Alberto De Bernardi e Mario
Rodriguez
Italia Viva ha prodotto una indubbia
lacerazione, che però salvo alcuni rari casi è stata analizzata
seguendo l’indirizzo prevalente assunto dalla maggioranza del
partito e dagli opinionisti d’ “area” come una decisione
avventata, che appartiene più al campo della psicologia, o meglio
della psicopatologia di uno malato di leaderismo incontenibile, fino
alla valutazione espressa da Orlando nella sua relazione alla
direzione del Pd di una scelta personalistica, non “motivata da
processi storici e politici” in cui sui mescolano “malesseri”
“aspirazioni personali”, che nessuno dei presenti ha smentito.
La psicopatologia della leadership
Orlando forse non lo sa ma nella
tradizione politica da cui proviene – il comunismo – l’accusa
di personalismo apriva immediatamente le porte al sistema
concentrazionario bolscevico. Ma l’affermazione è ancor più
stupefacente se si guarda al tempo presente: le nostre sono le
giornate nelle quali una giovane donna di 16 anni parla all’Onu di
ambiente, nelle quali si discute della brexit e il Sistema
Westminster, modello per decenni, sembra entrato in crisi; nelle
quali in Spagna si rivota per la quarta volta in un anno; nelle quali
le innovazioni tecnologiche nel campo della IT stanno creando un
cambiamento che taluni paragonano alla introduzione della stampa a
caratteri mobili; e, infine, nelle quali gli stati nazionali appaiono
sempre più inadeguati a governare i processi economici indotti dalla
globalizzazione.
Probabilmente Orlando, proteso nelle
periferie alla ricerca del “noi”, non se ne è accorto. Ma anche
chi ha evocato la Bibbia ha contribuito a creare un clima di
“damnatio”, con l’obbiettivo esplicito di mettere in ombra le
ragioni e conseguenze di una scelta politica che dovrebbe invece
interrogare da vicino proprio quelli che si richiamano alla lunga
battaglia per affermare la cultura politica della sinistra liberale.
Si è preferito in sintesi insistere sull’obbiettivo di distruggere
la credibilità del parlante.
Zingaretti e i riformisti che oggi
stano entrando in maggioranza in nome di una “gestione unitaria”,
come si suol dire, hanno accompagnato le valutazioni
“soggettivistiche” sulla mossa di Renzi con un’affermazione
ricorrente di chi viene spiazzato dalle decisioni altrui e vuole
rivendicare una forza che però sa di non avere interamente: per far
politica “ci vuole altro”! Ma quest’ “altro” rimane
nell’iperuranio: si parla di rifondazione, di partito del tutto
nuovo, di aree vaste, campi e perimetri, di costituente delle idee,
di congresso straordinario, come se la risposta stesse nello sforzo
riorganizzativo del partito, che l’uscita di Renzi costringe a
prendere atto di essere diventato altro rispetto a quello originario.
Crediamo che questo approccio sia
sbagliato, soprattutto in quanti hanno riconosciuto alla leadership
renziana il merito di aver cercato di tradurre in scelte politiche di
governo l’impianto ideale del liberalismo di sinistra, perché non
riesce a collocare la scelta di quanti hanno deciso di dare vita a
Italia Viva nel contesto effettivo nel quale valutarla a pieno, nel
merito e nelle sue conseguenze.
Che fine fa il progetto del Pd?
Ciò che va messo a fuoco, a nostro
giudizio, è che stiamo attraversando un passaggio di fase politica
rilevante, avviatosi dalla sconfitta del referendum prima e dalle
elezioni del 2018 poi, nella quale, per una serie di errori, ma anche
per un mutamento di scenario politico globale, con l’emergere
dell’egemonia populista e sovranista, è rimasto stritolato anche
il progetto costituente del Partito Democratico.
