato che la Resistenza sarebbe stata
tradita nel suo significato più autentico e che il graduale ritorno
alle vecchie strutture dello stato prefascista avrebbe sancito una
continuità statale di vecchio tipo. Se la polemica non fa velo,
credo possa apparire evidente a tutti il grande salto di qualità che
si è compiuto passando dallo Stato prefascista a quello nato dalla
Resistenza sotto il profilo sia della struttura sia dei fini
istituzionali. Non sono differenze di superficie, ma di sostanza, che
riguardano anzitutto il processo di formazione e articolazione della
volontà politica nazionale attraverso i partiti di massa, la
consistenza democratica di base dello Stato, il suo ruolo di
propulsione e di guida nella vita economica e sociale. Se vi furono
aspetti di restaurazione, se vi furono remore e momenti anche di
arresto nella realizzazione delle premesse ideali della Resistenza,
ciò non può farci dimenticare il progresso compiuto e il senso
storico-culturale della opzione politica in favore della democrazia
che fu alle origini della fondazione del nuovo Stato. (…)
Con tutte le cautele e le gradualità imposte dalle esigenze della
strategia alleata e dalla crescente diffidenza che divise ben presto
le potenze occidentali dall’Unione Sovietica, la Resistenza fu
indubbiamente molto di più di una operazione patriottico-militare.
Essa agì in profondità nella vita politica del nostro Paese, dando
una nuova dimensione allo Stato, arricchendo la vita democratica e
creando una originale mentalità antifascista, la quale superò
quella formale e parlamentaristica che aveva in certo modo
caratterizzato in precedenza la opposizione al fascismo.
Lo Stato al quale i partiti democratici hanno dato vita è lo
Stato che lo spirito della Resistenza e le circostanze oggettive
hanno reso possibile in una valutazione globale di tutti gli
interessi del Paese, interessi nazionali ed internazionali, immediati
e in prospettiva. E certo occorreva uno Stato nel quale si
riconoscesse il maggior numero possibile di cittadini, che fosse
capace, su questa base, di ricostruire l’Italia, dandole un assetto
stabile di libertà e di giustizia.
Sono questi, che ho appena ricordati, momenti della nostra vicenda
trentennale sui quali è ancora aperto il giudizio storico, aperta la
valutazione politica. Credo tuttavia che, pur partendo da punti di
vista diversi e nella comprensibile divergenza d’opinioni sulle
strade seguite e sulle soluzioni date in alcuni stretti passaggi
della nostra vicenda nazionale, una cosa si possa dire e cioè che i
partiti i quali si richiamano alla Resistenza e si riconoscono nella
Costituzione repubblicana, ciascuno secondo la propria responsabilità
ed il proprio ruolo, hanno guardato alle istituzioni democratiche, da
presidiare ed accreditare nella coscienza del Paese. Via via, nel
corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e
gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi
organizzazioni di massa che animano la vita della nostra società, ha
accettato lo Stato nato dalla Resistenza. Si sono conciliati alla
democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e
chiusure classiste. Ma, soprattutto, sono entrati a pieno titolo
nella vita dello Stato ceti lungamente esclusi.
Grandi masse di popolo guidate dai partiti, dai sindacati, da
molteplici organizzazioni sociali, oggi garantiscono esse stesse
quello Stato che un giorno considerarono con ostilità quale
irriducibile oppressore. Se tutto questo è avvenuto nella lotta, nel
sacrificio, è merito della Resistenza, di un movimento cioè che si
è mosso nel senso della storia, mettendo ai margini l’opposizione
antidemocratica e facendo spazio alle forze emergenti e vive della
nuova società.
Certo, l’acquisizione della democrazia non è qualche cosa di
fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per
tutte. Bisogna garantirla e difenderla, approfondendo quei valori di
libertà e di giustizia che sono la grande aspirazione popolare
consacrata dalla Resistenza.
Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima
affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di
comportamenti coerenti. Non è solo un dato della coscienza, il
risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale
della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine
tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa,
sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e
reazione.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico.
In questo ambito ed in questo spirito è responsabilità politica
dei partiti l’effettuare quelle scelte di indirizzi, di contenuti e
di schieramenti ritenuti meglio rispondenti agli interessi del
Paese.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.
Trent’anni fa, uomini di diversa età ed anche giovanissimi, di diversa origine ideologica, culturale, politica, sociale; provenienti sovente dall’esilio, dalla prigione, dall’isolamento; ciascuno portando il patrimonio della propria esperienza, hanno combattuto, per restituire all’Italia l’indipendenza nazionale e la libertà.
