Vorrei prima di tutto
ricordare Amos Oz attraverso le sue parole, oggi che uno dei più grandi
scrittori al mondo ci ha lasciato. Ho recuperato, nel mio archivio
virtuale, l’intervista che mi commissionò L’Espresso, Era l’inizio del
2005. Andai a trovarlo ad Arad, nella sua casa nel Negev. Un’esperienza
che ricordo dopo tanti anni come un privilegio, un regalo. Poi, metterò
in fila i ricordi. Pochi, nettissimi.
LO SPAZIO ANGUSTO (E INTIMO) DELL’AMORE
Il diametro dell’amore è molto stretto. Quasi angusto. Lo spazio
appena necessario a contenere dieci, al massimo venti persone. Uno, due,
forse cinque posti nel mondo. E del buon cibo, qualche libro, e pochi
brani di buona musica. Tutto qui. Al di
fuori di questo cerchio magico, non c’è più l’amore. C’è qualcos’altro.
Pace, pietà, fratellanza. Altri sentimenti, ma – per favore – non
chiamateli amore, che non ha nessuna missione salvifica nei confronti
del mondo.
Asciutto, profondo, scevro da ogni sentimentalismo, Amos Oz declina
la parola “amore” dentro il contenuto diametro del suo mondo. Nel suo
studio quasi monacale, in cui l’unica indulgenza al possesso sono i
libri che tappezzano ogni angolo delle pareti. Nella sua casa,
essenziale, di fronte a un panorama altrettanto asciutto. Ad Arad, città
israeliana al crocevia tra il deserto del Negev e la steppa dei
villaggi beduini.
“L’amore è il pretesto. La scusa per tutto”, dice con una punta di amarezza l’autore della Storia d’amore e di tenebra e di Michael mio.
“Non è né la chiave né la cura per tutto. Dire che si ama il terzo
mondo o l’Africa, il mondo arabo o l’America Latina, cosa significa?
Nulla. Non significa nulla amare mille persone. L’amore è un sentimento
intimo, non universale. E il diametro dell’amore comprende dieci, al
massimo venti persone. Come diceva una vecchia canzone degli anni
Sessanta, There is not enough love to go round…
Secondo questa descrizione, non ci devono per forza essere bontà e bellezza, nell’amore…
Non le sto parlando di quello che vorrei fosse l’amore. Ma del fatto
che l’amore può diventare una forza molto distruttiva. Chi ama può
essere anche capace di atti terribili. Persino l’amore dei genitori per i
loro figli è molto spesso un amore possessivo, che domina e che dice
“concedimi di cambiarti per il tuo stesso bene”. In modo molto semplice,
l’amore può diventare una forma di fanatismo, due elementi che hanno
una relazione molto stretta tra di loro. Prenda il fanatico, quello che
io chiamo un uomo a binario unico, un punto esclamativo che cammina.
Il fanatico non odia la persona che gli sta accanto. Anzi. La ama a
tal punto che vuole cambiarla completamente, vuole convertirla. Perché
possa essere felice. Cambiando il suo modo di vestire, lo stile di vita,
il modo di mangiare, le idee. Il fanatico è convinto di amare il
prossimo. E questo, ovviamente, èamore, con una componente
egoistica molto forte. Perché, se Gesù ci ha insegnato che il vero amore
è completamente altruistico, così non è nella realtà. Lo chieda a
Otello, glielo potrà spiegare.
Ed è questa, allora, la faccia che l’amore mostra in questa era dello scontro tra le civiltà?
Non c’è uno scontro di civiltà in atto, in questo momento. C’è uno
scontro tra i fanatici e noi, che siamo l’altra parte del mondo.
Fanatici che sono dappertutto, non solo nell’islam, ma nel giudaismo, in
America e in Europa, nella destra così come nella sinistra. Il
fanatismo non è il tratto esclusivo di una civiltà. Anzi. I fanatici
sono invece così forti, oggi, perché più il mondo diventa complicato,
più le persone hanno bisogno di un demonio, di risposte molto semplici.
Che raccolgano tutto, che spieghino tutto.
In questo tempo, anche se non è stato l’unico nella storia, la
battaglia principale è dunque quella tra i fanatici e il resto
dell’umanità. E non vedo nessuna differenza sostanziale tra la jihad e
la crociata. Se qualcuno ama il mondo arabo così tanto da volerlo
cambiare con la forza, con le bombe, con i mitragliatori, forse è amore,
ma non è utile.