Di fronte a una narrazione degli eventi
nella quale prevaleva la critica al progetto riformista del Pd in
nome del ritorno a un presunto passato “socialdemocratico” che
significava in sintesi tornare da essere una forza politica
consociativa, assistenzialista e statalista, sorprendentemente
proprio le minoranze riformiste, che quel progetto avevano
contribuito a inverare in policies efficaci, hanno accettato questo
piano di discussione, senza avvedersi o sottovalutando che stava
diventando l’ossatura ideale di un progetto politico alternativo al
Pd. Dietro il “chiedere scusa” di Zingaretti e Martina c’era la
negazione dei principi ispiratori del Pd e il ritorno a un partito di
sinistra minoritario, inevitabilmente condannato ad un’alleanza
organica con il populismo non irrimediabilmente nazionalista
rappresento dal M5S.
Come qualcuno di noi ha cercato
timidamente di puntualizzare la cultura politica della maggioranza
zingarettiana chiude così la fase aperta dalla fondazione del PD,
perché vengono considerati superati, in quanto sconfitti nell’azione
pratica, anche i principi guida e gli obiettivi che la determinarono:
intreccio delle culture politiche riformiste, corrispondenza di
segretario e candidato premier, contendibilità delle cariche,
primarie aperte, vocazione maggioritaria, partito di governo di
centrosinistra.
Spesa pubblica, consociazione,
conservazione: il “nuovo” partito della sinistra
La decisione di Matteo Renzi non
determina ma prende atto dell’ambiente politico del tutto nuovo,
accetta in fretta e spregiudicatamente (e questo dispiace a molti di
coloro che ci avevano creduto) che alcuni dei temi fondativi del Pd
del Lingotto e di Orvieto non sono più riproponibili all’interno
dello “spazio pd” perché la “mozione vincente”, la nuova
maggioranza interna al Pd, intende superarli progettando un nuovo
partito orgogliosamente di sinistra della spesa pubblica, della
consociazione con i corpi intermedi corporativi, del meridionalismo
novecentesco, proporzionalista e conservatore dal punto di vista
costituzionale. Affermare che si tratti di un ritorno ai DS con
l’integrazione delle residuali forze del dossettismo democristiano,
forse è eccessivo, ma indubbiamente nella testa di Zingaretti e
dei suoi consiglieri vi è il progetto della creazione di un soggetto
politico assai distante dal Pd.
I riformisti rimasti nel Pd hanno preso
atto di questa strategia? Non è una domanda impropria viste le
critiche alla scelta di Renzi parrebbe proprio di no, laddove emerge
l’esaltazione del “grande partito” – purchessia, viene da
chiedersi? – indipendentemente dal fatto che esso rappresenti la
negazione di quanto sostenuto in passato. E può bastare la
riproposizione, anche se finora abbastanza debole, dei temi fondativi
del Lingotto come strategia di resistenza? Probabilmente se non ci
fosse stata l’operazione renziana non si sarebbe verificata nemmeno
quella debole riproposizione.
Senza una riflessione sulla fase e le
fratture che essa ha prodotto nel nostro campo questa riproposizione
rischia di ridursi in una battaglia di retroguardia, perché pensare
che si possano ricreare le condizioni per un ribaltamento della
maggioranza è infondato se si sta accettando nel frattempo un
cambiamento delle regole costitutive del partito, che si basa sulla
rinuncia esplicita alla contendibilità della leadership. L’idea di
partito che sottende la App presentata da Zingaretti e Boccia –
annunciata ancora prima che la commissione per la riforma dello
statuto termini i suoi lavori – lascia intendere che si vuole
rimuovere proprio quella apertura agli elettori che permise
“all’intruso” di conquistare la leadership.
Sentire riproporre anche tra i
riformisti il vecchio adagio “meglio aver torto dentro che ragione
fuori”, meglio le “battaglie all’interno”, anche se
strutturalmente minoritarie, che le scissioni, fa emergere
un’inattesa convergenza sulla rifondazione zingarettiana di un
partito del tutto nuovo che altro non è che è un di cui della
concezione novecentesca del partito.