Questo è stato il nostro grande esodo dal deserto del fascismo; questa è stata la nostra lunga marcia verso la democrazia.
mercoledì 10 aprile 2019
A Bologna la farsa della vecchia sinistra
9 aprile 2019
Alberto De Bernardi
presidente di Libertà Eguale
Dopo diversi anni nei quali Bologna aveva perduto la sua fama di
laboratorio della vita politica nazionale conquistate a ragione negli
anni dell’Ulivo, tra il 7 e l’8 di marzo del 2019 essa è tornata
sulla scena come il centro della vita politica nazionale.
La vecchia sinistra riunita a Bologna
In quei giorni si è svolto innanzitutto il I° congresso di
Articolo 1 il partitino di Bersani e D’Alema, inutilmente
coordinato da Speranza, che ha aperto i battenti al canto
dell’Internazionale e del pugno chiuso militante, ha aderito al
comitato Lula libero, evocando il tradizionale terzomondismo della
tradizione cattocomunista e si è concluso esaltando la necessità di
una sinistra radicale sul modello Sanders-Corbyn e l’impegno a dare
vita a un partito socialista e ambientalista: rosso-verde. Al di la
dei temi discussi il focus del congresso era sdoganare l’alleanza
con il Pd, che seppur nel dibattito sia stata sottoposta a mille
distinguo e alla richiesta di mille autocritiche, è l’unica cosa
che i suoi dirigenti possono fare se non vogliono scomparire.
Le lacrime di Merola e la tenda di Prodi
Ai margini del congresso un intervento di saluto del sindaco
Merola che ha rivendicato, tra le lacrime, la necessità del
ritorno del “trattino” tra centro e sinistra, perché l’
integrazione – centrosinistra senza trattino – è fallita. Ad
anticipare queste tematiche due dichiarazioni di Prodi – cha deve
essere uscito dalla tenda perché ormai imperversa quotidianamente
dopo anni di burbanzoso silenzio – a sostegno dell’alleanza tra
il Pd di Zingaretti e la sinistra di Mdp perché non solo “uniti si
vince” e lui lo aveva già capito vent’anni fa costruendo
l’Ulivo, ma soprattutto il Pd finisce di essere il partito dei
ricchi e può tornare dopo Renzi ad essere il partito del poveri: a
corredo, i ripetuti inviti ai riformisti della deputata Zampa,
portavoce del “professore” e nulla più, di togliere il disturbo
dal Pd.
Una rappresentazione farsesca della sinistra
Un vecchio saggio nato a Treviri due scoli fa diceva che spesso la
storia quando si ripete diventa una farsa e aveva colto nel segno.
Infatti quella che si è verificata a Bologna e appunto una
rappresentazione farsesca della sinistra, che allegramente rispolvera
i vecchi miti senza sapere di essere “perduta”: una sopravvivenza
del XX secolo che oltre a non contare nulla sul piano elettorale (il
partito di Prodi alle elezioni prese lo 0,6 e Art.1 à dato all’1,5%
in tutti i sondaggi) ha la pretesa di possedere la chiave della
riscossa, presentando vecchia ricette già abbondantemente sconfitte
come fulminati novità, ovviamente con il corteo di giornaloni e
giornalini osannanti.
Una visione prigioniera dello scontro destra-sinistra
In effetti dal congresso di Articolo 1 non è uscito niente di
interessante e nuovo perché quel campo di forze è prigioniero di
una visione del mondo che non riesce a liberarsi del classico scontro
tra destra e sinistra, che riproduce, come ha ben messo in luce
Maurizio Ferrera su “la Lettura” del 24.3.2019, la vecchia
dicotomia tra stato e mercato su cui si erano collocate le
appartenenze politiche nel corso del XX secolo: alla destra
mercatista/liberista si contrapponeva una sinistra che vedeva nello
stato lo strumento per controllare le forze distruttive del
capitalismo e garantire eguaglianza e inclusione sociale.
Erano il baricentro politico della “Grande trasformazione”
analizzata da Polanyi nel fuoco della seconda guerra mondiale e che
ha sorretto il lungo ciclo fordista conclusosi alla fine degli anni
settanta.
Stato e Mercato si sono combinati in maniera dinamica
Ma per quarant’anni mercato e stato seppur contrapposti
nell’immaginario politico, si sono combinati in maniera dinamica
creando una sosta di capitalismo statalmente organizzato fondato
sull’egemonia americana e lo stato nazionale, che affondava le sue
basi sociali in un compromesso progressista tra le due classi
dominanti della società industriale: la borghesia e il proletariato.
