Giorgio Armillei
8 novembre 2017
dal blog landino
Con il consueto equilibrio dello
storico attento ai dettagli e alle dinamiche di sistema, Guido
Formigoni torna* su un trittico fondamentale in questa fase di post
transizione e di mancato consolidamento: le regole istituzionali, gli
allineamenti politici e infine il rapporto tra politica ed economia
nel tempo della globalizzazione. L’analisi è accurata ma lo
sguardo sembra ancora una volta preda di una linea continuista che
sotto traccia attraversa tutto il percorso di una parte del
cattolicesimo democratico dalla fine degli anni ottanta in poi.
Dall’analisi si giunge così a considerazioni di prospettiva che
appaiono poco convincenti. Vediamo più in dettaglio.
Del pregiudizio sulla
sovrastrutturalità delle regole istituzionali. Così potremmo
chiamare il senso del discorso iniziale di Formigoni. Contano le
volontà politiche, le culture politiche, gli interessi politici: le
regole sono secondarie e non determinano il destino delle policy. Le
cose non stanno così. Non solo non stanno così nella storia
politica delle democrazie avanzate ma non stanno così neppure nella
cultura del cattolicesimo politico italiano. Dalle discussioni in
sede di assemblea costituente alla stagione delle riforme di fine 900
è tutto un susseguirsi di strategie e di decisioni dirette a
conformare attraverso le regole istituzionali gli esiti del gioco
politico nazionale. E dunque a fare policy con la politics. Sarebbe
ben strano concludere che De Gasperi, Elia, Scoppola, Ruffilli hanno
perso il loro tempo dietro a questioni sovrastrutturali.
Dell’impossibilità di avere Macron
senza De Gaulle. Sarebbe altrettanto strano immaginare, per venire al
secondo elemento, un Macron senza le regole istituzionali della
quinta repubblica riviste con le riforme del 2000. Senza gollismo
costituzionale non avremmo Macron si potrebbe tranquillamente dire.
La costruzione di un allineamento politico nuovo tra apertura
europeista e chiusura sovranista è stata non solo resa possibile ma
in qualche modo fabbricata dagli assetti costituzionali francesi.
Tanto che lo stesso allineamento non si riesce a produrre in Italia,
nonostante gli equilibri politici e gli orientamenti culturali
presentino caratteristiche assai simili, esattamente perché noi non
disponiamo di quegli attrezzi istituzionali. O meglio ne dispongono
paradossalmente Comuni e Regioni ma non ne dispone il sistema
politico nazionale.
Non si tratta quindi di inseguire la
ricostituzione di un tramontato spirito ulivista che assai spesso,
Formigoni dovrà concederlo anche se non nel suo caso, nasconde
l’inseguimento dell’alleanza rocambolesca messa in piedi
dall’Unione prodiana nel 2006. Proprio da quel 2006 si è scelto di
puntare sul PD come partito dell’Ulivo, così letteralmente
Salvatore Vassallo nella relazione di Orvieto: un genitivo oggettivo
e non soggettivo. Un partito nuovo e non un PD federazione di
partiti, di anime, di culture. Quella scelta ha consentito gli unici
(pochi) successi dei governi PD di questa legislatura e da quella
scelta deve ripartire il PD. Certo lo scenario è ora diverso: la
sconfitta nel referendum e l’ondata populista hanno cambiato le
carte in tavola. E tuttavia solo quel modello di PD può dare una
prospettiva ai governi della prossima legislatura, governi che
saranno strutturati proprio sulla frattura tra apertura europeista e
chiusura sovranista e non più soltanto su quella assai indebolita
tra destra e sinistra. Governi e maggioranze che non potranno non
rimettere in moto processi di riforma costituzionale, guardando
proprio al modello francese. Proprio nel senso in cui scriveva
Leopoldo Elia nel 1970: “perché dobbiamo eleggere una serie di
parlamentari che contano mediocremente e non possiamo invece
scegliere un capo del governo nel quale si accentrano i maggiori
poteri di indirizzo politico?”.
Non ultimo quel modello di PD può
impedire che dalle prossime elezioni esca ancora una volta il solo
Berlusconi come leader riformatore e antipopulista. Situazione del
tutto inefficace, in considerazione dei rapporti di forza tra
liberali e populisti all’interno del centrodestra, e per di più
espressione plastica di una totale incapacità di cambiamento e di
riforma delle élite politiche del centrodestra e del paese.
Dell’allineamento tra apertura e
globalizzazione. Un altro passaggio critico del discorso di
Formigoni. Verrebbe innanzi tutto da ricordare come un sindacalista
rigoroso come Marco Bentivogli abbia più volte ricondotto
all’istinto conservatore di culture e interessi politici la
puntigliosa ricerca dei mali della globalizzazione e la meno
dettagliata e convincente presentazione dei rimedi. Viva la
globalizzazione, dice Bentivogli: ancora una volta ci troviamo di
fronte alla frattura tra apertura e chiusura, una frattura che
attraversa i vecchi mondi di destra e di sinistra: il voto
parlamentare europeo e nazionale sul trattato CETA lo ha dimostrato
plasticamente. Non sembra dunque esserci spazio per posizioni di
compromesso: o si torna al sovranismo statalista o si riformano e si
aggiornano le pratiche e le regole del globalismo istituzionale. Un
globalismo fatto di istituzioni economiche, politiche, religiose,
scientifiche. Senza primati e senza egemonie. Quella a cui ci
richiama Papa Francesco, fuori da scorciatoie populiste o
politiciste.
Ecco perché l’analisi di Formigoni
non appare convincente. L’indice del libro è quello giusto: regole
istituzionali, alleanze e riforme; globalizzazione e crescita. Ma i
capitoli sono scritti guardando a una tradizione intellettuale che
rischia di consegnarsi alla marginalità, forse vittima dei suoi
idoli prima ancora che delle sue idee.
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