Giacomo COSTA
La rilettura dell’Appello ai «liberi
e forti» a cento anni dalla sua stesura offre numerosi stimoli per
il nostro tempo non tanto a livello di soluzioni, ma di indicazioni
sul modo di essere presenti e partecipare al dibattito politico.
Compie cent’anni il testo noto come
Appello ai liberi e forti. Tradizionalmente associato al nome di don
Luigi Sturzo, fu redatto il 18 gennaio 1919 da una Commissione
provvisoria, di cui il sacerdote siciliano era segretario politico,
nel percorso che condusse alla fondazione del Partito popolare
italiano. Sebbene sia conosciuto spesso solo per brani, grazie a
citazioni e richiami successivi che ne ricollocano le espressioni in
un contesto parzialmente diverso da quello originario, questo testo
ha segnato profondamente la storia politica italiana del Novecento e
per questo abbiamo deciso di riprodurlo per intero insieme a questo
Editoriale.
Compiere cent’anni significa
inevitabilmente appartenere al “secolo scorso”, a un’epoca
ormai sempre meno familiare. Non a caso al Novecento, a cui l’Appello
appartiene, ormai si dedicano musei. Ma trasformare in reperto il
passato comporta il rischio di sopprimerne la generatività e la
capacità di interpellare ancora il presente. Lo ricordava lo scorso
22 maggio il card. Bassetti, presidente della CEI, nell’Introduzione
alla 71ª Assemblea generale. Proprio dopo aver citato l’Appello,
affermava infatti: «La storia della Chiesa italiana è stata una
storia importante anche per la particolare sensibilità per l’aspetto
politico dell’evangelizzazione […]. Dobbiamo esserne fieri, ma
soprattutto è venuto il momento di interrogarci se siamo davvero
eredi di quella nobile tradizione o se ci limitiamo soltanto a
custodirla, come talvolta si rischia che avvenga perfino per il
Vangelo».
Per sfuggire a questo rischio, occorre
ripartire proprio dalla consapevolezza della distanza temporale che
ci separa dal passato. Nel caso dell’Appello, questo significa
prendere atto che non dà indicazioni da seguire alla lettera nel
nostro presente: troppe situazioni sono cambiate (basti pensare che
il suffragio universale è realtà ormai da tempo); troppe parole
hanno mutato di significato o sono cambiate le risonanze che
suscitano: alcune, ad esempio, sono state arricchite da cent’anni
di ricerca e dibattito (è il caso dello statalismo, a cui era
dedicato l’Editoriale dello scorso novembre); troppi sono i
problemi che nemmeno esistevano o erano ignorati, come il degrado
ambientale o i mutamenti climatici, o che hanno cambiato radicalmente
di segno: l’Italia, oggi meta di flussi migratori, era un secolo fa
terra di emigrazione di massa. Cercare nelle parole del passato
istruzioni per i problemi del presente espone a rischiosi
cortocircuiti.
Prenderne consapevolezza consente di
mettere a fuoco che la potenza di un testo come l’Appello ai liberi
e forti non risiede nelle soluzioni, ma nel continuare a
rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si
approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono
modificati ma non sono stati risolti, come la questione meridionale o
la parità di genere, che, pur in forme diverse da quelle del 1919,
continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica. In questa linea,
nelle pagine che seguono proporremo alcuni spunti che possano
illuminare la perdurante fecondità di quel testo, cioè la ragione
per cui, a cent’anni di distanza, vale la pena tornare a leggerlo.
Una carica dinamizzante
Dell’Appello colpisce innanzi tutto
la brevità: in due sole pagine riesce ad articolare in modo coerente
uno sfondo valoriale preciso, una visione antropologica e politica di
riferimento, una lettura della società e dei suoi problemi che
conduce a identificare misure pratiche da inserire in un programma
politico. Colpisce ancora di più se lo si colloca nel suo contesto
storico, ben precedente alle riflessioni del Concilio sulla
coscienza, sulla libertà religiosa o sulla legittima autonomia delle
realtà temporali e quindi sulla laicità; e in una fase in cui il
magistero sociale della Chiesa consisteva di un’unica enciclica, la
Rerum novarum. Partendo da una serie di intuizioni che la riflessione
impiegherà decenni a elaborare, quali i principi della dottrina
sociale (dignità della persona, bene comune, sussidiarietà,
solidarietà), l’Appello connette piani diversi: è questa capacità
che oggi deve risultare di stimolo, ben più degli specifici
contenuti.