La sovrapposizione tra destra e sinistra da un lato e mercato e stato
dall’altro reggeva, anche se l’ordine del mondo occidentale era
fondato su una collaborazione che, al di la dei conflitti sociali
anche aspri che lo attraversavano, presupponeva il comune
riconoscimento della crescita e del benessere collettivo come
principi fondanti e irrinunciabili della stabilità politica
democratica.
Ma la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale hanno
radicalmente modificato questo scenario obbligando a ricollocare la
dicotomia destra-sinistra lontana da quell’altra: non si tratta
della fine della contrapposizione tra destra e sinistra di cui
parlano i populisti, ma, come già ricordava Giddens, di ridisegnare
il profilo ideale e progettuale della sinistra oltre la
contrapposizione tra stato e mercato, per il venir meno dello stato
nazionale e per il moltiplicarsi delle fratture sociali oltre quelle
di classe che hanno perso centralità.
Oltre la contrapposizione tra stato e mercato
Questo è il cammino difficile, ma imprescindibile, da
intraprendere già dalla fine del secolo scorso se la sinistra vuole
ancora rappresentare il cambiamento sociale e le speranze degli
ultimi, che costituiscono le origini della sua storia ormai
bisecolare. E un cammino ancora in corso, che ha seguito itinerari
poco lineari, che ha visto crescere fratture e contrapposizioni
drammatiche tra diverse anime e diverse visioni, vittorie e sconfitte
brucianti, e il traguardo ancora non si vede.
Il modello consociativo e l’eccezione italiana
La sinistra italiana costituisce un esempio di scuola di questa
difficoltà a uscire dalle sua vecchia ortodossia che è stata
speculare a quella della destra legata a un capitalismo familista
alla permanente ricerca di protezioni pubbliche. Paradossalmente, la
protezione dalla concorrenza internazionale sotto l’ombrello
statale perseguita dalle èlites economiche e la difesa del vecchio
welfare novecentesco da parte dei sindacati e dei partiti nati dalla
dissoluzione del Pci hanno unificato destra e sinistra contribuendo
non solo a creare il modello consociativo più solido dell’occidente,
ma anche a dare un notevole contributo all’eccezione italiana del
XXI secolo: bassa crescita, bassa produttività del lavoro, scarsa
mobilità sociale, scarsi investimenti infrastrutturali, debito
pubblico in continua crescita. Se era questo il partito dei poveri
auspicato da Prodi sarebbe meglio collocarlo tra gli errori da non
ripetere.
Il progressismo liberale di Renzi e la sinistra ‘perduta’
Renzi è stato l’unico leader della sinistra italiana che ha
cercato di trasformare in programma di governo il nodo strategico di
ricalibrare il discorso progressista con una forte carica di
liberalismo democratico puntando a ridefinire la domanda di
protezione sociale che proviene da strati sociali non protetti o
protetti poco dal vecchio welfare (giovani, donne, famiglie) con la
valorizzazione delle opportunità nuove e straordinarie offerte dalla
globalizzazione tecnologica: cioè di riproporre a distanza di quasi
un secolo l’integrazione tra socialismo e liberalismo che aveva
pensato Carlo Rosselli nel suo esilio lipariota.
Questo progetto ha incontrato l’opposizione della vecchia
sinistra, che ha combattuto con testardaggine e con armi che si
riterrebbero irrituali e discutibili anche se venissero utilizzate
contro gli avversari, per impedire che dal suo declino inarrestabile
– in Francia il Ps e al 7% in Olanda al 6%, in Grecia il Pasok è
sparito come il partito socialista israeliano, in Germania sono
arrivati al 20% e nei paesi dell’est europeo sono ai margini –
prendesse forma una nuova sinistra liberale capace di ripensare
radicalmente il rapporto tra stato e mercato. Ma al di là della
protervia e della cecità, la sinistra “perduta” è stata solo un
protagonista residuale di questa sconfitta: una mosca cocchiera si
sarebbe detto nel Pci, perché il vero protagonista della crisi della
sinistra è stato il nuovo imprenditore politico uscito dalla crisi
del 2007, cioè il populismo.
La vecchia sinistra si rispecchia nel populismo statalista
Un nuovo attore che si è fatto paladino del vecchio statalismo
caro alla sinistra, riconiugato però nel nuovo quadro ideologico
sovranistra: stati nazionali chiusi vengono rilanciati come strumenti
per difendere quel che resta (e in Europa è moltissimo) delle
protezioni ereditate dal grande ciclo progressista tra gli anni
cinquanta e settanta a favore di gruppi sociali a loro volte eredi di
una stratificazione sociale del passato.