Se non è scontro tra civiltà, non crede comunque che ora, in
questo nostro tempo, la Storia sia piombata nella nostra vita, ci corra
vicina ogni giorno?
No, non lo credo. La Storia, per quanto mi riguarda, l’ho avuta
vicina per tutta la mia vita. Sono nato, sono qui, esisto per un
cataclisma della Storia. Lei viene dall’Europa, ed è troppo giovane per
ricordarsi la seconda guerra mondiale, quando – certo – l’Europa visse
una overdose di storia. E anche se è in Europa, viene dall’Italia e non
dalla ex Jugoslavia o dalla Cecenia, dove l’overdose di storia è ancora
palpabile in questi momenti. Insomma, tutte le fasi della storia sono
speciali, e questo non è più catastrofico di altri. Non c’è, per
esempio, una guerra mondiale in corso. Solo guerre locali. La differenza
è, semmai, che oggi è c’è più scetticismo. Su tutto.
Avverte, nell’aria, l’odore, l’atmosfera che si respirava negli anni Trenta? Come passeggiare dentro un gioco di domino?
No. La cosa che, invece, mi preoccupa di più è che la gente si sia
dimenticata della seconda guerra mondiale. Ragione per la quale noto una
certa inclinazione di molte persone a essere sentimentali verso le cose
del mondo, invece che chirurgici. L’assioma che si possa curare tutto
con la buona volontà. Le ripeto una cosa che ho detto già molte volte. E
cioè che, a differenza di molti pacifisti in Europa, non penso che il
male assoluto sia la guerra. Il male assoluto è l’aggressione. La guerra
è solo il risultato dell’aggressione. Chi, invece, punta l’indice
contro il conflitto, si alza e dice “fate l’amore, non fate la guerra”.
Come se l’amore fosse la risposta contro la guerra. Come se l’amore
fosse l’opposto della guerra. Non è così.
Perché?
L’amore è un sentimento intimo e personale. La guerra è un fenomeno
della storia. Il contrario della guerra non è l’amore. È la pace. Non
credo all’amore tra le nazioni. Non credo che il problema, tra russi e
ceceni, sia di cominciarsi ad amare. Hanno bisogno non di amore, ma di
pace. L’amore è nella famiglia. Non è una forza internazionale. È
sentimentalista, è kitsch pensare che ci possa essere amore tra le
nazioni. Molti giovani idealisti tendono a pensare che amore, pace e
pietà e perdono e fratellanza siano sinonimi. Non lo sono. Pace è
qualcosa che si raggiunge tra nemici, e spesso a denti stretti. E’ un
divorzio, non una luna di miele. Il sentimentalismo attuale su amore,
pacifismo e fratellanza ha origine nel fatto che la gente si è
dimenticata gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale. Un’anziana
sopravvissuta al campo di sterminio di Theresienstadt si è trovata di
fronte a una dimostrazione pacifista. Li ha trovati ridicoli. “Chi mi ha
liberato dal campo di sterminio – ha detto – non era un manifestante.
Era un soldato”.
Allora, qual è la guerra giusta?
Niente al mondo mi costringerà a uscire di casa e a cominciare a
combattere, se non l’urgenza di fermare l’aggressione. L’unica guerra
giusta, a mio modo di vedere. Non combatterò mai una guerra dichiarata
perché Israele vuole conquistare i luoghi santi della Bibbia. O perché
il mio paese vuole una stanza da letto in più nella nostra casa. O per
quelle che vengono chiamate risorse, o interessi nazionali.
E per portare democrazia, la farebbe una guerra?
No. Non si porta la democrazia sulla punta dei fucili. La democrazia
può essere solo creata dalla seduzione, dalla tentazione. Da parte di
chi può iniziare l’equivalente di un piano Marshall, sviluppare la
società civile e, dunque, migliorare le condizioni della classe media.
Non perché io ami la classe media, o perché sia il tedoforo della
democrazia. Non dimentico, per esempio, che la classe media impoverita
sia stata quella che ha portato Adolf Hitler al potere. Ma non esiste
democrazia dove non esiste la classe media.
