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lunedì 30 aprile 2018
sabato 28 aprile 2018
CALMA E GESSO: TENIAMO UNITO IL PD, E SCIOGLIEREMO I NODI INSIEME
Enrico Borghi
Di fronte alla piega della situazione politica, vorrei esprimere qualche valutazione. Partendo da un dato a mio avviso decisivo. Dobbiamo avere in mente tutti –soprattutto noi dirigenti- che l’obiettivo di fondo deve essere mantenere unito il partito, e non piegarci alla tentazione pericolosissima di definire la nostra identità sul piano delle alleanze da fare. Circostanza che ci indurrebbe alla subalternità culturale, e ci metterebbe in una condizione di spaccatura interna perniciosa.
L’unità di un partito non si raggiunge con le prediche o gli appelli generici. La si raggiunge con la politica. E allora su questo, proviamo a dire qualche parola di verità.
La vicenda del nodo 5 Stelle fa venire a galla un tema da tempo messo nell’angolo, e riemerso dopo il 4 marzo in modo fragoroso: l’identità del Pd. Insomma, chi siamo e dove vogliamo andare. Sento in giro troppa aria di restaurazione, dentro il Partito, come se la Waterloo del 4 marzo potesse prefigurare un “Congresso di Vienna” dove le lancette del progressismo italiano vengono riposizionate a prima del 2013 (facendo magari rientrare qualche generale ammaccato) e da lì si ricomincia come se niente fosse cambiato. Questa idea subliminale sta alla base di un ragionamento aristocratico, che si esprime con una battuta che circola in salotti, redazioni giornalistiche, confronti politici: “i 5 stelle hanno i voti, noi abbiamo il cervello, li mettiamo insieme e si ricomincia!”. Sintesi greve, la mia, ma spero efficace di una corrente di pensiero che da Eugenio Scalfari in giù spinge per ridefinire il progressismo italiano dentro un’alleanza politica con il Movimento 5 Stelle (identificato come una sorta di “costola della sinistra”).
Credo che l’errore di questa posizione sia duplice: la prima perché concepisce la nostra identità in una dimensione subalterna rispetto ad altri, e la seconda perché assegna un connotato di progressismo ad una formazione politica che sotto questo profilo ha un cumulo immenso di contraddizioni da sciogliere (a cominciare dal suo refrain “destra e sinistra sono cose superate”).
Ma in ogni caso, resta il punto. Quello che il compagno Lenin avrebbe definito del “che fare”. Proviamo allora a metterci d’accordo sul piano preliminare interno. La discussione odierna sulle alleanze non è la prova tecnica di congresso. Se fosse questo, immaginare di forzare la mano con conte improbabili in direzione, muscolarismi interni o giochi di corridoio sarebbe esiziale per il Pd. Non possiamo fare un congresso informale e sotto mentite spoglie su questa vicenda. Il congresso –che deve essere fatto, e anche in fretta- dovrà ridefinire la nostra identità a prescindere dal quadro politico delle alleanze, che eventualmente discende dalla nostra identità e non può né precederlo né tantomeno definirlo. Altrimenti davvero resteremmo nel campo della subalternità, culturale e politica. E con essa, buona notte al progetto del Lingotto. Insomma, qualunque cosa decideremo di fare, o la fa si fa con Matteo Renzi o non la si fa. Immaginare di bypassare questo tema giocando di sponda sulla vicenda alleanze appare una tattica di cortissimo respiro, destinata ad evaporare rapidamente.
Chiarito questo aspetto, credo che un Pd dall’identità forte –che non si definisce sulla base delle alleanze, ma definisce queste dalla propria idea di Paese- e che si è sempre definito come partito con una cultura di governo, non debba avere timore di nessuno. E quindi non debba avere paura di confrontarsi nel merito, sia con il Movimento 5 Stelle che con il centrodestra, qualora il Presidente della Repubblica definisca un incarico.
Perché è solo così, entrando nel merito del confronto, che potremmo far esplodere le contraddizioni che esistono all’interno del centrodestra e del Movimento 5 stelle, che sono fortissime e che vengono tenute sotto la cenere solo grazie alla nostra straordinaria (e autolesionista) cacofonia.
Dentro il centrodestra, infatti, la differenza di visione strategica tra Salvini e Berlusconi è ormai a livelli di rottura conclamata. E sul piano di governo, mi piacerebbe capire come faranno stare insieme la posizione del presidente del parlamento europeo Tajani, merkeliano di ferro, e quella del principale collaboratore di Salvini, il mio omonimo Borghi Aquilini Claudio, che continua a teorizzare l’uscita dell’Italia dall’euro.
Dentro i 5 Stelle, solo il silenzio fuori ordinanza imposto leninisticamente da Rocco Casalino e dalla Casaleggio ed Associati impedisce di far emergere una posizione interna ai gruppi fortemente ostile a qualsivoglia abbraccio con noi.
E sul piano sociale, i miei sensori puntati sul territorio mi dicono che il popolo della Lega spinge a tutta velocità verso l’abbandono di Berlusconi e l’accordo con il Movimento 5 stelle.
Stiamo quindi molto attenti a non fare la fine di Mario Segni, che alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 sottoscrisse un accordo con Roberto Maroni che servì soltanto alla Lega Nord di Bossi per alzare il prezzo dell’accordo di Berlusconi, col risultato che Segni restò al palo e la Lega incassò da Berlusconi moltissimi seggi sui collegi del nord.
Abbiamo, insomma, molti motivi per andare cauti e soprattutto uniti a vedere le carte di questa vicenda, senza accelerazioni, senza isterismi e senza immaginare che la direzione del partito del 3 maggio sia il giudizio divino, l’ordalia dalla quale uscire con vincitori e sconfitti. Anche perché, su questo tema, io ritengo che si debba spolverare lo statuto del Pd e far emergere lo strumento del referendum degli iscritti per qualunque scelta noi si debba compiere.
Un gruppo dirigente all’altezza, a mio avviso, deve condurre questa difficilissima fase in questo modo, e per quel che mi riguarda cerco di dare in tal senso qualche riflessione che vada in questa direzione.
Di fronte alla piega della situazione politica, vorrei esprimere qualche valutazione. Partendo da un dato a mio avviso decisivo. Dobbiamo avere in mente tutti –soprattutto noi dirigenti- che l’obiettivo di fondo deve essere mantenere unito il partito, e non piegarci alla tentazione pericolosissima di definire la nostra identità sul piano delle alleanze da fare. Circostanza che ci indurrebbe alla subalternità culturale, e ci metterebbe in una condizione di spaccatura interna perniciosa.
L’unità di un partito non si raggiunge con le prediche o gli appelli generici. La si raggiunge con la politica. E allora su questo, proviamo a dire qualche parola di verità.
