Matteo
Orfini | 14 aprile 2018
Negli
ultimi tempi un largo fronte di intellettuali, giornalisti e
opinionisti della stampa e della tv ha teorizzato con foga che il
Partito democratico non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di
appoggiare un governo del Movimento 5 Stelle. A sostegno della tesi
sono state portate varie, e anche opposte, motivazioni, come diverse
sono le premesse ideologiche dei numerosi promotori di simili
appelli: da quelli che pensano che un’alleanza M5S-Pd potrebbe
realizzare una sorta di socialismo dal volto umano, a quelli che
pensano, al contrario, che il Pd dovrebbe appoggiare un governo
cinquestelle proprio per garantire continuità rispetto a rigore nei
conti pubblici, vincoli europei e collocazione internazionale del
paese. Lascio da parte chi propone motivazioni di carattere
etico-spirituale, sostenendo che dovremmo cogliere tale opportunità
per «riscattarci». Tesi che ha comunque il pregio della coerenza:
avendo i cinquestelle (proprio come la Lega, non a caso) chiesto un
mandato agli elettori per smontare e capovolgere tutto quello che
abbiamo fatto noi, l’unico motivo plausibile per appoggiarli, da
parte nostra, non potrebbe essere che il desiderio di “riscattarci”
da tali responsabilità. Magari dopo una pubblica abiura.
Intendiamoci.
È giusto riflettere e discutere di tutto: della guerra e del fisco,
dell’euro e dell’immigrazione. C’è però qualcosa che viene
prima. Perché a dividerci dal Movimento 5 Stelle è anzitutto una
diversa idea della democrazia. Su questo, qualche giorno fa, Biagio
de Giovanni ha scritto sul Mattino cose importanti: un movimento che
si fonda sulla contestazione del principio della democrazia
rappresentativa mette in discussione la sintesi tra democrazia e
liberalismo su cui si fonda la nostra Costituzione, e l’intero
occidente liberaldemocratico. Accettare una simile posizione come
fosse un vezzo, o una simpatica stranezza, significa aprire le porte
a un principio autoritario che non a caso emerge quotidianamente
nella vita interna di quel movimento. E che da tempo si sta facendo
largo in vari modi, pericolosamente, nel mondo. Possiamo fingere di
non vederlo, in nome di convenienze tattiche o di un superiore, e
malinteso, interesse nazionale? E quale interesse nazionale è
superiore alla difesa dei principi-cardine della democrazia
rappresentativa? Questa è la prima domanda cui occorre
rispondere. Ma dobbiamo capirci bene, perché non stiamo parlando di
questo o quel punto di un programma elettorale, che può sempre
essere oggetto di trattativa e compromesso. Stiamo parlando della
ragione per cui facciamo politica. E stiamo parlando, anche, della
ragione più profonda della nostra sconfitta alle elezioni del 4
marzo.
Perché
la verità è che in Italia una maggioranza già c’è: è la
maggioranza formata da tutti quelli che pensano che legalità
significhi autoritarismo, che i diritti e le garanzie siano un
ostacolo e che per sconfiggere il crimine occorra soltanto riempire
le carceri, riempire i cittadini di armi e dar loro licenza di
uccidere. Lo ha scritto qui, benissimo, Andrea Vigani: «È una
maggioranza solida, stabile, contraria a ogni beneficio penitenziario
per i detenuti e alla funzione rieducativa della pena (e quindi alla
Costituzione), indifferente alla separazione dei poteri (e quindi
alla Costituzione), ostile alla libertà del mandato parlamentare (e
quindi alla Costituzione), che inneggia ogni giorno a una
Costituzione scritta dai partiti antifascisti ma ha un’idea dello
stato assai più simile a quella del regime precedente». Non c’è
bisogno di un comitato di professori per valutare il grado di
omogeneità politica del nostro o degli altri partiti a questi
valori. È evidente a tutti: questa è la vera base valoriale,
politica e culturale dell’intesa tra cinquestelle e Lega. Non è
questione di programma, ma di identità. Nel senso che sono proprio
la stessa identica cosa.