Torniamo all’amore. Prima ci si è chiesti se fosse possibile
l’amore dopo la Shoah. Ora, all’alba del Terzo Millennio, ci si chiede
se sia possibile dopo Beslan…
Certo che è possibile. Una domanda del genere assume che se alcuni
fanno cose terribili ad altri, io debbo odiare tutti. Perché mai? La
natura umana è fatta in maniera tale che possiamo avere sentimenti molto
buoni, positivi, anche se siamo noi stessi a essere sopravvissuti
all’inferno. Anche chi è stato ad Auschwitz è capace di apprezzare e
godere del buon cibo, del sesso, talvolta è molto felice di guadagnare
un bel po’ di soldi. Questa è la natura umana. Questa è la nostra
natura. Sappiamo che ognuno di noi morirà. E questo è, in un certo
senso, peggio di Auschwitz e Beslan, perché riguarda noi. Me. Sono io
che morirò. Eppure, se mangio del buon cibo, se ho una piacevole
conversazione, se ascolto buona musica, ne godo come se io non dovessi
morire. Nonostante io sia, come ciascuno di noi, nel braccio della morte
in attesa dell’esecuzione. Siamo strutturati in maniera tale da poter
contenere più di una emozione. Chi, invece, ne può contenere solo una, è
un fanatico.
Ma non è scioccato da Beslan?
Sì, posso essere scioccato da Beslan, dai genocidi, dalla crudeltà, e
– nello stesso tempo, praticamente nello stesso tempo –… li ascolta gli
uccelli fuori dalla finestra? È l’ora degli uccelli, qui nel deserto… È
questo, per fortuna, il modo in cui siamo fatti. Erano le otto e mezza
del 6 giugno 1967. Quando ho visto il campo di battaglia, i cadaveri
con la pancia squarciata, ho pensato che non avrei mai più potuto
mangiare in vita mia. Quattro ore dopo. Era mezzogiorno e mezza. Ci fu
un piccolo break nei combattimenti. Mi ritrovai a mangiare un panino e
ad ascolare musica con la mia radio a transistor, in mezzo a un campo
pieno di cadaveri. È il nostro modo di essere. È il modo in cui curiamo
la sofferenza. E può anche darsi che una donna sopravvissuta
all’orrore, abbia comunque una digestione eccellente.
A proposito di donne, perché ne ha scelte così tante come personaggi centrali dei suoi romanzi?
La risposta è estremamente semplice. Amo le donne e sono curioso. Amo
le donne più dell’ovvia maniera mascolina di amarle. Ma se lei mi
chiede perché, le dico che sono più bravo a descrivere che a definire.
Non sono un sociologo o un ideologo. Non posso definire perché amo il
deserto, il mare, o qualche volta l’inverno. Le amo, in maniera più
forte della ovvia maniera edonistica in cui molti uomini pensano di
amare le donne. Purtroppo, il mondo è pieno di uomini che amano il sesso
e odiano le donne. Io amo entrambi. Molti, invece, amano le donne in
maniera così fanatica da volerle cambiare completamente.
Ma il vero amore…
O, almeno, il mio tipo di amore. Quello consiste in un alto tasso di
curiosità. Curiosità, e cioè l’urgenza di mettere me stesso sotto la
pelle di qualcun altro. E immaginare cosa potrei provare se fossi lei,
se fossi lui, se fossi un gatto. Cosa significa vedere il mondo dal
punto di vista di un gatto? E non si tratta di un atteggiamento maschile
o femminile. È solo ed esclusivamente individuale. Non credo di poter
più definire, in termini di mentalità, il mascolino dal femminile.
Quando ero molto giovane, pensavo di saperlo. Ora non più. Non mi
interessa più saperlo, e non ha importanza. Dovrei costruire un confine
tra uomini e donne, tra mascolinità e femminilità? E perché mai? Per
quale obiettivo? Sociologi, antropologi, gli scienziati sono sempre
interessati ai fenomeni. Io sono invece curioso degli individui.
Curiosità. E cioè – spero – l’opposto del fanatismo.
In che cosa aiuta mettersi nella pelle degli altri? A fare la pace?
Non ho la formula per la pace universale, altrimenti sarei Gesù
Cristo. E anche in questo caso, non sono nemmeno convinto che la sua
formula fosse quella ideale. Mettersi nella pelle di un altro aiuta
entrambi, perché se si può immaginare il proprio nemico, questo potrebbe
almeno contribuire a ridurre il conflitto. E comunque, immaginare il
proprio vicino, il datore di lavoro, il proprio bambino, renderebbe la
vita interessante. Posso garantire che se una persona riuscisse a
immaginare l’altro, si mettesse dentro la pelle di un’altra,
diventerebbe anche un amante migliore. Ma immaginare costa fatica. E
qualche volta rende colpevoli. Non è, insomma, sempre un giardino pieno
di rose. Ogni volta che leggiamo Omero, la Bibbia, le fonti antiche
conosciamo tutto della natura umana. Non c’è mai stato un paradiso in
cui qualcuno è stato così terribilmente dolce con tutti.