Quei partiti non torneranno come non
torneranno le ideologie, i sistemi di pensiero, le religioni civili
(e le risorse che mantenevano apparati di “viventi di politica”)
che ne permettevano l’esistenza.
Il progetto del Lingotto non si è
realizzato
I tratti distintivi del Pd discendevano
dalla presa d’atto di questo cambiamento epocale: il pluralismo
programmatico (riconoscimento della sua positività, quindi pluri e
non mono culturale), la corrispondenza di candidato leader e
segretario, la leadership legittimata da una competizione aperta agli
elettori, e nuovi criteri di selezione del gruppo dirigente erano il
frutto sofferto dell’intuizione che il XXI secolo era profondamente
diverso da XX, anche per quel che riguardava le forme di
organizzazione dell’azione collettiva nello spazio pubblico.
Certo nell’apertura agli elettori
c’era un pezzetto di “populismo”, c’era la necessità di
tener testa alla crisi di autorevolezza delle élite politiche, c’era
il riconoscimento che la voice espone alla verifica e combatte il
ripiegamento su se stessi tipico delle oligarchie basate sulla
cooptazione. Ma una scelta del genere richiedeva la costruzione di
una cultura condivisa, di procedure riconosciute valide da
maggioranza e minoranza, richiedeva una legittimazione reciproca, che
però non si è mai realizzata a pieno, per le resistenze dovute a
preesistenti appartenenze politiche e ideologiche, ma anche perché
la percezione del cambiamento non era stata metabolizzata dai gruppi
dirigenti che avevano condotto la fondazione del nuovo partito. E i
segretari che si sono susseguiti non l’hanno voluta, potuta o
saputa combattere.
Di qui la non accettazione delle
procedure di selezione e del ruolo della minoranza. Le cosiddette
primarie, la selezione competitiva delle leadership, non sono mai
state accettate pienamente. Né per le cariche monocratiche (al tempo
della segreteria Bersani il suo capo segreteria affermava
pubblicamente che le primarie non erano un dogma e si facevano dove
non si riusciva a trovare un’intesa sul candidato) né per i
parlamentari. Il coinvolgimento degli elettori non è mai diventato
un principio ispiratore di nuove forme di selezione o verifica di
proposte o candidature. Non si è mai messo mano alle procedure per
renderle più efficaci.
Se il meccanismo della leadership
competitiva non viene accettato dalla minoranza sconfitta si riaprono
le porte a meccanismi di decisione e di scelta basati sulla
mediazione e questo spinge a formare gruppi di pressione (anche
piccoli) indipendentemente dal peso elettorale. Da qui la permanenza
dell’unica forma possibile di selezione: la cooptazione
oligarchica. Se il processo di legittimazione della leadership non è
competitivo (e veramente aperto) non può che essere oligarchico
consociativo. Ma in una situazione nella quale l’ordinamento
verticale garantito dalla ideologia condivisa non plasma più
l’autorità e la legittimità della leadership, la cooptazione
oligarchica diventa meno meritocratica perché conta la fedeltà. Da
qui però discende la necessità delle correnti, che sono una
componente ineludibile, sistemica, non una degenerazione morale di
avidi poltronari!
Il ritorno del partito oligarchico e
consociativo
Sconfitte quelle pulsioni innovatrici
rappresentate dalla cultura politica del Lingotto ritorna l’idea di
un partito basato su un sistema di pensiero, che racchiude
l’ambizione di scaturire da una teoria della società condivisa;
mentre la politica torna al vertice delle competenze, torna
l’ambizione prometeica di fare sintesi. Ma ci si scontra contro
l’aumento della complessità, delle specializzazioni funzionali,
della necessità di una visione poliarchica, di una politica che
accetti e comprenda le delimitazioni dei propri ambiti di intervento.