La vicenda del nodo 5 Stelle fa venire a galla un tema da tempo messo nell’angolo, e riemerso dopo il 4 marzo in modo fragoroso: l’identità del Pd. Insomma, chi siamo e dove vogliamo andare. Sento in giro troppa aria di restaurazione, dentro il Partito, come se la Waterloo del 4 marzo potesse prefigurare un “Congresso di Vienna” dove le lancette del progressismo italiano vengono riposizionate a prima del 2013 (facendo magari rientrare qualche generale ammaccato) e da lì si ricomincia come se niente fosse cambiato. Questa idea subliminale sta alla base di un ragionamento aristocratico, che si esprime con una battuta che circola in salotti, redazioni giornalistiche, confronti politici: “i 5 stelle hanno i voti, noi abbiamo il cervello, li mettiamo insieme e si ricomincia!”. Sintesi greve, la mia, ma spero efficace di una corrente di pensiero che da Eugenio Scalfari in giù spinge per ridefinire il progressismo italiano dentro un’alleanza politica con il Movimento 5 Stelle (identificato come una sorta di “costola della sinistra”).
Credo che l’errore di questa posizione sia duplice: la prima perché concepisce la nostra identità in una dimensione subalterna rispetto ad altri, e la seconda perché assegna un connotato di progressismo ad una formazione politica che sotto questo profilo ha un cumulo immenso di contraddizioni da sciogliere (a cominciare dal suo refrain “destra e sinistra sono cose superate”).
Ma in ogni caso, resta il punto. Quello che il compagno Lenin avrebbe definito del “che fare”. Proviamo allora a metterci d’accordo sul piano preliminare interno. La discussione odierna sulle alleanze non è la prova tecnica di congresso. Se fosse questo, immaginare di forzare la mano con conte improbabili in direzione, muscolarismi interni o giochi di corridoio sarebbe esiziale per il Pd. Non possiamo fare un congresso informale e sotto mentite spoglie su questa vicenda. Il congresso –che deve essere fatto, e anche in fretta- dovrà ridefinire la nostra identità a prescindere dal quadro politico delle alleanze, che eventualmente discende dalla nostra identità e non può né precederlo né tantomeno definirlo. Altrimenti davvero resteremmo nel campo della subalternità, culturale e politica. E con essa, buona notte al progetto del Lingotto. Insomma, qualunque cosa decideremo di fare, o la fa si fa con Matteo Renzi o non la si fa. Immaginare di bypassare questo tema giocando di sponda sulla vicenda alleanze appare una tattica di cortissimo respiro, destinata ad evaporare rapidamente.
Chiarito questo aspetto, credo che un Pd dall’identità forte –che non si definisce sulla base delle alleanze, ma definisce queste dalla propria idea di Paese- e che si è sempre definito come partito con una cultura di governo, non debba avere timore di nessuno. E quindi non debba avere paura di confrontarsi nel merito, sia con il Movimento 5 Stelle che con il centrodestra, qualora il Presidente della Repubblica definisca un incarico.
Perché è solo così, entrando nel merito del confronto, che potremmo far esplodere le contraddizioni che esistono all’interno del centrodestra e del Movimento 5 stelle, che sono fortissime e che vengono tenute sotto la cenere solo grazie alla nostra straordinaria (e autolesionista) cacofonia.
Dentro il centrodestra, infatti, la differenza di visione strategica tra Salvini e Berlusconi è ormai a livelli di rottura conclamata. E sul piano di governo, mi piacerebbe capire come faranno stare insieme la posizione del presidente del parlamento europeo Tajani, merkeliano di ferro, e quella del principale collaboratore di Salvini, il mio omonimo Borghi Aquilini Claudio, che continua a teorizzare l’uscita dell’Italia dall’euro.
Dentro i 5 Stelle, solo il silenzio fuori ordinanza imposto leninisticamente da Rocco Casalino e dalla Casaleggio ed Associati impedisce di far emergere una posizione interna ai gruppi fortemente ostile a qualsivoglia abbraccio con noi.
E sul piano sociale, i miei sensori puntati sul territorio mi dicono che il popolo della Lega spinge a tutta velocità verso l’abbandono di Berlusconi e l’accordo con il Movimento 5 stelle.
Stiamo quindi molto attenti a non fare la fine di Mario Segni, che alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 sottoscrisse un accordo con Roberto Maroni che servì soltanto alla Lega Nord di Bossi per alzare il prezzo dell’accordo di Berlusconi, col risultato che Segni restò al palo e la Lega incassò da Berlusconi moltissimi seggi sui collegi del nord.
Abbiamo, insomma, molti motivi per andare cauti e soprattutto uniti a vedere le carte di questa vicenda, senza accelerazioni, senza isterismi e senza immaginare che la direzione del partito del 3 maggio sia il giudizio divino, l’ordalia dalla quale uscire con vincitori e sconfitti. Anche perché, su questo tema, io ritengo che si debba spolverare lo statuto del Pd e far emergere lo strumento del referendum degli iscritti per qualunque scelta noi si debba compiere.
Un gruppo dirigente all’altezza, a mio avviso, deve condurre questa difficilissima fase in questo modo, e per quel che mi riguarda cerco di dare in tal senso qualche riflessione che vada in questa direzione.
Anche con il M5S se serve a rilanciare l’Europa
Giorgio Tonini
Democratica 26 aprile 2018
C’è qualcosa che manca, in questa lunga e confusa fase post-elettorale: non si vede la più pallida traccia di reale confronto su cosa si pensa e si vuole fare per l’Italia. La principale responsabilità di questo vuoto di idee e di proposte è del Movimento Cinquestelle, che sembra avere un solo obiettivo, politico e programmatico: portare Luigi Di Maio a Palazzo Chigi. Per i grillini quella sembra essere l’unica “variabile indipendente”, su tutto il resto si può trattare. Si può perfino teorizzare la possibilità di allearsi indifferentemente col partito più antieuropeo, sovranista, lepenista e putiniano, la Lega di Salvini, o invece col Partito democratico, che ha fatto delle discriminanti degasperiane, a cominciare dall’europeismo e dall’atlantismo, un motivo identitario. “Franza o Spagna, purché se magna”, si diceva un tempo: solo gli estremisti del moralismo possono essere capaci di tanto cinismo.
Va da sé, che se da parte del M5S si vuole davvero rendere possibile un confronto col Pd, questa fase surreale va dichiarata chiusa e per sempre. Al suo posto, va aperta una fase nuova, che faccia i conti in modo serio con i problemi del paese, per come li ha squadernati il voto del 4 marzo scorso.
Mettiamola così, per andare all’osso. L’Italia è il paese europeo col debito più alto e la crescita più bassa, a loro volta fattori di elevata disoccupazione e forti diseguaglianze. In questi anni, i governi guidati dal Pd hanno stabilizzato il debito, grazie ad un avanzo primario (l’1,9 per cento nel 2017) significativo e tuttavia compatibile con una ripresa della crescita e dell’occupazione. Il “sentiero stretto”, più volte evocato dal ministro Padoan, ha prodotto questi importanti risultati. Il Pd si è presentato agli elettori proponendo in sostanza una prosecuzione del cammino lungo questa strada, stretta e lenta, ma sicura. Sennonché, gli italiani hanno fragorosamente bocciato la nostra proposta e hanno premiato al Nord la Lega e al Sud i Cinquestelle. Al Nord, dove prevalgono i ceti che vivono del mercato, hanno chiesto meno tasse; al Sud, dove prevalgono quanti vivono di spesa pubblica, hanno chiesto più assistenza. Sia il Nord che il Sud hanno dunque chiesto, sia pure in modi diversi, l’azzeramento dell’avanzo primario e di conseguenza l’abbandono dell’obiettivo della riduzione del debito. Un effetto tragico, che moltiplicherebbe i suoi effetti nefasti nel caso si pensasse di sommare la riduzione delle tasse con l’aumento della spesa assistenziale.