Non è dunque un ottimista, lei, sulla natura dell’uomo?
Se la natura umana potesse cambiare, non avverrebbe prima di uno, due
milioni di anni. E non attraverso una o due rivoluzioni. A meno che
l’ingegneria genetica non inventi qualcosa. Ma io sono affascinato dalla
natura dell’uomo anche quando mi spaventa. Per tutta la vita sono stato
uno studente della natura umana, ma non ho una prescrizione per
migliorarla. Lo vede dai miei libri, non idealizzo la natura umana.
Scrivo con compassione, senza misantropia né odio della natura umana.
Scrivo con compassione, ma non di persone meravigliose. Scrivo spesso
di persone che sono molto stupide, egoiste, di scarso spessore,
non immaginative, limitate.
Per questo ama così tanto Cechov?
Sì, il mio scrittore preferito è e resta Cechov. Non solo per la sua
ironia, ma soprattutto perché esaminava come un medico, lui che era
nella realtà un medico, i dettagli, i sintomi. E forniva una diagnosi.
Anch’io cerco di descrivere, di osservare i dettagli, di fornire una
diagnosi, come un medico. A differenza di un medico, però non posso
fornire la cura. La diagnosi, però, è già un buon inizio. E, a
differenza dell’entomologo, nel mio sguardo c’è sempre molta più
pietà. Posso perdonare, insomma. Non tutto, ma abbastanza.
Cos’è quel po’ che non può perdonare?
La crudeltà condotta per il solo gusto dell’intrattenimento. E la
stupidità. E il fanatismo. Il fanatismo posso comprenderlo, ma non
perdonarlo. Non posso perdonare chi pensa che il fine – qualsiasi fine –
possa giustificare tutti i mezzi. Non posso perdonare chi pensa agli
altri come un materiale grezzo da piegare alle proprie fantasie.
Un suo vicino, il libanese Amin Maalouf, ha parlato nella sua ultima fatica letteraria, Origini,
del suo rapporto colle proprie radici definendolo “un patronimico come
patria”. Lei, invece, di se stesso come un uomo che è gravido dei suoi
genitori e dei suoi antenati. Entrambi, però, avete sentito la
necessità, qui in Medio Oriente, di definire il vostro passato…
Quasi tutti gli scrittori hanno a che fare con il passato. E quasi
sempre con più di una generazione. In quasi ogni romanzo stiamo parlando
con i morti. Come parliamo con loro, cosa dobbiamo dire loro. È lì che
siamo differenti. Nel mio caso, sono il figlio di ebrei europei che
sono stati buttati fuori dall’Europa in una maniera molto brutale e da
questo non si sono mai ripresi. Così come gli ebrei dall’Iraq o dalla
Siria o dall’Egitto, tutti quelli che sono stati sbattuti fuori dal
proprio paese. Non si sono mai ripresi. Questo paese, in un certo modo, è
un campo profughi. Anche la Palestina è un campo profughi.
Lei cosa dice, ai suoi morti?
Che non sono più arrabbiato con loro, che li capisco e che
soprattutto ora ho bisogno di presentare loro mia moglie, i miei figli e
i miei nipoti, che non li hanno mai conosciuti. Presento loro questo
paese, questa terra, che è diversa da com’era ai loro tempi o nella mia
infanzia. Quando avevo sei o sette anni, tiravo sassi contro le
pattuglie britanniche a Gerusalemme. Le prime parole che ho imparato in
inglese sono state British go home. La prima intifada di questo
paese. E quando vedo i bambini palestinesi tirare pietre penso alla mia
infanzia, penso alle somiglianze ma penso anche alle differenze. Penso a
loro con ironia, con comprensione o con deja-vu. Sono già stato lì,
insomma. Sono stato nelle loro scarpe. Ma sottolineo anche le
differenze: non ho mai voluto strappare l’Inghilterra agli inglesi e
dire che gli inglesi dovessero scomparire dalla faccia della terra. Per
questo, quando con l’immaginazione parla con un ragazzo, con una ragazza
palestinese, o con i loro genitori, dico loro che se vogliono il loro
paese, lo avranno e ne hanno tutto il diritto. Ma se vogliono un paese
in modo che io non lo abbia, allora debbono combattermi.