Ed in assenza di un pensiero forte che possa tener insieme la
complessità delle componenti quello che può uscire è solo il
pantano, la mediazione snervante, i minimi comun denominatori che
all’esterno appariranno molto probabilmente solo intese di potere
fatte all’insegna del simulacro dell’unità: in effetti quello
che è accaduto nell’ultimo anno, con l’aggravante di escludere
programmaticamente Renzi da ogni accordo, senza che nessun riformista
sentisse la necessità di stigmatizzare un comportamento tanto
assurdo e autolesionista: come se il ritorno alla consociazione
oligarchica prevedesse una conventio ad escludendum di Renzi tra i
suoi corollari “materiali”.
La maggioranza di Zingaretti ripropone,
dunque, lo schema di un partito in cui l’inclusione significa catch
all party e in cui una leadership frutto di mediazioni oligarchiche
comporti strutturalmente la paralisi dei processi decisionali (al
netto delle pulsioni populiste senza principio che emergono dalla
suddetta App), affidate a un segretario ridotto controllore di quella
mediazione permanente, progressivamente senza scopi che vadano oltre
il mantenimento dell’equilibrio.
Ma in queste condizioni una leadership,
affrancata dal meccanismo della mediazione sistemica ricorrente, più
dinamica e con un gruppo dirigente più coeso (per via della
condivisione the alcuni connotati distintivi) potrebbe garantire una
maggiore dinamicità ed efficacia: questa è la scommessa dei
fondatori di Italia Viva e non si può dire che sia destinata al
fallimento.
La scommessa di Renzi
Matteo Renzi ha colto questo
cambiamento di fase (forse lo ha anche accelerato) ma ha saputo
prendere atto prima di altri di alcuni dati di fatto evidenti:
– Il Pd è imbozzolato in questa
trasformazione regressiva senza sostanziali anticorpi attivi, capaci
di andare oltre il richiamo retorico al suo profilo identitario e di
farne il cuore di battaglia politica vera; certo il Pd non diventerà
i Ds 2.0, ma una convergenza di due pensieri poco liberali e
competitivi, fortemente segnati da quello consociativo e corporativo
del cattolicesimo sociale e da quello tardo socialdemocratico (nella
sua versione italiana post comunista) statalista e assistenzialista,
deficit spending, ma oggi non è oggettivamente in campo una
alternativa questa deriva;
– C’è bisogno di forze organizzate
di tipo nuovo, che invochino un cambiamento di passo, di fronte al
rischio che la società italiana entri irreversibilmente in un
cul-de-sac caratterizzato da un lato (a destra) dalla minaccia
populista e sovranista e dall’altra (a sinistra) da una risposta
statalista e consociativa. Questo rende il futuro dell’Italia
ancora prigioniero delle sue debolezze e dei suoi retaggi storici
negativi fatti di scarsa crescita, debito pubblico esorbitante,
amministrazioni pubbliche inefficienti.
Accettare una nuova sfida riformista
Forse Renzi non ha lo spessore
culturale richiesto per un grande leader, ma nessuno dei suoi
competitori né ha di più, anzi si veleggia a soglie molto più
basse: è figlio del suo tempo, forse, ma è l’interprete migliore
che c’è sulla scena politica. Certo non ha scritto un paginone sul
Foglio per spiegare la sua scelta politica e lasciare un segno nella
storia del pensiero politico dell’Occidente.
Ma non lo si può accusare di non aver
chiaro cosa voglia fare: parlano le cose fatte al governo. Portarle
avanti, (correggendo e migliorando) è di per sé un indirizzo
culturale, che si traduce in una posizione coerentemente
liberaldemocratica, che vive oggi largamente indebolita all’interno
del Pd, non per colpa della scissione ma in ragione delle scelte
sbagliate fatte dalla minoranza riformista.
È una posizione politica e culturale
così chiara da suscitare l’opposizione fermissima dell’entourage
zingarettiano, una guerra senza quartiere dell’intellighenzia
“sinistra”, che frequenta ossessivamente giornali e
televisioni, ma anche, purtroppo, un fuoco di sbarramento da parte di
chi invece dovrebbe cogliere il senso e l’opportunità che la
scelta renziana apre per il riformismo italiano, dentro e fuori il
Pd.