Mario Lavia
Democratica 1 maggio 2018
Ora fateci capire se è possibile un
gruppo dirigente unitario e regole condivise per arrivare al
congresso-primarie
Un Primo Maggio umido e per davvero con
le bandiere abbassate, questo, per la sinistra italiana, il
centrosinistra,il Partito democratico.
C’ė ben poco da festeggiare, e non
sarà il pur inaspettato più 1% in Friuli a tirare su il morale. È
veramente da mangiarsi i gomiti, come si dice a Roma: nel momento in
cui gli autoproclamati “vincitori” del 4 marzo annaspano fra le
onde della loro cupidigia di potere e della loro insipienza politica
(in questo senso la parabola di Luigi Di Maio è illuminante),
proprio in questo momento – dicevamo – ecco che il Pd eleva al
cubo tutte le sue contraddizioni, fino a creare un ginepraio di cui
quasi si smarrisce il senso.
Noi che naturalmente siamo da questa
parte – Democratica cerca di fare il suo lavoro di comprensione e
descrizione della realtà con un chiaro indirizzo politico –
dovremo cercare di capire quanto sta avvenendo e raccontarlo in modo
chiaro: ma stavolta è più difficile di altre.
Non la vogliamo fare lunga. Pensiamo
che in queste ultimi giorni abbiano sbagliato un po’ tutti, in
forme diverse.
C’è un errore a monte. Non aver
discusso seriamente le cause della sconfitta del 4 marzo per poter
apportare subito quelle correzioni e quelle innovazioni che il voto
ha sentenziato essere indispensabili. Si è pensato – sbagliando –
che le dimissioni di Renzi lavassero tutte le colpe. Anche e
soprattutto Renzi ha sbagliato ad assecondare questa fuga dalla
realtà, diretta conseguenza delle sue dimissioni, peraltro dovute.
A parzialissima giustificazione di
questo, c’è il fatto che è piombata sul Pd tutta la questione del
che fare in relazione alla crisi di governo. Per cui il tema della
“linea” si è accantonato (il rinvio dell’Assemblea Nazionale è
un’emblema di questa situazione).
Sulla crisi, una posizione comunque si
era individuata: niente intese con i “vincitori”. Per varie e
sensatissime motivazioni.
Via via, anche per effetto della
inevitabile iniziativa altrui, Martina ha ammorbidito il nyet
iniziale: per duttilità personale? Per la pressione di
autorevolissimi dirigenti, da Franceschini a Fassino? Per l’influenza
dei ragionamenti del Quirinale? Per autonomizzarsi da Renzi?
Fatto sta che Martina ha un po’
forzato, nelle parole più che nei gesti, la posizione.
Intanto cresceva, sui social
soprattutto (con tratti di arroganza e indisponibilità a discutere),
una forte presa di posizione “renziana” per mantenere la linea
del no all’intera con i grillini.
Poi – venerdì scorso – era
maturata la classica mediazione: la Direzione accetti un confronto
con il M5s ponendo però un'”asticella di compatibilità” così
alta da rendere inevitabile il naufragio della trattativa. Era parso,
a noi almeno, un discreto punto di compromesso in grado di evitare
una conta/spaccatura.
Quindi domanica sera Renzi è andato da
Fazio spiegando le ragioni della posizione formalmente ancora
“vigente”, quella del no. Cioè, Renzi ha difeso la linea del Pd.
Ma Renzi è Renzi. E dà sempre la sensazione di passare sopra le
cose come un carro armato. Martina ha platealmente preso cappello –
uno scatto che ha drammatizzato la situazione. Franceschini è sceso
in campo con insolita ruvidezza.
Molti dicono che Renzi avrebbe dovuto
aspettare la Direzione del 3 per parlare: cosa plausibile, ma
ovviamente ignorata da tutti gli altri dirigenti, che rilasciano
interviste tutti i giorni non pensando minimamente ad aspettare il 3.
Ma Renzi è Renzi. E ogni volta che parla (ma anche quando sta
zitto!) si crea un problema.
Non sappiamo in che modo, ma questo
problema va affrontato e risolto una volta per tutte. Ci spieghino se
sia ancora possibile un compromesso serio fra i dirigenti del Pd tale
per cui nasca un gruppo dirigente largo, plurale, autorevole,
riconosciuto da tutte le componenti. Si indichino regole condivise
sul come si deve dirigere il partito. Si stabilisca chi ci sta e chi
no.
Forse per il Pd ci vorrebbe quello che
ci vuole per l’Italia: una fase di decantazione con un “governo
del Presidente” che rimetta in sesto il corpo malato del partito e
lo riporti alle urne, cioè al Congresso-primarie.
Intanto si tratterebbe di darsi tutti
una calmata. Non sono in gioco le vostre carriere, sono in gioco le
sorti del solo partito della sinistra italiana che è rimasto.
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