Per
questo non possiamo accettare la rappresentazione del Movimento 5
Stelle come forza di sinistra. E non solo perché si tratta di
un’affermazione sistematicamente smentita dagli interessati, i
quali, come tutte le organizzazioni della destra più reazionaria,
dall’Uomo qualunque degli anni cinquanta alle liste cripto-fasciste
dei consigli d’istituto della nostra giovinezza, dicono sempre di
non essere «né di destra né di sinistra». Il punto è che non
basta enunciare la necessità di protezione sociale per essere di
sinistra: lo fa anche Casapound. Il punto è che risposta si dà a
quell’esigenza. Il Partito democratico, ad esempio, è
contrario al reddito di cittadinanza non perché costa troppo, ma
perché ne considera inaccettabile l’idea di fondo, e cioè che il
lavoro sia solo lo stipendio, e quindi possa essere sostituito da un
assegno. Mentre per noi, per la nostra cultura politica, per la
nostra storia e per la Costituzione che lo afferma nel suo primo
articolo, il lavoro è ciò che garantisce dignità alla persona, è
lo strumento attraverso cui si costruiscono relazioni sociali e
soggettività politica, è il fondamento della cittadinanza. Del
resto, anche qui, se non ci si ferma alla superficie, si vede
chiaramente la naturale convergenza tra i cinquestelle e la destra.
Il principale tratto comune dei programmi economici del centrodestra,
infatti, è l’impegno a un drastico taglio della spesa pubblica con
cui finanziare la flat tax. Ma anche, volendo, il reddito di
cittadinanza. Non per niente – premesso che le due cose non possono
essere equiparate, in quanto la flat tax è agli antipodi dei
principi costituzionali e del modello sociale europeo, imperniato su
forte progressività delle imposte e welfare universalistico –
anche il reddito di cittadinanza viene proposto dai cinquestelle come
alternativa al welfare pubblico, per di più da realizzare insieme a
una forte riduzione delle tasse, e può quindi trovare le risorse
necessarie solo a una condizione: lo smantellamento dello stato
sociale. Senza dimenticare che anche la revisione della riforma
Fornero, se verrà realizzata, è destinata a essere finanziata con
un taglio massiccio delle pensioni del ceto medio (o a portare
l’intero sistema pensionistico al dissesto, e quindi alla messa a
rischio delle pensioni di tutti gli italiani).
Sono
solo alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare, del perché
non c’è alcuna possibilità di una collaborazione con il Movimento
5 Stelle, che non è una costola della sinistra e non è meno lontano
dal Partito democratico di quanto lo sia la Lega. Il Pd non può che
stare all’opposizione di entrambi questi partiti, che sono al tempo
stesso reazionari ed estremisti. E nessun confronto più o meno
strumentale potrà cambiare questo dato di fatto, se non snaturando a
tal punto la natura del Pd da decretarne la fine.
Opposizione,
però, non significa Aventino (che semmai è l’esatto contrario),
né “lasciar fare” i partiti usciti vincitori dalle urne, in
attesa che il pendolo dell’alternanza riconsegni a noi la guida del
paese. Nessuno ha in mente un’idea così inerziale del nostro
ruolo. Del resto, da quando in qua l’unico modo di fare
politica è stare al governo? Nessuna idea della politica è più
minoritaria di questa, che fa coincidere l’unica e sola possibilità
di giocare un ruolo con un posto in maggioranza. Mentre il principale
limite del Partito democratico è stato semmai proprio
nell’incapacità di svolgere appieno, nella società, quella
funzione nazionale ed europea che ha saputo svolgere dal governo,
difendendo l’interesse del paese nella battaglia contro l’austerity
e per una gestione comune dell’immigrazione, senza cedere né alla
facile demagogia dei populisti né alle teorie autolesioniste dei
liberisti di casa nostra. In questo senso, l’opposizione può
essere la trincea da dove presidiare l’interesse nazionale e i
principi costituzionali, ma anche il terreno su cui ricostruire il Pd
come grande partito nazionale, popolare ed europeo.