Lo stallo politico nella costruzione di una maggioranza in grado di sostenere un governo nasce dunque anche, se non soprattutto, da questo stallo programmatico. Lega e Cinquestelle hanno fatto il pieno di voti su due linee parallele, che vanno nella stessa direzione, ma non possono incontrarsi senza determinare una situazione ingestibile per il paese. Non solo: il M5S sembra cominciare a capire che non può esserci una risposta sovranista e antieuropea al disagio espresso dalla società italiana nel voto del 4 marzo. Perché sul piano strettamente nazionale il rebus italiano è semplicemente senza soluzione: l’unica via per rendere compatibile la riduzione del debito con una crescita almeno moderata è il “sentiero stretto” seguito dai governi del Pd. Ma quella via è stata bocciata dagli elettori. E dunque?
E dunque non ci resta che l’Europa. L’unica via d’uscita dallo stallo è quella proposta da Macron: solo se si accende un potente motore europeo della crescita e dell’occupazione (la capacità di bilancio dell’Eurozona), sarà possibile per l’Italia (come per altri versi per la Francia) uscire dal debito in modo socialmente e politicamente sostenibile. Dunque è necessario e urgente che l’Italia torni in campo in Europa e affianchi Macron nella pressione negoziale sui tedeschi e i nordici, in vista della riforma dell’Eurozona. Se questo fosse il livello di ambizione messo in campo, e solo in questo caso, varrebbe la pena di correre il rischio di dar vita ad un governo, perfino col M5S.
mercoledì 25 aprile 2018
mercoledì 18 aprile 2018
Le bufale di Salvini
“il Pd ci
ha dato Legge Fornero e riempito l'Italia di immigrati".
La
Fornero è del 2011 voluta dal governo Monti.
L’immigrazione è
regolata dalla Bossi-Fini.
L’accordo di Dublino l'ha firmato Berlusconi.
L’accordo di Dublino l'ha firmato Berlusconi.
LA BREVE FELICE CARRIERA DI GIGGINO
Litiga con Salvini, ma non sa che Renzi lo aspetta dietro
la porta.
GIUSEPPE TURANI | 17/04/2018
Ho sempre sostenuto che gli strateghi della Casaleggio (inutile parlare di Di Maio) capiscano poco o niente di politica (ma molto di marketing). Adesso hanno fatto dire al loro candidato che si appresta a chiudere un forno (quello del Centrodestra) e che quindi rimarrà aperto solo il forno del Pd (che Di Maio e i 5 stelle non li vogliono vedere nemmeno in fotografia).
Ho sempre sostenuto che gli strateghi della Casaleggio (inutile parlare di Di Maio) capiscano poco o niente di politica (ma molto di marketing). Adesso hanno fatto dire al loro candidato che si appresta a chiudere un forno (quello del Centrodestra) e che quindi rimarrà aperto solo il forno del Pd (che Di Maio e i 5 stelle non li vogliono vedere nemmeno in fotografia).
Però la politica è bizzarra e quindi
non si sa mai. Un accorato appello del capo dello Stato, qualche
urgenza internazionale e magari il governo Pd-5 stelle prende corpo
davvero. Per ora si tratta quasi solo di fantasie di cronisti che non
sanno che cosa scrivere. Ma è evidente che i 5 stelle stiano
infilando la testa in un sacco senza sapere che gli andrà malissimo.
Non serve essere dei geni della
politica per capire che, se la Casaleggio chiude il forno Salvini e
lascia aperto solo quello Pd, di fatto si consegna mani e piedi
legati al “perdente” delle ultime elezioni.
Secondo certe indiscrezioni
(probabilmente inventate) sembra che Renzi non stia aspettando altro:
“A Di Maio gli porto via anche la cravatta”.
Infatti, se mai dovesse accadere, è
ovvio che il Pd, a quel punto unico possibile sostengo di un governo
che veda impegnati i 5 stelle, chiederebbe dei prezzi altissimi:
1- No Di Maio presidente, ma
personalità terza, magari anche più vicina al Pd che ai 5 stelle.
2- Vicepresidenza, Interni, Economia e
Esteri al Pd.
3- Il programma dei 5 stelle (che
cambia ogni due giorni e che contiene tutto e il contrario di tutto)
viene spedito direttamente nel cestino della carta straccia e Calenda
scrive il nuovo programma: prendere o lasciare.
In sostanza, il governo dei vincitori,
a quel punto, sarebbe un governo a trazione Pd e a Di Maio
rimarrebbero le inaugurazioni e il taglio dei nastri nelle fiere di
paese.
Ma, ripeto, si tratta quasi solo di
fantasie. Come quelle altre che vedono Berlusconi e i suoi uomini
alla caccia di grillini insicuri e incerti sul proprio destino. Ne
basterebbero qualche dozzina per fare un governo di Centrodestra
(senza grillini) e magari con l’appoggio esterno del Pd o con il Pd
che esce tatticamente dall’aula nel momento del voto di fiducia. In
questo caso, Di Maio alla finestra a contare le pecore.
Insomma, i giochi non sono ancora fatti
e per ora quello che si capisce è che il “vincitore” Di Maio non
è messo bene. Ostenta sicurezza e arroganza, ma sta per andare a
sbattere contro la realtà e la realtà dice che non può fare un
governo da solo: a qualunque forno si rivolga dovrà pagare un prezzo
elevatissimo: e la prima cosa che tutti chiederanno sarà la sua
testa, un po’ perché sta antipatico (persino a quella brava
persona di Mattarella) e un po’ perché è veramente ignorante.
Insomma, lui va dalla Gruber e parla
come se già fosse presidente del Consiglio. Invece i suoi giorni di
gloria sono quasi alla fine. E gli toccherà fare i conti con i suoi
personali fantasmi: Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, che gli daranno
il benservito. A casa, insomma.
La breve felice carriera del guappo
napoletano.
Acqua fuochino
Mattia Feltri
La Stampa 18 aprile 2018
Ieri il quotidiano Il Foglio ha
pubblicato un articolo in cui si dimostra che, dopo le elezioni, il
M5S ha cambiato il programma, quello scritto dal popolo e di cui si è
inorgoglito Davide Casaleggio sul Washington Post. Un solo esempio,
sulla Nato. Prima: «Disimpegno da tutte le missioni militari della
Nato». Dopo: «Aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato».
Però è arrivata la smentita: macché, non abbiamo cambiato nulla!