Non è un caso che in Italia gli operai e i dipendenti pubblici
siano il grande bacino elettorale della Lega e dei 5S perché in nome
di uno statalismo assistenzialista garantiscono il mantenimento di
solide tutele sociali a chi già le possiede ed è esposto assai poco
ai rischi del cambiamento. I populisti occupano oggettivamente uno
spazio che era della sinistra novecentesca e ciò spiega perché
pezzi della sinistra radicale e del suo elettorato siano attratti da
un dialogo con queste nuove forze: si rispecchiano in un campo di
parole d’ordine, di simboli, di programmi che appartiene alla loro
identità profonda.
L’alleanza tra Pd e i partitini di sinistra cancella il
progetto riformista
In questo nuovo scenario, il terreno effettivo di una alleanza
possibile tra il PD e questa galassia di forze alla sua sinistra sta
nel cancellare il progetto riformista della precedente legislatura,
che si può sicuramente catalogare tra le migliori esperienze di
“terza via” da Blair in poi, e ricostruire una forza politica
interamente iscritta nella tradizione socialista del passato, anche
se oggi è la famiglia politica più malandata d’Europa: D’Alema
questo ha chiesto dal palco del congresso di Bologna a Zingaretti,
invitandolo per le spicce a portare a termine il rinculo progettato
dai suoi strateghi Bettini e Smeriglio.
Verso l’alleanza tra sinistra tradizionale e populismo
di sinistra
Ma questa alleanza per avere un senso non può che essere
propedeutica all’altra, ben più consistente sul piano strategico,
che è quella di un’alleanza tra una sinistra ricondotta nel suo
alveo tradizionale – che in Italia però non è stata la
socialdemocrazia ma il comunismo eccentrico del Pci – e il
populismo a sua volta “di sinistra”, che ha per base
programmatica il ritorno alla vecchia contrapposizione tra stato e
mercato come fulcro dello scontro tra destra e sinistra: una follia,
che per ora è stata impedita dall’ultima grande scelta politica di
Renzi (altro che pop corn…) ma che ritorna costantemente perché ha
delle sue oggettive basi politiche.
L’alternativa è muoversi in direzione di una rinnovata “terza
via”, o come la si intenda chiamare. Cioè si torna a costruire il
“partito della nazione” maggioritario e liberalprogressista, che
ha nel populismo il suo avversario su scala mondiale; oppure si
ritorna al “socialismo”, che combatte con la destra la sua
storica battaglia, che in Italia, però, nella la sua storia recente,
non evoca il volto di Brandt, di Mitterand o di Palme, ma quello di
un ircocervo rappresentato da D’Alema e dalla Bindi, da Bersani e
da Cofferati, dalla Camusso e da Bertinotti, insieme a uno stuolo di
intellettuali e di padri della patria sul viale del tramonto.
La vera vittoria politica del populismo? Resuscitare la
sinistra identitaria
Un ritorno la cui prima vittima sarebbe proprio il Pd, che prima
con Veltroni e poi con Renzi si era allontanano da quelle derive ma
che la forza del populismo ha risospinto nelle vecchie ridotte delle
tradizioni consunte, negli approdi apparentemente convincenti della
sinistra perduta. Al di la dei voti, la vera vittoria politica del
populismo è stata interrompere il processo di affermazione della
sinistra liberale che era in corso e farla riconfluire nel suo
passato identitario e minoritario.
Ma Zingaretti è come l’asino di Buridano: i suoi consiglieri lo
spingono in quella direzione, ma sembra consapevole che una parte
consistente del suo gruppo dirigente, al di la degli opportunismi
congressuali e delle ambizioni di carriera personali, non sarebbe
disponibile a tornare al Pds, anche per la costatazione banale che un
partito cosi fatto farebbe fatica a raggiungere il 20% nei prossimi
anni: anche se ha vinto il congresso promettendo “il grande ritorno
al passato”, appare sempre più evidente che realizzare
effettivamente la promessa è andarsi a mettere nel vicolo cieco nel
quale stanno ormai da tempo i congressisti di Bologna, cioè laddove
li ha spinti la vittoria di Di Maio e Salvini, che per loro è stata
un sberla ancor peggiore di quella presa dal PD.
Unire la sinistra contro la destra: una proposta datata e
consunta
In un vuoto di indirizzo politico, il segretario mesta nel torbido
della “politica delle alleanze”: una scelta suicida perché
impegna uno dei più ragguardevoli capitali politici della sinistra
europea – solo il partito socialista portoghese e il Labour hanno
più voti del Pd – in una operazione politicista e di retroguardia,
priva di appeal elettorale (ricordarsi Bersani 2013), senza
esplicitare la qualità e i contenuti dell’offerta politica del
partito che dirige.