Quello
di cui sto parlando non ha evidentemente nulla a che fare con il
genere di opposizione che cinquestelle e Lega hanno fatto in questi
anni. E qui c’è un’altra differenza sostanziale tra noi e
loro. Un conto, infatti, sono la battaglia politica, la
propaganda e la polemica, anche le più aspre, che sono sempre
legittime. Altro conto sono le campagne di diffamazione,
l’insinuazione a prescindere e le accuse a casaccio come arma
politica quotidiana. È questo modo di sostenere le proprie posizioni
che deve essere combattuto, e non solo in politica, perché è una
minaccia per la convivenza civile, come sa chiunque abbia mai aperto
un social network. Non si tratta di buone maniere, ma di
trasparenza. Si tratta di ripulire il dibattito pubblico dall’uso
sistematico delle falsità e delle insinuazioni come strumento di
lotta politica. E questo, per noi, è la prima e irrinunciabile
condizione per parlare con chiunque: lo dobbiamo non solo ai nostri
militanti ed elettori, che sono stanchi di essere insultati, ma a
tutti gli italiani, che meritano un sistema democratico libero dalle
scorie della disinformazione e del fanatismo. Perché il modo in cui
si conduce la lotta politica non è una questione di forma o di bon
ton. È un tema di qualità della democrazia. Perché a forza di
delegittimare tutto si finisce per non credere in nulla, nemmeno
nella scienza, come dimostrano le assurde, e pericolosissime,
polemiche sui vaccini.
Non
sarebbe giusto, però, scaricare la responsabilità di questo
stato di cose esclusivamente sul Movimento 5 Stelle. La campagna
contro la politica e i partiti, contro le istituzioni, le forme e i
principi della democrazia rappresentativa è iniziata ben prima che
Beppe Grillo decidesse di aprire un blog. E il Partito democratico
che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti durante il
governo Letta e invitato a tagliare le poltrone dei politici durante
la campagna referendaria ha la sua buona parte di responsabilità.
D’altra parte, va detto che alla diffusione di quelle parole
d’ordine hanno contribuito per decenni, in una forma o nell’altra,
buona parte delle classi dirigenti liberali di questo paese,
l’ottanta per cento dei giornalisti e il 99 per cento degli
editori. E anche – dobbiamo dircelo – la sinistra. O almeno
la sinistra dell’indignazione perenne: quella che si compiace di
rappresentare una ristrettissima minoranza di puri imprigionati non
si sa come in un paese di farabutti. Nella Seconda Repubblica, nata
non a caso da due eventi opposti eppure convergenti come l’inchiesta
Mani Pulite e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, i riformisti
hanno denunciato sin dall’inizio quella deriva antipolitica e
sovversiva. E a chi ci spiegava che sbagliavamo, che la vera sinistra
era proprio quella che invocava la forca per gli avversari politici,
abbiamo sempre replicato che, al contrario, quella era la nuova
destra. E non solo perché faceva concretamente il gioco di
Berlusconi, ma perché della destra peggiore e più radicale assumeva
le parole d’ordine e la cultura: il gusto per la giustizia sommaria
e il capro espiatorio, la paura del futuro e la chiusura nei
confronti di ogni diversità, la pulsione autoritaria e il disprezzo
per i partiti e il parlamento. È questa la vera e indicibile ragione
per cui tanti intellettuali, di fronte all’abbraccio tra Di Maio e
Salvini, corrono in televisione o sui giornali a sostenere
l’insostenibile, pronti a negare l’evidenza, pur di allontanare
il sospetto che un governo Lega-M5S dimostri definitivamente chi
aveva ragione e chi aveva torto in quella discussione.