Ci perdoneranno gli amici del Foglio, ma tendiamo a dare credito ai
Cinque Stelle. È la storia che parla per loro, una storia di
granitica coerenza. Ve ne offriamo un saggio.
Di Battista 1. «Io sono per lo Ius
soli. È più italiano il figlio di immigrati nato in Italia
piuttosto che un argentino, nipote di italiani, che l’Italia non
l’ha mai vista». Di Battista 2: «Sullo Ius soli bisogna pensarci
per bene». Di Maio 1: «Vogliamo portare uno tsunami nell’Ue». Di
Maio 2: «L’Ue è la casa naturale del Movimento. Può essere lo
strumento per risolvere la crisi». Roberta Lombardi 1: «Fuori gli
indagati dallo Stato!». Roberta Lombardi 2: «Virginia Raggi
indagata? Abbiamo sempre detto che nel caso di un avviso di garanzia
bisogna valutare». Blog 1: «L’Italia non ha una legislazione per
le unioni di fatto. È una vergogna. Non c’è nulla di male a
essere gay. Fa invece schifo negare diritti per un pugno di voti».
Blog 2: «Le sensibilità sono varie. Sulle unioni di fatto lasciamo
libertà di coscienza». Grillo 1: «Uscire dall’euro il prima
possibile». Grillo 2: «Non ho mai detto di uscire dall’euro».
Ah, questi giornalisti.
lunedì 16 aprile 2018
Cinquestelle e Lega sono la stessa cosa: l’opposto della sinistra
Matteo
Orfini | 14 aprile 2018
Negli
ultimi tempi un largo fronte di intellettuali, giornalisti e
opinionisti della stampa e della tv ha teorizzato con foga che il
Partito democratico non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di
appoggiare un governo del Movimento 5 Stelle. A sostegno della tesi
sono state portate varie, e anche opposte, motivazioni, come diverse
sono le premesse ideologiche dei numerosi promotori di simili
appelli: da quelli che pensano che un’alleanza M5S-Pd potrebbe
realizzare una sorta di socialismo dal volto umano, a quelli che
pensano, al contrario, che il Pd dovrebbe appoggiare un governo
cinquestelle proprio per garantire continuità rispetto a rigore nei
conti pubblici, vincoli europei e collocazione internazionale del
paese. Lascio da parte chi propone motivazioni di carattere
etico-spirituale, sostenendo che dovremmo cogliere tale opportunità
per «riscattarci». Tesi che ha comunque il pregio della coerenza:
avendo i cinquestelle (proprio come la Lega, non a caso) chiesto un
mandato agli elettori per smontare e capovolgere tutto quello che
abbiamo fatto noi, l’unico motivo plausibile per appoggiarli, da
parte nostra, non potrebbe essere che il desiderio di “riscattarci”
da tali responsabilità. Magari dopo una pubblica abiura.
Intendiamoci.
È giusto riflettere e discutere di tutto: della guerra e del fisco,
dell’euro e dell’immigrazione. C’è però qualcosa che viene
prima. Perché a dividerci dal Movimento 5 Stelle è anzitutto una
diversa idea della democrazia. Su questo, qualche giorno fa, Biagio
de Giovanni ha scritto sul Mattino cose importanti: un movimento che
si fonda sulla contestazione del principio della democrazia
rappresentativa mette in discussione la sintesi tra democrazia e
liberalismo su cui si fonda la nostra Costituzione, e l’intero
occidente liberaldemocratico. Accettare una simile posizione come
fosse un vezzo, o una simpatica stranezza, significa aprire le porte
a un principio autoritario che non a caso emerge quotidianamente
nella vita interna di quel movimento. E che da tempo si sta facendo
largo in vari modi, pericolosamente, nel mondo. Possiamo fingere di
non vederlo, in nome di convenienze tattiche o di un superiore, e
malinteso, interesse nazionale? E quale interesse nazionale è
superiore alla difesa dei principi-cardine della democrazia
rappresentativa? Questa è la prima domanda cui occorre
rispondere. Ma dobbiamo capirci bene, perché non stiamo parlando di
questo o quel punto di un programma elettorale, che può sempre
essere oggetto di trattativa e compromesso. Stiamo parlando della
ragione per cui facciamo politica. E stiamo parlando, anche, della
ragione più profonda della nostra sconfitta alle elezioni del 4
marzo.
Perché
la verità è che in Italia una maggioranza già c’è: è la
maggioranza formata da tutti quelli che pensano che legalità
significhi autoritarismo, che i diritti e le garanzie siano un
ostacolo e che per sconfiggere il crimine occorra soltanto riempire
le carceri, riempire i cittadini di armi e dar loro licenza di
uccidere. Lo ha scritto qui, benissimo, Andrea Vigani: «È una
maggioranza solida, stabile, contraria a ogni beneficio penitenziario
per i detenuti e alla funzione rieducativa della pena (e quindi alla
Costituzione), indifferente alla separazione dei poteri (e quindi
alla Costituzione), ostile alla libertà del mandato parlamentare (e
quindi alla Costituzione), che inneggia ogni giorno a una
Costituzione scritta dai partiti antifascisti ma ha un’idea dello
stato assai più simile a quella del regime precedente». Non c’è
bisogno di un comitato di professori per valutare il grado di
omogeneità politica del nostro o degli altri partiti a questi
valori. È evidente a tutti: questa è la vera base valoriale,
politica e culturale dell’intesa tra cinquestelle e Lega. Non è
questione di programma, ma di identità. Nel senso che sono proprio
la stessa identica cosa.
Per
questo non possiamo accettare la rappresentazione del Movimento 5
Stelle come forza di sinistra. E non solo perché si tratta di
un’affermazione sistematicamente smentita dagli interessati, i
quali, come tutte le organizzazioni della destra più reazionaria,
dall’Uomo qualunque degli anni cinquanta alle liste cripto-fasciste
dei consigli d’istituto della nostra giovinezza, dicono sempre di
non essere «né di destra né di sinistra». Il punto è che non
basta enunciare la necessità di protezione sociale per essere di
sinistra: lo fa anche Casapound. Il punto è che risposta si dà a
quell’esigenza. Il Partito democratico, ad esempio, è
contrario al reddito di cittadinanza non perché costa troppo, ma
perché ne considera inaccettabile l’idea di fondo, e cioè che il
lavoro sia solo lo stipendio, e quindi possa essere sostituito da un
assegno. Mentre per noi, per la nostra cultura politica, per la
nostra storia e per la Costituzione che lo afferma nel suo primo
articolo, il lavoro è ciò che garantisce dignità alla persona, è
lo strumento attraverso cui si costruiscono relazioni sociali e
soggettività politica, è il fondamento della cittadinanza. Del
resto, anche qui, se non ci si ferma alla superficie, si vede
chiaramente la naturale convergenza tra i cinquestelle e la destra.