Presentarsi alle Europee con il messaggio “unire la sinistra”
per aprire una nuova stagione di lotta contro “la destra”
prevedendo uno scenario occidentale attraversato da una
radicalizzazione dello scontro tra queste due polarità non è
sensato perché la proposta è datata e consunta, ma soprattutto è
priva di interlocutori.
Nonostante gli sforzi del gruppo Espresso-Repubblica e delle
televisioni di Cairo di accreditare la tesi che la sinistra esista e
sia uno spazio dinamico, come nel 1994/5, in Italia la sinistra è un
deserto (23% a essere ottimisti) di voti e di idee, che ha inoltre
come unico elemento di coesione interna lo scontro con i riformisti
per aprire all’alleanza populista, spaccando o spacchettando il Pd.
E’ in realtà un manipolo di ceto politico residuale soprattutto di
ex comunisti e di intellettuali che provengono dalla stessa storia,
sovraesposto sul piano comunicativo, ma sganciato da ogni effettiva
rappresentanza sociale: tutti baby boomers, che dominano da anni, il
mondo della comunicazione scritta e televisiva, che, però, le
elezioni del 4 marzo del 2018 e quelle successive hanno dimostrato
essere generali senza esercito.
“Campo largo” o vicolo cieco?
Se tutta questa strategia del “campo largo” si riduce a due o
tre posti in lista alle europee per seconde fila di Articolo 1 (gli
ultimi quadri locali del dalemismo), più qualche ex dirigente della
Cgil, più qualche magistrato antimafia nel Mezzogiorno (come se
tutto il sud fosse Gomorra) e la foglia di fico di Calenda, non
fornisce una prospettiva credibile, perché è basata su una analisi
sbagliata della fase politica e della struttura sociale del paese:
andare da Macron a Tsipras è una strategia; andare da Calenda a
Pisapia è galleggiare senza una effettiva prospettiva.
Infatti a una quarantina di giorni dalle elezioni europee non
abbiamo ancora detto all’elettorato quale Europa vogliamo e come e
con chi farla, spingendo molti elettori e militanti del Pd a
scegliere +Europa il cui profilo europeista è più chiaro e marcato
di quello del Pd: con Calenda e Bonafè vai verso l’Alde insieme a
+ Europa e con i verdi centristi, con i transfugi di Leu e Pisapia si
guarda all’ala sinistra del Pse, che guarda a sua volta verso la
gli eurocomunisti e gli ecosocialisti. Forse raccatti un pò di voti,
ma una volta eletto come si muove il gruppo parlamentare
europeo? L’orribile divaricazione del voto su Maduro la dice
lunga di quali rischi si corrono nel costruire carrozzoni elettorali
privi però di identità programmatica.
L’unionismo anti-Salvini è privo di contenuto
Oggi il Pd sta solo “prendendo tempo”: una girandola e di
iniziative e dichiarazioni prive di contenuto, in assenza di
iniziativa politica; sta già “tirando a campare” a solo un mese
dal congresso perché chi lo dirige non ha le risorse politiche per
fare quello che ha promesso e la promessa nei fatti non va oltre una
riedizione dell’Unione, che era già la riedizione farsesca
dell’Ulivo, con forze politiche rissose e ridotte ai minimi
termini, unificate dall’ “antisalvinismo” che a sua volta è la
riedizione farsesca dell’antiberlusconismo, con il suo mesto corteo
di scontri all’arma bianca tra fascismo e antifascismo.
In ogni caso – come era già evidente nel dibattito congressuale
– questa proposta non riesce ad essere il fulcro di una alternativa
effettiva al populismo perché è in attesa di allearsi con la sua
“ala sinistra”, che ai fini degli interessi del paese è forse
più pericolosa della sua ala destra.
Riprendere il cammino del riformismo
Bisognerebbe invece riprendere il cammino interrotto il 4 marzo
per cercare di dialogare con quel 40% di elettori che avevano dato
per ben due volte fiducia al Pd, proprio perché era riuscito a
superare quelle vecchie tagliole ideologiche e a presentarsi come il
partito delle opportunità, ma anche delle nuove protezioni,
collocando la distinzione tra destra e sinistra sulla discriminante
conservazione/innovazione.
Attorno a questo partito “della nazione” si era raccolto il
consenso largo di quel centro “repubblicano” riformatore e
democratico che è una componente essenziale del riformismo europeo,
e che poi si è progressivamente allontanato dal Pd quando il suo
profilo si è opacizzato e si è messo in moto invece il “grande
rinculo”.