Si nota poi la sua potenza espressiva:
il testo interpella i lettori, parla insieme alla testa e al cuore,
così da mobilitare le energie della persona e di tutte le persone.
Non è una operazione di élite, in quanto sa cogliere in modo
autentico l’anima popolare: non trascura chi è ai margini e
soprattutto non esacerba le tensioni, ma si pone nella logica di una
mediazione capace di risolvere i conflitti sociali di cui ha piena
consapevolezza. È proprio questa attenzione a costruire ponti e
tessere relazioni che gli conferisce autorevolezza. Convince perché
sa entrare in contatto, non si impone come fa invece la propaganda.
Da questo punto di vista si differenzia radicalmente da molte altre
proposte, anche dei giorni nostri, che in modi diversi si richiamano
a una ispirazione popolare, ma per marcare differenze identitarie,
frammentando la società anziché unirla in un soggetto collettivo.
Infine, l’Appello ai liberi e forti
ci permette di cogliere il contributo che la fede cristiana può dare
alla politica e alla società. Si vede all’opera la creatività che
la caratterizza quando non viene ridotta a ripetizione di formule e
dottrine, o utilizzata come base di privilegi o di una pretesa di
potere. Così il testo interpella tutti, aldilà di confini e
appartenenze; sarebbe un tradimento utilizzarlo come bandiera della
presenza organizzata di gruppi di cattolici in politica.
Rileggere l’Appello può così
rivelarsi particolarmente fecondo oggi, in un tempo in cui – lo
possiamo testimoniare da quell’osservatorio particolare che
Aggiornamenti Sociali da 70 anni rappresenta (cfr il riquadro qui
sotto) – sono molti i tentativi di riarticolare una proposta
politica convincente e capace di suscitare un diffuso impegno
politico democratico, sostenibile, partecipato. Anche il nostro è un
tempo di chiamate, di convocazioni e di appelli, che si devono
misurare con un contesto di ripiegamento identitario a livelli
diversi: nei confronti dell’altro e del diverso (i migranti sono
l’esempio più evidente), del futuro (la scarsa attenzione per la
sostenibilità), così come dell’Europa e del resto del mondo (il
tema dei sovranismi). Ne scaturisce una politica che anziché cercare
mediazioni e progetti condivisi, esaspera le contrapposizioni,
alimentando la lotta dei penultimi contro gli ultimi. Non basta
essere contro tutto questo, occorrono soggetti politici “liberi e
forti” che elaborino proposte per qualcosa che risulti chiaramente
alternativo e capace di coagulare il consenso dei molti che non si
riconoscono nella retorica politica oggi dominante. Del resto anche
l’Appello si presentava come alternativo alle proposte muscolari
(di destra e di sinistra) in circolazione ai suoi tempi.
Le ali della libertà
Oggi come nel 1919 libertà è un
termine magnetico, capace di toccare le corde più profonde
dell’essere umano e risvegliarne le aspirazioni e i desideri più
intensi. Oggi come allora circolano però accezioni molto diverse di
libertà, e la storia ci ha mostrato come queste differenze abbiano
precise conseguenze quando si prova a tradurre l’aspirazione alla
libertà in istituzioni e strutture sociali. La libertà
dell’individualismo liberale non è quella del personalismo
solidale, e così via. L’autodeterminazione è certamente un
elemento fondamentale di ogni concezione di libertà, ma oggi si
tende spesso ad assolutizzarlo. “Padroni a casa propria” è lo
slogan che sembra condensare la concezione prevalente di libertà, a
tutti i livelli, distogliendo l’attenzione alla sua altrettanto
costitutiva dimensione relazionale.