Il principale tratto comune dei programmi economici del centrodestra,
infatti, è l’impegno a un drastico taglio della spesa pubblica con
cui finanziare la flat tax. Ma anche, volendo, il reddito di
cittadinanza. Non per niente – premesso che le due cose non possono
essere equiparate, in quanto la flat tax è agli antipodi dei
principi costituzionali e del modello sociale europeo, imperniato su
forte progressività delle imposte e welfare universalistico –
anche il reddito di cittadinanza viene proposto dai cinquestelle come
alternativa al welfare pubblico, per di più da realizzare insieme a
una forte riduzione delle tasse, e può quindi trovare le risorse
necessarie solo a una condizione: lo smantellamento dello stato
sociale. Senza dimenticare che anche la revisione della riforma
Fornero, se verrà realizzata, è destinata a essere finanziata con
un taglio massiccio delle pensioni del ceto medio (o a portare
l’intero sistema pensionistico al dissesto, e quindi alla messa a
rischio delle pensioni di tutti gli italiani).
Sono
solo alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare, del perché
non c’è alcuna possibilità di una collaborazione con il Movimento
5 Stelle, che non è una costola della sinistra e non è meno lontano
dal Partito democratico di quanto lo sia la Lega. Il Pd non può che
stare all’opposizione di entrambi questi partiti, che sono al tempo
stesso reazionari ed estremisti. E nessun confronto più o meno
strumentale potrà cambiare questo dato di fatto, se non snaturando a
tal punto la natura del Pd da decretarne la fine.
Opposizione,
però, non significa Aventino (che semmai è l’esatto contrario),
né “lasciar fare” i partiti usciti vincitori dalle urne, in
attesa che il pendolo dell’alternanza riconsegni a noi la guida del
paese. Nessuno ha in mente un’idea così inerziale del nostro
ruolo. Del resto, da quando in qua l’unico modo di fare
politica è stare al governo? Nessuna idea della politica è più
minoritaria di questa, che fa coincidere l’unica e sola possibilità
di giocare un ruolo con un posto in maggioranza. Mentre il principale
limite del Partito democratico è stato semmai proprio
nell’incapacità di svolgere appieno, nella società, quella
funzione nazionale ed europea che ha saputo svolgere dal governo,
difendendo l’interesse del paese nella battaglia contro l’austerity
e per una gestione comune dell’immigrazione, senza cedere né alla
facile demagogia dei populisti né alle teorie autolesioniste dei
liberisti di casa nostra. In questo senso, l’opposizione può
essere la trincea da dove presidiare l’interesse nazionale e i
principi costituzionali, ma anche il terreno su cui ricostruire il Pd
come grande partito nazionale, popolare ed europeo.
Quello
di cui sto parlando non ha evidentemente nulla a che fare con il
genere di opposizione che cinquestelle e Lega hanno fatto in questi
anni. E qui c’è un’altra differenza sostanziale tra noi e
loro. Un conto, infatti, sono la battaglia politica, la
propaganda e la polemica, anche le più aspre, che sono sempre
legittime. Altro conto sono le campagne di diffamazione,
l’insinuazione a prescindere e le accuse a casaccio come arma
politica quotidiana. È questo modo di sostenere le proprie posizioni
che deve essere combattuto, e non solo in politica, perché è una
minaccia per la convivenza civile, come sa chiunque abbia mai aperto
un social network. Non si tratta di buone maniere, ma di
trasparenza. Si tratta di ripulire il dibattito pubblico dall’uso
sistematico delle falsità e delle insinuazioni come strumento di
lotta politica. E questo, per noi, è la prima e irrinunciabile
condizione per parlare con chiunque: lo dobbiamo non solo ai nostri
militanti ed elettori, che sono stanchi di essere insultati, ma a
tutti gli italiani, che meritano un sistema democratico libero dalle
scorie della disinformazione e del fanatismo. Perché il modo in cui
si conduce la lotta politica non è una questione di forma o di bon
ton. È un tema di qualità della democrazia. Perché a forza di
delegittimare tutto si finisce per non credere in nulla, nemmeno
nella scienza, come dimostrano le assurde, e pericolosissime,
polemiche sui vaccini.
Non
sarebbe giusto, però, scaricare la responsabilità di questo
stato di cose esclusivamente sul Movimento 5 Stelle. La campagna
contro la politica e i partiti, contro le istituzioni, le forme e i
principi della democrazia rappresentativa è iniziata ben prima che
Beppe Grillo decidesse di aprire un blog. E il Partito democratico
che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti durante il
governo Letta e invitato a tagliare le poltrone dei politici durante
la campagna referendaria ha la sua buona parte di responsabilità.
D’altra parte, va detto che alla diffusione di quelle parole
d’ordine hanno contribuito per decenni, in una forma o nell’altra,
buona parte delle classi dirigenti liberali di questo paese,
l’ottanta per cento dei giornalisti e il 99 per cento degli
editori. E anche – dobbiamo dircelo – la sinistra. O almeno
la sinistra dell’indignazione perenne: quella che si compiace di
rappresentare una ristrettissima minoranza di puri imprigionati non
si sa come in un paese di farabutti. Nella Seconda Repubblica, nata
non a caso da due eventi opposti eppure convergenti come l’inchiesta
Mani Pulite e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, i riformisti
hanno denunciato sin dall’inizio quella deriva antipolitica e
sovversiva. E a chi ci spiegava che sbagliavamo, che la vera sinistra
era proprio quella che invocava la forca per gli avversari politici,
abbiamo sempre replicato che, al contrario, quella era la nuova
destra. E non solo perché faceva concretamente il gioco di
Berlusconi, ma perché della destra peggiore e più radicale assumeva
le parole d’ordine e la cultura: il gusto per la giustizia sommaria
e il capro espiatorio, la paura del futuro e la chiusura nei
confronti di ogni diversità, la pulsione autoritaria e il disprezzo
per i partiti e il parlamento. È questa la vera e indicibile ragione
per cui tanti intellettuali, di fronte all’abbraccio tra Di Maio e
Salvini, corrono in televisione o sui giornali a sostenere
l’insostenibile, pronti a negare l’evidenza, pur di allontanare
il sospetto che un governo Lega-M5S dimostri definitivamente chi
aveva ragione e chi aveva torto in quella discussione.
Per
averne conferma, basta vedere cosa sta succedendo nell’America
di Donald Trump, e l’influenza che la sua ascesa ha già avuto nel
mondo. Un salto di qualità che – come ha scritto qui Francesco
Cundari – impone di rivedere i termini del dibattito che la sua
vittoria, insieme con l’esito del referendum sulla Brexit, aveva
aperto anche tra di noi, a proposito del distacco tra sinistra
democratica e masse popolari. Se è vero, infatti, che il successo di
Trump è stato favorito anche dalla ritirata di una cultura
progressista che ha smesso di rappresentare larga parte dei nuovi
esclusi della globalizzazione, tra le manifestazioni anti-Trump che
chiedono limiti alla diffusione delle armi da fuoco e le
manifestazioni pro-Trump che gridano slogan contro neri ed ebrei
dietro svastiche e croci celtiche, nessuno può avere dubbi su dove
siano la destra e la sinistra, o su chi stia davvero dalla parte dei
più deboli. Certo che la sinistra non può occuparsi solo di diritti
civili, dimenticando la questione sociale, se non vuole trasformarsi
in una élite senza più rapporto col popolo. Ma se in nome della
questione sociale rinuncia al diritto, si trasforma in fascismo.