Su questo dovrebbe ruotare la nostra proposta politica in Europa
come nei comuni dove si voterà a breve per riprendere il dialogo con
quegli elettori, che per comodità chiamiamo centristi o moderati, ma
che in realtà sono forze vitali che costituiscono la base più
solida della stabilità democratica della nazione, appunto. Sono
quelli che riempiono sale e teatri dove Renzi presenta il suo libro,
ma che al Pd di Zingaretti sembrano non interessare come potenziali
elettori perché fanno emergere l’inconsistenza politica della
demonizzazione del Pd riformista su cui ha vinto il congresso.
Una traversata in mare aperto
Il “nuovo Pd” – mai aggettivo è stato usato in maniera più
maldestra – si accontenterà del 20% dicendo che è una grande
vittoria, perché ha preso 1 o 2 punti in più di quello “vecchio”
e l’elettorato rifomista e democratico rimarrà alla finestra in
attesa di una offerta politica convincente. Per fortuna Renzi è in
campo: è il leader riformista dotato del più altro consenso in
Italia e di una reputazione internazionale notevole. Se darà una
mano alle elezioni tenendo alta la bandiera della sinistra liberale
non tutto è perduto. Ma sarà comunque una traversata in mare aperto
e con poche carte nautiche.
domenica 7 aprile 2019
Il Professor Prodi e le Coalizioni
Claudio Petruccioli
6 aprile 2019
Nel PD c’è maretta sulla formazione delle liste per le elezioni
europee del 26 maggio: vanno aperte anche a chi, non più di due anni
fa, se ne andò per farsi un altro partito? La questione non è di
facile soluzione: si tratta, in fin dei conti, di legittimare o meno
una scissione le cui ferite sono ancora aperte.
Qui, però, non tratto di questo pur importante problema di oggi, bensì del modo in cui lo ha commentato – con riferimenti al passato – Romano Prodi. Leggo (da Goffredo De Marchis su la Repubblica – virgolettato): “O si fanno le coalizioni oppure si perde. Io l’ho capito benissimo che si devono fare le coalizioni. Forse in anticipo. Per questo ho fatto l’Ulivo”.
Con tutta la stima per il Professore (così lo presenta De Marchis) l’enunciazione mi sembra molto sbrigativa e, almeno in parte, smentita dai fatti. E’ indubbio che le due vittorie elettorali che gli hanno aperto le porte di Palazzo Chigi, Prodi le ha riportate guidando una coalizione; ma è altrettanto certo che in ambedue i casi, dopo un paio d’anni, quelle stesse coalizioni persero pezzi non riuscirono a stare insieme e determinarono la caduta dei suoi governi.
Nel 1998 a vanificare la vittoria dell’Ulivo del 1996 ci pensò Bertinotti. Nel 2006, scomparso l’Ulivo non c’erano più neppure i collegi uninominali, sostituiti da un premio di maggioranza assegnato a chi prendeva un voto in più. Prodi costruì l’Unione, una coalizione larga con dentro tutti che, sia pure per un soffio, tagliò per prima il filo di lana; ma era a tal punto disunita e sgangherata che nel 2008 il suo creatore dovette gettare di nuovo la spugna.
Turigliatto non aveva la statura politica di Bertinotti; ma anche lui agiva su quel fianco sinistro lungo il quale lo schieramento di centrosinistra registra di solito le falle e le defezioni che lo mettono in crisi. E’ lo stesso fianco che oggi Zingaretti si affanna a presidiare; gli auguro che i risultati siano migliori di quelli esperiti da Prodi, anche se non mi è facile capire perché oggi le cose dovrebbero andare diversamente.
De Marchis fa seguire una sua chiosa alla enunciazione del Professore. “Il discorso – precisa – sembra valere per le Politiche dove ci sono i collegi ma anche per le Europee, dove gli accordi sono utili per ottenere un voto in più”. Il senso delle parole di Prodi è senza dubbio questo; ma proprio lui sa bene che ci sono occasioni nelle quali è meglio non sacrificare una posizione politica a obiettivi elettorali che, pur apparentemente migliori, compromettono quella stessa posizione.
A ottobre del 1998, quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi dal rifiuto di Bertinotti, non gli sfuggivano le manovre di non pochi complici acquattati all’ombra dell’Ulivo. Pochi mesi dopo decise perciò di presentarsi alle elezioni europee del 1999 da solo; da solo, altro che coalizione! Lo fece con la denominazione “I Democratici” e con il simbolo dell’asinello; prese quasi due milioni e mezzo di voti, il 7,73% ma soprattutto ottenne un successo politico perché dimostrò la inconsistenza delle posizioni di quanti avevano congiurato contro di lui.
Il fact checking è utile sempre, non solo sui social. In questo caso dimostra che le coalizioni, se mal fatte, possono farti prendere più voti ma poi determinano la tua caduta e – soprattutto – la rovina della politica che vorresti fare. Anzi, in qualche caso, per affermare e difendere quella politica devi perfino – come fece Prodi nelle europee di venti anni fa – competere da solo. Se le tue sono buone ragioni troveranno riscontro e anche i voti non mancheranno. Se, invece, sacrifichi la politica a convenienze immediate e precarie, non ci sono voti che tengano.