L’Appello è sensibile all’importanza
dell’autodeterminazione, dei singoli così come dei gruppi sociali
e dei popoli – era un cardine del programma wilsoniano
espressamente richiamato –, ma ciò che innanzi tutto qualifica i
“liberi” a cui si rivolge è il senso del «dovere di cooperare»
e la capacità di agire «senza pregiudizi né preconcetti».
Quest’ultima espressione è spesso stata intesa con riferimento
alla disponibilità, a prescindere dall’appartenenza confessionale:
è del tutto chiaro, infatti, che l’Appello non si rivolge ai soli
cattolici. Rileggendole oggi, ci rendiamo conto che quelle parole
hanno un significato più ampio: fanno appello alla capacità di
collaborare per il bene comune superando tutte le appartenenze, non
solo quelle confessionali, ma anche quelle ideologiche, culturali,
sociali, economiche, compresi quindi gli interessi di parte e il
tornaconto individuale o di gruppo. Tutte le appartenenze portano con
sé il pericolo dell’autoreferenzialità, della trasformazione in
casta, rischiano di smarrire la propria parzialità pretendendo di
diventare il tutto. In questo senso, libertà è anche un limite
verso se stessi, un argine alla pretesa di assolutizzare la propria
posizione e quella della propria parte.
Il primo frutto di questa libertà è
la promozione dell’uguaglianza in maniera concreta, o almeno
dell’equità in termini di opportunità (cfr artt. 2-3 Cost.). Ne è
prova tangibile l’insistenza con cui l’Appello ribadisce la
necessità di «congiungere il giusto senso dei diritti e
degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo», facendone
anzi un indicatore di libertà morale. Questo non vale ovviamente
solo sul piano dei rapporti internazionali, su cui torneremo: la
tutela delle legittime aspirazioni alla libertà di ciascuno non può
legittimare nessuna pretesa di “passare per primo” o di avere più
diritti degli altri. La libertà, se non è disponibile a tutti, è
oppressione degli uni sugli altri e odioso privilegio. Di questo, e
non di autentica libertà, godevano gli aristocratici libertini
dell’Ancien Régime, a scapito di una moltitudine di oppressi. È
questo «il vero senso di libertà», che richiede di aprire spazi di
autonomia per tutti, a prescindere da ogni identità e appartenenza,
in quegli ambiti che l’Appello stesso elenca con grande chiarezza:
libertà religiosa, libertà d’insegnamento, libertà sindacale e
associativa (le «organizzazioni di classe»), libertà di
partecipazione politica ai diversi livelli (la «libertà comunale e
locale»).
Rileggendo l’Appello, tocchiamo con
mano che ancora oggi la libertà non è un’etichetta vuota e che un
buon criterio per discriminare le tante proposte politiche in
circolazione può essere proprio la nozione di libertà su cui si
fondano, e la disponibilità a concedere opportunità a tutti, e non
solo a reclamare i diritti della propria parte.
Forza e potere
Il vero senso di libertà diventa anche
un criterio per l’esercizio dell’autorità e del potere, a cui
legittimamente ogni partito (anche il Partito popolare italiano che
nasce con l’Appello) aspira.
I “liberi e forti” sanno
riconoscere i propri limiti e aprire spazi perché i singoli e i
gruppi – tutti, nessuno escluso – possano crescere grazie a una
progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del bene
comune. L’autorità così concepita non coincide col potere. Il
potere può prescindere dal consenso o cercare di carpirlo; il potere
si presta a essere abusato, seduce ed è sedotto. L’autorità è
relazionale: non può agire se non è riconosciuta. Per questo i
“liberi” hanno bisogno di essere “forti”, per usare il potere
come forma per esercitare l’autorità.
L’aggettivo “forti” merita una
riflessione specifica, in quanto rimanda sia alla forza e al suo uso,
sia alla fortezza, intesa come la virtù che assicura fermezza e
costanza nella ricerca del bene. Senza fortezza, l’uso della forza
perde ogni riferimento etico e si trasforma in arbitrio e prepotenza.