A
Macerata, dove un neonazista già candidato come consigliere
comunale dalla Lega si è messo a sparare ai migranti e a una sezione
del Pd, la Lega è passata dallo 0,6 al 20 per cento. E mentre Matteo
Salvini e gli altri leader del centrodestra non esitavano a
giustificare l’attentatore con parole incredibili, Luigi Di Maio e
i cinquestelle rifiutavano esplicitamente di commentare in alcun modo
l’accaduto, non fosse mai che una presa di posizione troppo netta
facesse loro perdere qualche voto. Magari proprio tra quegli ingenui
che li considerano ancora di sinistra. Ebbene, popolare o
impopolare che sia, anche di questo noi continueremo a parlare, e non
c’è considerazione di opportunità politica o elettorale che ci
farà indietreggiare di fronte al fascismo e alla violenza razzista.
Non a caso, nella tradizione della sinistra, popolo non è solo un
concetto sociologico, ma anche un concetto politico. Un concetto che
contiene almeno una dimensione costruita, plasmata e rivitalizzata
dalla politica: dalla sua capacità di suscitare aspettative e
opportunità, coscienza dei propri diritti e senso di appartenenza. E
anche fiducia. Perché a gridare che tutto fa schifo e non c’è
niente da fare si prenderanno magari gli applausi dei tanti disperati
ed esasperati che la crisi ha spinto ai margini, ma per costruire con
loro una via d’uscita dalla disperazione serve anzitutto fiducia in
se stessi e nel prossimo.
Per
poter dire qualcosa di significativo, però, la politica deve prima
riconquistare diritto di parola: questo è il punto decisivo che si
nasconde dietro le mille campagne contro la «casta». Perché
l’afasia che ha colpito la politica – e anche, come ha notato qui
Massimo Adinolfi, la filosofia – non ha colpito allo stesso modo
tutti i saperi. Politica e filosofia tacciono, e sembrano divenute
improvvisamente incapaci di dire una parola sul futuro, ma le scienze
parlano eccome. Sfornano continuamente proiezioni, stime e scenari,
con cui invitano la politica ad agire per sventare minacce
incombenti. Abbiamo sempre meno parole sul futuro, e sempre più
strategie per sterilizzarne i pericoli. Eppure è proprio questo il
compito che spetta oggi alla politica e al Partito democratico: fare
della politica il luogo in cui torna ad avere un senso ragionare sul
futuro, cioè su una cosa diversa da quella che c’è ora. Fare la
guerra allo scetticismo, al cinismo e al complottismo paranoico che
sembrano ormai dominare lo spirito del tempo, e che sono solo diverse
facce di un disperato individualismo.
Questo
è il posto che spetta oggi alla sinistra e al Pd, ed è un posto di
combattimento.
IL PD HA UN FUTURO? Intervista a Giorgio Tonini
blog CONFINI
Pierluigi Mele
10 aprile 2018
Giorgio Tonini, dopo quattro
legislature lei non si è ricandidato e adesso è un ex-senatore, ma
rimane un esponente politico del PD, autorevole perché di grande
esperienza (nella precedente legislatura è stato, tra l’altro,
Presidente della Commissione Bilancio del Senato). Proviamo, per
quanto è possibile, a fare un ragionamento sulla crisi del suo
partito. Non si può non prendere le mosse dalle cause della
sconfitta. Come è stato possibile che un intero gruppo dirigente non
si sia accorto del grido di dolore, di protesta che saliva dalla
società? Eppure la sconfitta referendaria del famoso 4 dicembre
avrebbe dovuto essere motivo di grande allarme…
Non credo si possa dire che, al di là
della propaganda, il gruppo dirigente del Pd pensasse di poter
vincere le elezioni. Dopo il 4 dicembre era chiaro a tutti che nel
paese era in atto una crisi di rigetto nei confronti del nostro
riformismo. In particolare, tutti sapevamo di essere tagliati fuori
dal confronto politico nel Mezzogiorno: l’area del paese che aveva
pronunciato il No più categorico al referendum costituzionale,
un’area nella quale la partita era tra la destra e Cinquestelle,
con un forte vantaggio del movimento grillino. Sapevamo che anche al
Centro, nelle tradizionali roccaforti rosse, rischiavamo un pesante
ridimensionamento, anche a causa di una scissione che, contrariamente
a quel che pensavano i leader di LeU, sarebbe stata a somma negativa.
In molti (ed io ero tra questi), speravamo in un risultato migliore
al Nord, ove era ed è maggiormente percepibile un dividendo sociale
della ripresa economica. Ma abbiamo sottovalutato quella che io
chiamo la “sindrome bavarese”: un malessere diffuso, in gran
parte indotto dal complesso fenomeno dell’immigrazione e che, anche
nella regione più prospera della Germania, ha penalizzato fortemente
il partito di governo, la Csu, l’alleato fondamentale della Merkel.
Alla fine il risultato è stato peggiore delle previsioni più
pessimistiche per il Pd, molto lontano, in peggio, perfino dalla
sconfitta del 4 dicembre. Al di là del dato numerico, tuttavia, sul
piano politico si è verificato quel che si prevedeva: una sconfitta
del Pd, ma senza nessun vincitore, nessuno in grado di avere i numeri
per governare sulla base di un chiaro mandato elettorale. Non riesco
a non dire che solo se fosse stata approvata la riforma
costituzionale, insieme all’Italicum, avremmo oggi un governo
deciso dagli elettori. Il 19 marzo avremmo avuto il turno di
ballottaggio, che probabilmente avrebbe visto uno spareggio tra
Cinquestelle e Pd. Ma i due vincitori del 4 marzo, la destra e i
Cinquestelle, il 4 dicembre avevano preferito puntare sullo sfascio,
pur di abbattere Renzi, il governo e il Pd. E oggi, per uno dei
frequenti paradossi della storia, devono chiedere al Pd i voti per
governare…
La sconfitta è figlia di tanti errori,
ma qual è stato l’errore “letale” fatto dal PD?
Aver pensato che il 40 per cento delle
europee fosse una delega in bianco. E non aver colto che in quel voto
c’era una contraddizione interna che non sarebbe stato facile
sciogliere. Mi riferisco alla contraddizione tra la componente
populista del renzismo, quella che ne faceva una proposta in netta
discontinuità con le politiche del governo Monti, una discontinuità
simboleggiata dagli 80 euro, che sono parsi annunciare una nuova
stagione redistributiva, e la necessaria, vorrei dire inevitabile,
disciplina europea della politica economica dell’Italia, che ha
segnato, io dico positivamente, l’azione del governo Renzi e, in
modo ancora più netto, quella del governo Gentiloni. Per la verità,
Renzi a me è parso sempre consapevole di questa contraddizione, di
questa tensione tra un voto al Pd in quanto unico partito europeista
e un voto al renzismo, in quanto versione omeopatica del populismo.