Qui, però, non tratto di questo pur importante problema di oggi, bensì del modo in cui lo ha commentato – con riferimenti al passato – Romano Prodi. Leggo (da Goffredo De Marchis su la Repubblica – virgolettato): “O si fanno le coalizioni oppure si perde. Io l’ho capito benissimo che si devono fare le coalizioni. Forse in anticipo. Per questo ho fatto l’Ulivo”.
Con tutta la stima per il Professore (così lo presenta De Marchis) l’enunciazione mi sembra molto sbrigativa e, almeno in parte, smentita dai fatti. E’ indubbio che le due vittorie elettorali che gli hanno aperto le porte di Palazzo Chigi, Prodi le ha riportate guidando una coalizione; ma è altrettanto certo che in ambedue i casi, dopo un paio d’anni, quelle stesse coalizioni persero pezzi non riuscirono a stare insieme e determinarono la caduta dei suoi governi.
Nel 1998 a vanificare la vittoria dell’Ulivo del 1996 ci pensò Bertinotti. Nel 2006, scomparso l’Ulivo non c’erano più neppure i collegi uninominali, sostituiti da un premio di maggioranza assegnato a chi prendeva un voto in più. Prodi costruì l’Unione, una coalizione larga con dentro tutti che, sia pure per un soffio, tagliò per prima il filo di lana; ma era a tal punto disunita e sgangherata che nel 2008 il suo creatore dovette gettare di nuovo la spugna.
Turigliatto non aveva la statura politica di Bertinotti; ma anche lui agiva su quel fianco sinistro lungo il quale lo schieramento di centrosinistra registra di solito le falle e le defezioni che lo mettono in crisi. E’ lo stesso fianco che oggi Zingaretti si affanna a presidiare; gli auguro che i risultati siano migliori di quelli esperiti da Prodi, anche se non mi è facile capire perché oggi le cose dovrebbero andare diversamente.
De Marchis fa seguire una sua chiosa alla enunciazione del Professore. “Il discorso – precisa – sembra valere per le Politiche dove ci sono i collegi ma anche per le Europee, dove gli accordi sono utili per ottenere un voto in più”. Il senso delle parole di Prodi è senza dubbio questo; ma proprio lui sa bene che ci sono occasioni nelle quali è meglio non sacrificare una posizione politica a obiettivi elettorali che, pur apparentemente migliori, compromettono quella stessa posizione.
A ottobre del 1998, quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi dal rifiuto di Bertinotti, non gli sfuggivano le manovre di non pochi complici acquattati all’ombra dell’Ulivo. Pochi mesi dopo decise perciò di presentarsi alle elezioni europee del 1999 da solo; da solo, altro che coalizione! Lo fece con la denominazione “I Democratici” e con il simbolo dell’asinello; prese quasi due milioni e mezzo di voti, il 7,73% ma soprattutto ottenne un successo politico perché dimostrò la inconsistenza delle posizioni di quanti avevano congiurato contro di lui.
Il fact checking è utile sempre, non solo sui social. In questo caso dimostra che le coalizioni, se mal fatte, possono farti prendere più voti ma poi determinano la tua caduta e – soprattutto – la rovina della politica che vorresti fare. Anzi, in qualche caso, per affermare e difendere quella politica devi perfino – come fece Prodi nelle europee di venti anni fa – competere da solo. Se le tue sono buone ragioni troveranno riscontro e anche i voti non mancheranno. Se, invece, sacrifichi la politica a convenienze immediate e precarie, non ci sono voti che tengano.
venerdì 5 aprile 2019
Le sfide per il futuro dell’Europa
Guido Formigoni
4 aprile 2019
L’Unione europea sta vivendo mesi cruciali su diversi fronti:
dalla Brexit alle elezioni del parlamento di maggio. Si ha quasi
l’impressione di stare su un crinale decisivo tra rilancio del
futuro di questa iniziativa e avvio di un circolo vizioso di crisi e
divisione. L’Europa è in questione. Perché ogni cittadina e
cittadino compia le sue scelte con consapevolezza, è bene avere in
mente l’orizzonte essenziali di problemi che ci sta davanti.
Proviamo a riassumerli – senza aver spazio per approfondirli – in
alcuni punti essenziali.
