Carmine Fotia
L'Unità 17 maggio 2017
Un incubo vedendo la trasmissione di
Floris ieri sera
Ieri sera, dopo aver visto la prima
parte di Di Martedì dedicata al caso Consip, una
sorta di processo popolare condotto da Piercamillo
Davigo e Marco Travaglio nella veste di doppi
accusatori e Mario Lavia in quella di unico difensore, come
si dice a Roma, m’è calata la cecagna e giuro che avevo mangiato
un’insalata al salmone e bevuto solo un bicchiere di vino. Sarà
l’età.
Direte: ma perché ci metti al corrente
delle tue penniche? La ragione è che in quella nebbiolina che separa
il sonno dalla veglia ho avuto una visione, o meglio un incubo.
E ho visto cose che voi umani…ho
visto un premier che si chiamava Piercamillo Davigo andare
in tv e illustrare la nascita della Repubblica Giudiziaria dove
la prima modifica costituzionale proposta sostituiva la presunzione
di innocenza contenuta nell’articolo 27 con un articolo nuovo che
recitava: “Non esistono innocenti, ma soltanto colpevoli non ancora
scoperti”; ho visto Marco Travaglio direttore
del Tg1 istituire la rubrica fissa “Indovina chi
sputtaniamo oggi?” usata per impiccare al palo della gogna
mediatica tutti i nemici del premier; infine, ho visto Beppe
Grillo in procinto di entrare al Quirinale. A quel punto sono
stato svegliato da Eva, la mia adorata segugia, che voleva uscire,
sicché non saprò mai e Grillo era lì in visita o vi si stava
insediando.
Tornando a casa, poi, ho riflettuto su
quella visione e sono atterrato sulle notizie di questi giorni,
relative all’ultima intercettazione sul caso Consip pubblicata
dal Fatto Quotidiano, nella quale Matteo Renzi intima
in modo alquanto brusco al padre, che sarebbe stato interrogato il
giorno dopo, di dire ai giudici “la verità, tutta la verità”.
Anche io penso che chiunque sia in
buona fede non possa che trarre dalle parole e dal tono di tutta la
telefonata una conclusione univoca: Renzi si è comportato da
uomo delle istituzioni, anteponendo il suo ruolo pubblico a quello di
figlio, incalzando il padre con toni duri, facendogli domande scomode
e brutali, per essere certo che diceva la verità quando smentiva di
essere coinvolto nel cosiddetto traffico di influenze.
Poi, però, mi sono reso conto che
i veleni di cui avevo visto le conseguenze nell’incubo
sono già stati inoculati nel fragile organismo della
nostra democrazia e stanno già producendo danni
incalcolabili.
Il primo dei quali è un potenziamento
all’uso delle intercettazioni come strumento di
smascheramento degli avversari o dei potenti da abbattere: se
l’intercettazione conferma la tua colpevolezza va bene, se invece
ti scagiona allora parte la turbo-modifica per cui se hai
detto quelle cose che ti scagionano è perché sapendo di essere
intercettato le hai dette per fottere chi ti stava intercettando.
Avete presente il Comma 22? Diceva
così, più o meno:”Chi è pazzo può essere esentato dalle
operazioni di guerra, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo”.
A Matteo Renzi è accaduto
esattamente così: siccome Travaglio e Lillo si sono
accorti che quanto pubblicato stava erigendo al leader del Pd un
“monumento equestre”, come ha osservato Lavia, hanno subito
sposato la tesi del machiavellico raggiro (del resto come fa un
fiorentino a non essere machiavellico?).
Intanto, emerge ancora una volta
un gigantesco conflitto tra le procure coinvolte
nell’inchiesta Consip. La procura di Roma, attualmente titolare del
filone d’inchiesta che riguarda il traffico d’influenze in cui è
coinvolto Tiziano Renzi, ha aperto un’indagine per violazione
del segreto d’ufficio.
Quel che trapela, lo scrivono oggi i
più accreditati cronisti giudiziari, è che la procura di Roma
non ha mai chiesto di intercettare Tiziano Renzi. Cosa che invece ha
fatto la procura di Napoli (dopo che quel filone
d’inchiesta era già passato a Roma) che, autorizzata dal Gip,
ha dato mandato di eseguirla a quel Noe cui proprio la procura di
Roma aveva tolto l’indagine e il cui capitano Scafarto è
indagato per aver falsificato numerosi passaggi dell’inchiesta al
fine di dimostrare la colpevolezza di Tiziano Renzi e
l’adoperarsi del figlio per bloccare l’indagine.
A parte il fatto che tale adoperarsi,
come dimostra l’intercettazione, si è semmai esplicato
nell’esortazione al padre a dire tutta la verità ai giudici che
sarebbe un modo ben strano per fermare un’indagine, c’è la
circostanza che la procura di Roma ha ritenuto tale
intercettazione irrilevante ai fini dell’indagine e non l’ha
inserita nel fascicolo. L’intercettazione, dunque, non era a
disposizione dei difensori, quindi la talpa che cerca la procura di
Roma può essere annidata: a) nella procura di Roma medesima; b)
nella procura di Napoli; c) nel Noe del capitano Scafarto.
Al di là degli aspetti strettamente
giuridici della vicenda riguardo all’uso delle intercettazioni, per
me è evidente che un giornalista nella sua piena e libera
determinazione pubblica tutto quello che ritiene utile alla ricerca
della verità e ne risponde se viola le leggi. Sta alla sua coscienza
civile e professionale capire se e come qualcuno lo stia usando
per sputtanare qualcun altro e decidere se fare parte di tale
disegno oppure no.
Non parlo di complotti, sia
chiaro, bensì di qualcosa di più grave e profondo che minaccia gli
equilibri della nostra democrazia: la convinzione di una parte
della magistratura e degli apparati investigativi, la cui opinione è
ben rappresentata da Piercamillo Davigo, che compito della
magistratura non sia perseguire i reati bensì combattere il male
individuato, a prescindere dalle prove, nel leader politico di
turno che è sempre, per definizione “un colpevole non ancora
scoperto”.
È appunto la Repubblica Giudiziaria,
dove la gogna mediatica sostituisce il processo svolto nell’ambito
delle regole.
Non invoco alcun bavaglio, perché da
sempre combatto contro i bavagli. Semplicemente credo che il
giornalismo dalla schiena dritta oggi non sia quello rappresentato da
chi trasforma il giornalismo investigativo nella buca delle
lettere e nella testa(ta) d’ariete della Repubblica Giudiziaria,
bensì da chi vi si sottrae.