Proprio come la libertà, anche la forza ha bisogno innanzi tutto di
un’istanza di autolimitazione. L’Appello ne è ben consapevole,
tanto che invoca istituzioni internazionali “forti”, cioè capaci
di resistere alle «tendenze sopraffattrici dei [popoli] forti» nei
confronti dei «popoli deboli». Questa dinamica non interessa solo i
rapporti tra i popoli, ma anche quelle tra i gruppi sociali e persino
tra gli individui.
Dalla nozione di forza dipendono le
modalità dell’agire politico. È una concezione mutilata della
politica quella che si basa sulla rivendicazione dei diritti e sulla
conquista del potere, ma dimentica l’esercizio di un’autentica
mediazione sociale, scivolando su un piano inclinato in fondo al
quale non può trovarsi altro che la violenza distruttiva di chi non
ha altri modi per farsi ascoltare. Ce lo mostrano in modo eclatante
le proteste dei “gilets jaunes” che stanno incendiando la
Francia, e tante altre situazioni analoghe. Solo la libertà nel modo
di esercitare il potere consente di aprire spazi di partecipazione
democratica e di mediazione tra i diversi attori sociali. Altrimenti,
come abbiamo imparato, le forme della democrazia si svuotano e si
trasformano in un ginepraio di procedure, dentro cui crescono i
privilegi di una minoranza, l’irresponsabilità della classe
dirigente, il senso d’impotenza dei più e l’oblio dei deboli. E,
inevitabilmente, il fascino per le “soluzioni di forza”.
Un appello per l’Europa
Rileggere l’Appello ai liberi e forti
ci ha ricondotti ad alcune categorie portanti della politica, che
quel testo continua a illuminare in modo stimolante. Oggi come allora
le considerazioni di fondo premono per tradursi in atto: non a caso
all’Appello seguiva un programma politico. Nessuna attuazione potrà
esaurire la ricchezza e la profondità dei principi, ma senza di essa
questi ultimi resteranno nel regno dell’astrazione, privi di
efficacia. Che cosa significa provare oggi a esercitare libertà e
forza? Ad articolare autorità e potere? In che direzione siamo
chiamati a muoverci?
In un momento in cui l’Italia usciva
da una guerra rovinosa, anche se vinta, e doveva impegnarsi per
trasformarsi da Paese agricolo a nazione in via di
industrializzazione e da democrazia “oligarchica” con suffragio
censitario a democrazia di massa con suffragio universale (almeno
maschile), colpisce come lo sguardo dei redattori dell’Appello non
sia rivolto verso l’interno, ma collochi con decisione il futuro
dell’Italia all’interno di un ordine internazionale imperniato
sulla Società delle nazioni.
Un secolo dopo, il quadro di attori
internazionali si è certamente arricchito – il livello delle
istituzioni europee era probabilmente impensabile nel 1919 –, ma il
nocciolo della questione non si è molto modificato: immaginare il
futuro italiano richiede di definirne le modalità di relazione con
il contesto internazionale. Oggi, ben più che l’orizzonte globale,
i nodi riguardano il livello europeo e in particolare l’Unione
Europea. Le difficoltà britanniche a gestire la Brexit dimostrano
che alla fine risulta quasi impossibile fare a meno dell’Unione,
non perché questa sia una gabbia o una condanna, ma perché
l’esigenza di aggregazione di un’area continentale come la nostra
è un dato di fatto in un mondo dominato da giganti geopolitici, cosa
che nessun Paese europeo è. Non a caso, proprio la posizione nei
confronti dell’Europa è diventata, quasi ovunque, una delle
discriminanti principali tra gli schieramenti politici e uno dei temi
più caldi delle campagne elettorali.
Proprio come la Società delle nazioni
nel 1919, anche per noi italiani oggi l’Europa resta una scelta e
volere l’Europa non può significare arrendersi a un’Europa
qualunque e neanche accontentarsi di quella esistente, che in alcuni
suoi aspetti è indifendibile (cfr Riggio G. [ed.], «Dietro le
quinte dell’Unione Europea. Un dialogo a tre voci da Bruxelles»
alle pp. 36-43 di questo fascicolo). Quali riforme sono possibili e
necessarie per spingerla nella direzione desiderata? Sulla scorta
dell’Appello, siamo interessati a provare a costruire un’Italia
che sia parte e promotrice di un’Europa “libera e forte” nel
senso che abbiamo delineato sopra?