Primo. L’Europa non è un dato di fatto: non è difficile
constatare come non abbia evidenti basi comuni di lingua, storia,
cultura, identità. I popoli europei stanno insieme solo se si
accordano su un progetto condiviso per il futuro. Non si deve mai
dare per scontato questo elemento, non si deve dare per ovvia
l’identità europea, pena la sua sconfitta. Chi ci crede ha il
compito di continuamente rimotivarla e rilanciarla all’altezza
delle sfide dell’epoca. L’idea per cui il percorso «comunitario»
iniziato settant’anni fa tra sei paesi sia ormai irreversibile e
non possa che avanzare, spesso coltivata dagli europeisti, è
profondamente illusoria e sbagliata.
Secondo. L’Europa è davvero una necessità per il nostro
futuro. Ma occorre spiegarlo non con un vago appello alla cultura
delle origini o alle scelte dei nostri nonni. Sempre l’Europa è
stata un orizzonte di valore, che però ha funzionato quando
costituiva una risposta elaborata a un problema politico reale.
Originariamente, il problema della ripresa della Germania dopo
trent’anni di guerre. Possiamo dire che oggi ci sia un problema
analogo? A me pare del tutto evidente: dopo la crisi del 2008 e la
«grande stagnazione» successiva, noi conosciamo un mondo in cui i
giganti come Stati Uniti e Cina hanno rilanciato una statualità per
governare la globalizzazione (bene o male che lo stiano facendo). Un
appello forte in questa direzione oggi è più che mai opportuno:
l’Europa non può mancare al tavolo. Occorre ribadire che non c’è
futuro per piccoli-medi Stati europei se si isolano stizzosamente tra
di loro nel mondo dei giganti. Per cui la necessità dovrebbe muovere
l’ingegno.
Terzo. Le acquisizioni della storia hanno ormai distinto l’Europa
da altre parti del mondo, costituendo un patrimonio progettuale non
trascurabile, se valorizzato. Si pensi al discorso sul metodo di
rapporto tra gli Stati (metodo inclusivo e cooperazione invece che
egemonie e imposizioni; capacità di governo dell’economia senza
dirigismi ma senza subalternità ai mercati). Si pensi all’originale
modello sociale (una società che mira a integrare i perdenti
lottando contro le diseguaglianze eccessive; rapporti di mediazione
articolata tra i gruppi e i mondi sociali, invece che individualismo
anglosassone o “collettivismo” asiatico; mediazione continua tra
esigenze della crescita economica e esigenze della coesione sociale).
E forse, ancora più a fondo, c’è una concezione della persona
umana al di sopra della sicurezza o della stessa coesione
(integrazione delle diversità e anche delle religioni nel primato
della coscienza, ma anche nel dialogo reciproco; rifiuto della pena
di morte). Sono tutti tratti «europei» forti, non banali, che a
volte sottovalutiamo, ma che vanno sempre aggiornati.
Quarto. Qualcuno oggi dice che il vero scontro è tra europeisti e
«sovranisti» o «populisti». Mi pare uno schema riduttivo.
Infatti, è ambiguo dire che stanno con l’Europa solo coloro che
sostengono la linea politica e istituzionale dell’Unione negli
ultimi anni, a partire dalla risposta alla crisi secondo le regole
dell’austerità. L’Europa degli ultimi decenni ha seguito linee
quanto meno controverse (lo ha ammesso a denti stretti, recentemente,
lo stesso presidente della commissione Juncker). Non è un caso che
l’Unione europea “così com’è” si sia attirata molte
contrapposizioni. Quindi potrebbe e dovrebbe essere un messaggio
forte quello che dica: l’Europa è necessaria, ma apriamo un
dibattito franco su «quale Europa» oggi vogliamo. I veri europeisti
non si sottraggono a questa sfida.
Quinto. L’Europa interessa molto anche i credenti. La Chiesa
cattolica può giustamente fare appello a tradizioni europeiste
forti, da quando Pio XII ha proclamato san Benedetto patrono
dell’Europa. Sulle «radici cristiane dell’Europa» si è
discusso fin troppo: negarle è stato un patetico rifiuto della
storia; affermarle come rivendicazione di un primato non ha aiutato
una riflessione aperta. Anche in questo campo, però, non tutto è
ovvio. I vescovi europei fanno ultimamente sempre più fatica a
utilizzare questo retaggio per prendere posizioni comuni su temi
delicati come le migrazioni (segnatamente, i vescovi dei paesi
dell’Est spesso non si distaccano dai loro nazionalismi). C’è
quindi un processo di purificazione e di auto-verifica della
coscienza cristiana da sviluppare prima di poter lasciare un
messaggio positivo. Sarebbe utile aprire un confronto libero e
spregiudicato anche su come il cristianesimo parli oggi all’Europa.
mercoledì 3 aprile 2019
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