Renzi e noi con lui abbiamo pensato che l’unico modo possibile di
gestire questa tensione tra europeismo e populismo fosse scommettere
sul riformismo, innanzi tutto a livello europeo. E infatti il 40 per
cento del Pd è servito a “riformare”, all’insegna della
flessibilità, il Patto di stabilità e crescita e il Fiscal Compact.
Lo stesso indirizzo espansivo della politica monetaria, impresso da
Draghi alla Bce, è stato coerente con questa riforma europea. Ma il
riformismo, come ha ripetutamente spiegato il ministro Padoan, è un
“sentiero stretto”, che impone una pazienza e una disciplina
condivise, a livello diffuso, tanto più per un Paese come il nostro,
afflitto da problemi strutturali immensi: il debito pubblico più
grande, la demografia peggiore, la produttività più bassa, il più
alto livello di disuguaglianza, la più estesa area di sottosviluppo
in Europa. Qui facciamo i conti con il limite più grave della
politica renziana: la sottovalutazione del ruolo del partito,
strumento essenziale per costruire questa consapevolezza diffusa.
Renzi può invocare molte attenuanti, perché nessuno dei suoi
predecessori ha davvero capito la necessità di costruire modalità
innovative di organizzazione politica della società civile. Resta il
fatto che lui ha sostanzialmente abbandonato questa decisiva
frontiera e quando ha avuto bisogno del partito ha trovato solo
macerie: quello che doveva essere non un “nuovo partito”, ma un
“partito nuovo” era ridotto ad una confederazione di correntine,
un po’ patetiche e molto ridicole, naturalmente in perenne lotta
tra loro, per un potere che si stava sbriciolando.
Non le ha fatto impressione che
parecchi lavoratori iscritti alla Cgil abbiano votato 5Stelle e Lega?
No, perché purtroppo non è una
novità. Sono decenni che il voto operaio va in maggioranza a destra.
Anche nel 2013 il Pd di Bersani si era piazzato al terzo posto nelle
preferenze degli operai, dopo Cinquestelle e destra. Si potrebbe
ricercare una radice antica di questo fenomeno perfino nel
gramscismo, che stabilì il primato della “riforma intellettuale e
morale” su quella economica e sociale… Forse è anche per questa
ragione che non abbiamo mai avuto in Italia un grande partito
riformista, perché la sinistra ha preferito discutere per decenni su
come riformare il comunismo, anziché su come riformare il
capitalismo… Chissà, forse se avessimo avuto Di Vittorio, invece
di Togliatti, alla guida della sinistra italiana, le cose sarebbero
andate diversamente… Ma senza andare troppo indietro, in tutta la
Seconda Repubblica, dal 1994 ad oggi, solo una volta il
centrosinistra ha avuto la maggioranza dei voti operai: è stato alle
elezioni europee del 2014, quelle del Pd al 40 per cento. Semmai, la
brutta notizia delle elezioni del 4 marzo è che abbiamo perso il
primato nel voto degli impiegati, in particolare pubblici, a
cominciare dagli insegnanti.
Ora da parte di alcuni intellettuali, e
anche riviste vicine alla sinistra si chiede di sciogliere “questo”
PD e ripensare, in profondità, le ragioni di una forza di sinistra
nel nostro Paese. Insomma siamo all’anno zero della sinistra
italiana?
Ecco, appunto: torniamo a discutere di
come riformare la sinistra, invece di come riformare il Paese…
Pensiamo alla quantità di energia sprecata nella scissione, motivata
dalla ricerca della sinistra perduta: tonnellate di carta, milioni di
parole, per spostare seimila voti, quelli che, sulla base dei conti
dell’Istituto Cattaneo, LeU ha preso in più nel 2018, rispetto a
quelli che Sel aveva preso da sola nel 2013. Seimila voti, su 60
milioni di italiani. Lo 0,01 per cento. L’ex-presidente del Senato,
Piero Grasso, è tornato a Palazzo Madama alla testa di un gruppo di
quattro senatori, compreso se medesimo. E al suo posto ora c’è una
pasdaran berlusconiana, eletta coi voti dei Cinquestelle. Un
capolavoro di eterogenesi dei fini. No, non è riaprendo l’inutile
disputa teologica circa l’essenza della sinistra che ritroveremo la
via delle menti e dei cuori degli italiani. Per me un partito è
fatto di tre cose: una visione del mondo, che per noi è data dal
tentativo mai perfetto di coniugare crescita economica e uguaglianza
sociale nella democrazia; un programma, fatto di risposte concrete ai
problemi del Paese; e un’organizzazione per elaborarlo in modo
collettivo e realizzarlo col consenso dei cittadini. Il programma non
può essere altro che un nuovo tentativo di quadrare il cerchio tra
europeismo e populismo, attraverso il riformismo. Dobbiamo smontare
mentalmente quello che abbiamo fatto e rimontarlo in modo più
convincente. E dobbiamo mettere mano ad una nuova forma di
organizzazione politica, mutuando le tecniche organizzative più
efficaci e innovative dal mondo che vive attorno a noi.
L’organizzazione è una scienza, che ha prodotto tecniche
sofisticate. E invece noi l’abbiamo affidata a dei praticoni, senza
alcun investimento intellettuale, professionale, finanziario.
Per qualcuno una via d’uscita alla
crisi è quella “macroniana”, ovvero costruire un partito
alla Macron… A me sembra una cosa che non risponde alla crisi
del Pd. C’è stato un voto chiaramente antiestablishment e si
propone, invece, un modello che è establishment o tecnocratico.
Certo alcuni valori di Macron, vedi l’Europa, sono importanti altri
sono distanti. Qual è il suo pensiero?
Il mio pensiero è che la inaspettata
vittoria di Macron ha salvato l’Europa, che sarebbe morta se avesse
vinto il fronte nazionalista lepeniano. Salvando l’Europa, Macron
ha rimesso la Francia al centro della politica europea, rilanciando
l’asse franco-tedesco. Nei due anni precedenti non era stato così.
Dalle europee del 2014 fino al referendum costituzionale, l’Europa
era stata guidata da un asse italo-tedesco, con l’Italia di Renzi
che non ha imposto la sua agenda, questo no, ma è riuscita a
condizionare in modo significativo quella tedesca. La crisi del Pd, a
partire dal 4 dicembre 2016, e il parallelo riemergere prepotente
della Francia di Macron, hanno ristabilito il vecchio schema, che
prevede il primato franco-tedesco e l’Italia come partner debole
dei due più forti, insidiata dalla Spagna nel ruolo di numero 3. Ora
il Pd non ha più la forza di imporre il suo gioco e non vedo per noi
altra vocazione che quella originaria: essere parte della famiglia
socialista per costruire un centrosinistra europeista più ampio, che
abbia oggi in Macron il suo primo interlocutore. Penso che il primo
obiettivo dovrebbe essere quello di individuare, per le elezioni
europee del ‘19, un candidato comune alla presidenza della
Commissione europea, in alternativa a quello che proporranno i
popolari. Non si tratta quindi, per il Pd, di scegliere tra Macron e
i socialisti, ma di lavorare ad un’alleanza tra queste forze.
