venerdì 8 aprile 2016

Delrio sotto attacco: "Mai ceduto a ricatti, trame contro lo Stato"


CLAUDIO TITO
La Repubblica 8 aprile 2016
L'intervista. Il ministro delle Infrastrutture presenta un esposto alla procura per i dossier contro di lui.
"A questo punto voglio sapere se davvero pezzi dello Stato tramano contro altri pezzi dello Stato. Voglio sapere se davvero un Carabiniere ha preparato dei dossier falsi contro un ministro della Repubblica. Ho deciso di presentare su questo un esposto alla procura di Roma. Voglio la verità". Il titolare delle Infrastrutture, Graziano Delrio, è su tutte le furie. Le intercettazioni dei pm di Potenza che indagano sul caso Guidi-Gemelli lo tirano in ballo in almeno un paio di circostanze. La prima riguarda una telefonata di Valter Pastena al fidanzato della Guidi nella quale dice: "I Carabinieri sono venuti a portarmi in ufficio un regalo. Usciranno le foto di del Delrio a Cutro con i mafiosi...".
E lei ha paura di queste foto?
"Io non ho nulla di cui temere. A Cutro ci sono andato da sindaco di Reggio Emilia. Le due città sono gemellate. Ero lì con la fascia tricolore. Sono andato ad una cerimonia, per qualche metro ho seguito la statua locale della Madonna. E basta. Hanno provato a invischiarmi in quella roba, ma non hanno trovato niente perché era impossibile trovare qualcosa. Mai un avviso di garanzia".
Quindi sarebbe un complotto?
"Voglio sapere se questa attività di dossieraggio è vera oppure no. Voglio sapere se la gente - non solo un ministro - può fidarsi delle Istituzioni. Poi se vengo attaccato da un comitato d'affari, beh per me è un onore. È una medaglia da mettere sul petto".
Lei lo chiama comitato d'affari. Sono dei suoi nemici?
"Tutti sanno che io ho fama di essere un irreprensibile. Ma queste sono parole. I fatti invece sono che appena arrivato al governo con Renzi, abbiamo nominato Gratteri, magistrato antimafia, alla presidenza della commissione per riscrivere il codice di procedura penale. Io sono stato sempre contro la mafia figuratevi se andavo a Cutro per incontrare i mafiosi".
In un'altra intercettazione però, il lobbista Colicchi racconta a Gemelli che il presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, sarebbe venuto da lei per sponsorizzare la conferma di un loro "protetto" Alberto Cozzo come commissario straordinario dell'autorità portuale di Augusta.
"È vero che Lo Bello è venuto un paio di volte da me. Ma mi ha sempre parlato del rinnovamento dell'aeroporto di Catania. Le camere di commercio sono i soci dell'Aeroporto, era normale. Ma non ricordo assolutamente che mi abbia mai parlato di Cozzo. Di certo non lo ha sponsorizzato, me lo ricorderei".
Però in effetti Cozzo è stato confermato.
"Ma io ho prorogato i commissari in attesa che entri in vigore la riforma dei porti con i nuovi meccanismi di nomina delle autorità portuali. Il che accadrà entro un paio di mesi".
Quindi in queste telefonate intercettate dalla procura di Potenza c'è solo del millantato credito?
"Ma guardi che io lo direi tranquillamente se Lo Bello mi avesse parlato di Cozzo. Non c'è niente di male se la Camera di commercio parla a un ministro di un'autorità portuale. Si ascolta e poi si decide in coscienza. Ma, semplicemente, non è avvenuto".
E qualcuno le ha mai suggerito il nome di Cozzo?
"Solo una persona lo ha fatto. La sindaca di Augusta, del Movimento 5Stelle, me ne ha parlato bene. E le ho detto che non mi sembrava così bravo".
Perché?
"Insomma, non mi sembra un fulmine di guerra. Li ci sarebbero una marea di investimenti da utilizzare, ma non mi sembra che si dia da fare. Pensi che con questo Cozzo ho un carteggio in cui cerco proprio di stimolarlo a muoversi. Lì ci sarebbe tanto da fare. Gli ho anche affiancato l'Anac (l'Autorità anticorruzione, ndr.) per evitare problemi".
Ci sono problemi da quel punto di vista?
"A me non risulta che sia un soggetto chiacchierato. Però per evitare incidenti in quella regione lo abbiamo fatto affiancare da Cantone. Insomma, io ho la coscienza a posto e non ho nulla di cui aver paura".

indignato!!!

Graziano Delrio
Ho letto oggi da articoli di stampa che sono al centro degli interessi di un comitato d’affari che non conosco, da cui non ho mai ricevuto pressioni o condizionamenti e tantomeno ricatti ai quali evidentemente non mi sarei mai sottoposto.
Sono interessato, piuttosto, a sapere se esiste o è esistita un’attività di dossieraggio nei miei confronti, volta a screditarmi, basata su presupposti totalmente infondati. Attività che considererei molto grave non solo nei mei riguardi, ma anche verso ogni cittadino italiano che possa esser oggetto di tali attenzioni.
Per questo motivo presenterò un esposto alla Procura.