È chiaro che si tratta di un progetto
di riforma profondo e radicale, come lo era nel 1919 la richiesta di
estendere il voto alle donne, di riformare la burocrazia, di rendere
elettivo anche il Senato, di riconoscere le autonomie locali sulla
base di una sussidiarietà che oggi anche la UE ha inserito tra i
propri principi, ma che non è sempre facile percepire.
Un’Europa “libera e forte” sarà
capace di articolare autorevolmente unità e rispetto delle
differenze, senza obbligare tutti a marciare con lo stesso passo, ma
senza nemmeno concedere a nessuno diritti di veto più o meno
mascherati. Questa Europa potrà allora chiedere ai singoli Paesi che
la compongono di essere a loro volta “liberi e forti”, cioè di
rinunciare a interpretare la sovranità di cui dispongono in modo
autoreferenziale e facendo del proprio interesse l’unica bussola
dell’azione politica. Come abbiamo visto, liberi e forti sono
coloro che sanno riconoscere un limite alle proprie pretese, e questo
vale anche per gli Stati, nelle relazioni che li uniscono e ancora di
più in quelle che istituiscono con i loro cittadini e le forme della
loro vita associata.
Apparati pubblici “liberi e forti”,
a livello nazionale e sovranazionale, sapranno promuovere
concretamente la partecipazione dei cittadini, incoraggiando la loro
capacità di iniziativa e le forme strutturate a cui questa dà vita.
Questo riconoscimento permetterà a quelli che tradizionalmente sono
chiamati corpi intermedi di esplicare la loro fondamentale funzione
di mediazione. Solo così è possibile promuovere la coesione sociale
e la formazione di capitale sociale, restituendo al popolo la sua
soggettività e sovranità, non attraverso slogan o retoriche
riaffermazioni di identità presunte. È probabilmente questa la
differenza fondamentale tra una politica popolare, che rispetta il
popolo e la sua autonomia originaria, e una politica populista, che
rende il popolo un ostaggio di chi è al potere. Con un’attenzione
particolare – anche su questo l’Appello è molto chiaro – a chi
è ai margini e ai più deboli. È proprio la capacità di proteggere
i più deboli e di promuovere la loro partecipazione che legittima
l’uso della forza e lo differenzia dalla brutalità. Per questo è
fondamentale che un’Europa che si pone alla ricerca di una identità
popolare che rischia di smarrire non sacrifichi il “pilastro
sociale”, ma lo metta al centro delle sue politiche.
Istituzioni europee e nazionali che
funzionano con questo spirito consentiranno l’esistenza di popoli e
gruppi sociali liberi e forti, capaci di resistere alle tentazioni
solipsistiche, nazionali o nazionalistiche che siano. Questo è il
vero DNA dell’UE: da norme, leggi, accordi e procedure non possiamo
prescindere, ma restano il mezzo per dare attuazione a un ideale e a
un sogno più alto. L’idea che possano esistere solo relazioni
dirette, che prescindano da ogni mediazione istituzionale, non è
invece altro che un’illusione esposta al rischio della
manipolazione, per quanto sia molto di moda nei nostri giorni.
Se qualcosa ci insegna la lettura
dell’Appello è che il cambiamento di cui abbiamo bisogno sarà
possibile solo se i “liberi e forti” che anche oggi popolano la
società italiana ed europea sentiranno ancora «il dovere di
cooperare», senza chiudersi dietro barriere di interessi e
appartenenze. Tra pochi mesi le elezioni europee ci riproporranno una
domanda sempre più cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia
al suo interno? Ma di fronte a parole sempre più inflazionate, a
proclami sempre più erosi dal cinismo della post-verità, i “liberi
e forti” nell’Europa del 2019 decideranno ancora di unirsi?