Per
averne conferma, basta vedere cosa sta succedendo nell’America
di Donald Trump, e l’influenza che la sua ascesa ha già avuto nel
mondo. Un salto di qualità che – come ha scritto qui Francesco
Cundari – impone di rivedere i termini del dibattito che la sua
vittoria, insieme con l’esito del referendum sulla Brexit, aveva
aperto anche tra di noi, a proposito del distacco tra sinistra
democratica e masse popolari. Se è vero, infatti, che il successo di
Trump è stato favorito anche dalla ritirata di una cultura
progressista che ha smesso di rappresentare larga parte dei nuovi
esclusi della globalizzazione, tra le manifestazioni anti-Trump che
chiedono limiti alla diffusione delle armi da fuoco e le
manifestazioni pro-Trump che gridano slogan contro neri ed ebrei
dietro svastiche e croci celtiche, nessuno può avere dubbi su dove
siano la destra e la sinistra, o su chi stia davvero dalla parte dei
più deboli. Certo che la sinistra non può occuparsi solo di diritti
civili, dimenticando la questione sociale, se non vuole trasformarsi
in una élite senza più rapporto col popolo. Ma se in nome della
questione sociale rinuncia al diritto, si trasforma in fascismo.
A
Macerata, dove un neonazista già candidato come consigliere
comunale dalla Lega si è messo a sparare ai migranti e a una sezione
del Pd, la Lega è passata dallo 0,6 al 20 per cento. E mentre Matteo
Salvini e gli altri leader del centrodestra non esitavano a
giustificare l’attentatore con parole incredibili, Luigi Di Maio e
i cinquestelle rifiutavano esplicitamente di commentare in alcun modo
l’accaduto, non fosse mai che una presa di posizione troppo netta
facesse loro perdere qualche voto. Magari proprio tra quegli ingenui
che li considerano ancora di sinistra. Ebbene, popolare o
impopolare che sia, anche di questo noi continueremo a parlare, e non
c’è considerazione di opportunità politica o elettorale che ci
farà indietreggiare di fronte al fascismo e alla violenza razzista.
Non a caso, nella tradizione della sinistra, popolo non è solo un
concetto sociologico, ma anche un concetto politico. Un concetto che
contiene almeno una dimensione costruita, plasmata e rivitalizzata
dalla politica: dalla sua capacità di suscitare aspettative e
opportunità, coscienza dei propri diritti e senso di appartenenza. E
anche fiducia. Perché a gridare che tutto fa schifo e non c’è
niente da fare si prenderanno magari gli applausi dei tanti disperati
ed esasperati che la crisi ha spinto ai margini, ma per costruire con
loro una via d’uscita dalla disperazione serve anzitutto fiducia in
se stessi e nel prossimo.
Per
poter dire qualcosa di significativo, però, la politica deve prima
riconquistare diritto di parola: questo è il punto decisivo che si
nasconde dietro le mille campagne contro la «casta». Perché
l’afasia che ha colpito la politica – e anche, come ha notato qui
Massimo Adinolfi, la filosofia – non ha colpito allo stesso modo
tutti i saperi. Politica e filosofia tacciono, e sembrano divenute
improvvisamente incapaci di dire una parola sul futuro, ma le scienze
parlano eccome. Sfornano continuamente proiezioni, stime e scenari,
con cui invitano la politica ad agire per sventare minacce
incombenti. Abbiamo sempre meno parole sul futuro, e sempre più
strategie per sterilizzarne i pericoli. Eppure è proprio questo il
compito che spetta oggi alla politica e al Partito democratico: fare
della politica il luogo in cui torna ad avere un senso ragionare sul
futuro, cioè su una cosa diversa da quella che c’è ora. Fare la
guerra allo scetticismo, al cinismo e al complottismo paranoico che
sembrano ormai dominare lo spirito del tempo, e che sono solo diverse
facce di un disperato individualismo.
Questo
è il posto che spetta oggi alla sinistra e al Pd, ed è un posto di
combattimento.
Nessun commento:
Posta un commento