Il futuro di Matteo Renzi?
Un vecchio sindacalista diceva: se non
riesci ad essere una risorsa, cerca almeno di diventare un problema.
Ecco, io spero che Renzi non ascolti consigli come questo. Spero che
lavori ad un disarmo bilanciato delle correntine che stanno
dilaniando il Pd, che oggi appare diviso tra fedelissimi del capo
sconfitto e nostalgici della sconfitta precedente. Due posizioni, una
più respingente dell’altra. Mi auguro che Renzi nutra l’ambizione
di aprire una fase nuova, mostrando il coraggio dell’umiltà e
dell’inclusione.
Torniamo al partito. Nel progetto del
PD, sintetizzato nella sua carta dei valori, c’era il meglio del
riformismo italiano. Era presente un’eco della “terza via”. Una
“terza via” che non è stata capace di regolare la
globalizzazione. Anzi, per certi versi, è apparsa troppo
accondiscendente. Insomma se un qualche “ripensamento” andrà
fatto dove trovare sul piano culturale politico spunti per una nuova
“lingua” del PD?
Non ho mai condiviso questi giudizi
sommari sulla “terza via”, perlopiù pronunciati da esponenti
della sinistra minoritaria, se non gruppuscolare, quella che sogna la
bella sconfitta e disprezza le brutte vittorie, quelle che fanno i
conti col principio di realtà. La “terza via”, da un secolo a
questa parte, è sempre stata il sinonimo del riformismo. La “terza
via” è la riforma del capitalismo, il suo condizionamento
attraverso l’azione sociale e politica, la sua graduale
trasformazione in economia sociale di mercato. Il problema oggi
aperto davanti al riformismo, nei paesi occidentali, è che la via
riformista per tutto il Novecento ha potuto fare leva sullo Stato
nazionale, perché era a quel livello che era possibile condizionare
in modo efficace il capitalismo, mentre oggi questo non è più
possibile. Il capitalismo globalizzato sfugge alla regolazione degli
Stati nazionali. Di qui la vera alternativa del tempo presente:
ristabilire il primato degli Stati nazionali, anche a costo di
sacrificare lo sviluppo capitalistico, in realtà lasciandolo ad
altri, o invece adeguare gli strumenti di regolazione, spostandoli ad
un livello sovranazionale, nel nostro caso almeno europeo e in parte
transatlantico. Ecco, io penso che il nostro problema non sia oggi
rinunciare alla “terza via” in nome di una chiusura
neo-sovranista, sulla linea vagheggiata da Trump, ma di costruirla,
la “terza via”, la riforma del capitalismo, ad un livello
sovranazionale, sulle orme del grande lavoro fatto negli anni scorsi
da Obama. Cominciando dalla riforma europea, sulla falsariga di
quella proposta da Macron.
Se lei dovesse indicare, in estrema
sintesi, le priorità del PD quale metterebbe?
La riforma europea. La costruzione di
una sovranità europea condivisa tra gli Stati che accettano di
farlo. Difesa, sicurezza, immigrazione, frontiere comuni. E poi, nodo
decisivo, una capacità di bilancio dell’Eurozona. Solo se
riusciremo a rimettere in moto la costruzione di un’Europa
politica, potremo quadrare il cerchio in Italia tra crescita,
occupazione e riduzione del debito. Per ridurre il debito dobbiamo
fare un elevato avanzo primario, ossia destinare a quell’obiettivo
una quota significativa di entrate fiscali, che per molti anni devono
essere sottratte a investimenti produttivi e servizi sociali. Ma il
voto del 4 marzo ci dice che il Paese non ce la fa più a sostenere
questo sforzo. Perché è un paese che da troppo tempo non investe
più sul futuro: infrastrutture materiali e immateriali, scuola,
università, ricerca, innovazione. Solo se scende in campo l’Europa,
attraverso un bilancio dell’Eurozona, a sostegno della crescita e
dell’occupazione, il doveroso e indispensabile rientro dell’Italia
dal debito può farsi sostenibile. Anche politicamente.
Ultima domanda: Ha qualche consiglio da
dare ai suoi amici impegnati nelle consultazioni?
Penso che il Pd abbia il dovere di
avanzare una proposta programmatica per il governo del Paese. Poi è
evidente che, sulla base dei rapporti di forza in parlamento, la
costruzione di un assetto di governo non è nelle nostre mani. Ma
dobbiamo evitare di trasmettere ai cittadini sia l’impressione che
ci chiamiamo fuori da ogni responsabilità per rabbia e per rancore,
sia la sensazione di essere alla ricerca di una quota di potere a
qualunque costo. Alcuni punti programmatici molto chiari possono
rendere comprensibile la nostra scelta, qualunque essa risulti
essere, alla fine di una crisi politica che certo non sarà breve.
martedì 10 aprile 2018
La corazzata Potëmkin è...
La Stampa 10 aprile 2018
Mattia Feltri
Salvini 1: «Quello italiano è uno
Stato di m...». Salvini 2: «Fornero, la cambieremo la tua legge
infame, e vaffan...». Salvini 3: «Bruxelles è il Quarto Reich.
Sono nazisti. Una presa per il c...». Salvini 4: «Napoli m...
Napoli colera». Salvini 5: «Per i bastardi ci vuole la castrazione
chimica».
Salvini 6: «Quello di Monti è un
governo fascista come neanche nel Ventennio». Salvini 7: «Chi è al
governo è un imbecille». Salvini 8: «Alfano, sei un personaggio
inutile e incapace, cretino che non sei altro». Salvini 9: «Manuel
Valls? Uno scemo. È tutto scemo». Salvini 10: «Quest’Italia mi
fa schifo».
Salvini 11: «Sto leggendo delle
dichiarazioni di Mattarella e mi incazzo come un bufalo». Salvini
12: «Renzi ha le mani sporche di sangue». Salvini 13: «Prodi ci ha
portato in una moneta criminale che ha fatto morti e feriti».
Salvini 14: «I clandestini devono andare a casa a calci in culo».
Salvini 15: «La Corte di Strasburgo ha rotto le palle».
Salvini 16: «Napolitano ha rotto le
palle, va arrestato». Salvini 17. «Non rompeteci i c... con i
diritti umani». Salvini 18: «Della riforma costituzionale me ne
fotto». Salvini 19: «Unione europea ipocrita, governo schifoso».
Salvini 20: «Quell’infame di Renzi».
Salvini 21: «Renzi è un fesso».
Salvini 22: «Di Maio è un ignorante e un incompetente
ineguagliabile. Fa soltanto cabaret». Salvini 23: «Umiltà,
coerenza, ascolto e buon senso. Per governare occorrono queste doti,
con l’arroganza e l’egoismo non si costruisce nulla».
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