Affaristi non corrisposti

Pierluigi Castagnetti
Ciò che emerge dagli atti di Potenza, se se ne fa una lettura onesta, è la miseria di un mondo di profittatori che si lamenta del fatto che nel governo vi è una squadra di ministri (Delrio, Padoan, De Vincenti,..) ed evidentemente il presidente del Consiglio, che non sono disponibili ad assecondare il proprio disegno affaristico. Leggete le intercettazioni. Questa è la vera ragione per cui nessun membro del governo è imputato e nemmeno indagato. Tra le altre tristezze mi ha colpito il fatto che un ex funzionario ministeriale e (forse) un carabiniere abbiano tentato di costruire un dossier per ricattare Delrio. Se lo conoscessero non perderebbero tempo e risorse, perché il personaggio non è "incastrabile" o "ricattabile": lo dico in modo apodittico perché so di poterlo fare. Ma la vera domanda è: perché questi banditelli c'è l'hanno con Delrio? Evidentemente loro lo sanno. In ogni caso ha fatto bene il ministro ad annunciare che domani presenterà un esposto alla procura di Roma, perché il perché deve diventare di pubblico dominio.

mercoledì 6 aprile 2016

De Magistris.....ci pensi lei...



Bagnoli è un luogo incredibile, situato in uno dei posti più belli del mondo. Chiuso dal 1993 deve essere bonificato e restituito a Napoli e all'Italia. La politica da anni si rimpalla in modo meschino le responsabilità.


i milioni di partecipati contro renzi

martedì 5 aprile 2016

Come innaffiare la rosa appassita del riformismo


EZIO MAURO
La Repubblica 5 aprile 2016
Là dove all'inizio del secolo si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta. La destra tradizionale soffre una crisi parallela e simmetrica e crescono soltanto gli opposti populismi.
C'è una rosa appassita nel giardino d'Europa. Sfiorisce e avvizzisce sulle pagine del'"Economist", che dedica un lungo servizio al declino del centrosinistra in tutti (o quasi) i Paesi del continente, come se il riformismo invece di essere l'esito compiuto e finalmente risolto di una vicenda secolare travagliata fosse in realtà la moderna malattia senile del socialismo. Cifre e mappe sono implacabili. Là dove all'inizio del secolo, dice il settimanale inglese, si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta: i socialisti governavano in Scandinavia, guidavano la Commissione Europea, se la giocavano per la preminenza nel Parlamento di Strasburgo, mentre ora il loro consenso elettorale si è ridotto ad un terzo, faticano dove hanno vinto le elezioni come in Francia, rischiano in Italia, si riducono a junior partner nel governo altrui in Olanda e nel Paese più importante dell'Europa, la Germania. La rosa perde i petali, dunque, l'uno dopo l'altro. E quei petali, comunque, hanno via via perduto il loro colore e certamente il profumo.
Fortunatamente numeri e grafici non dicono tutto, altrimenti ci sarebbe da consegnare le chiavi della modernità a qualcuno in grado di governarla, rinchiudendosi in casa. La destra tradizionale - in Francia la chiamano repubblicana - soffre infatti di una crisi parallela e simmetrica, mangiata viva dal radicalismo xenofobo che non sa arginare e che s'ingozza delle paure dei cittadini convertendole in una falsa moneta politica, tuttavia redditizia. Crescono soltanto gli opposti populismi, a destra come a sinistra, e la rabbia che non si appaga nello specchio di questa semplificazione qualunquista antisistema ingrossa le fila del "partito del sofà", dove siedono i delusi che si rifiutano di partecipare e di votare, ritirandosi con la bassa marea politica da ogni discorso pubblico.
Quel che le cifre non dicono è il contesto. Quando questa vicenda è cominciata, nel 2007, sulle democrazie dell'Occidente si sono abbattute tre crisi concentriche, crisi delle banche, del debito, dunque della crescita. Negli ultimi anni si sono aggiunte due emergenze epocali: l'onda lunga dei migranti che cercano nell'Europa salvezza, sopravvivenza e futuro, dunque l'unica speranza, e la sfida del Califfato che dopo le Torri Gemelle ha annunciato la guerra all'Occidente e porta la morte direttamente nelle città del nostro continente. Ciò che ne deriva è un sentimento politico di insicurezza e dunque di sfiducia, la ricerca di protezione in identità primitive di chiusura, la solitudine repubblicana, lo smarrimento di ogni senso di cittadinanza.
È la fine del "sociale", il venir meno dei legami collettivi che non siano quelli di sangue e di clan contrapposti agli "invasori", il ribaltamento del welfare visto non più come una conquista da estendere ma come un egoismo da difendere, la consumazione della politica che nel sistema occidentale era nata proprio per organizzare tutto ciò, la società, il nesso tra l'individuale e il collettivo, la sicurezza dello "Stato- benessere" come strumento di coesione e soprattutto come proiezione del lavoro e del suo valore sociale. Scopriamo terrorizzati che tutta l'impalcatura - culturale, istituzionale, politica - che ci siamo costruiti nel dopoguerra per difendere e garantire l'incrocio tra la nostra vita e le vite degli altri è entrata in crisi. Diciamo la verità: scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. È insediata ma non ci protegge, tanto da farci venire il dubbio che funzioni veramente soltanto negli anni della crescita e della redistribuzione, mentre quando cambiano i tempi si fa da parte, cede il governo del sistema e contempla l'azione della crisi. Siamo a un passo dal pensare che la società stessa, il suo concetto, non siano esportabili dentro il territorio universale della globalizzazione, quasi come se fossero creature dello Stato nazionale.
Verrebbe da dire che tutto questo segna per forza di cose la fine del "secolo socialdemocratico". Anzi, di più, perché tutto congiura affinché il pesce socialista non possa nuotare in un eco-sistema di questo tipo. Ma non abbiamo ancora aggiunto l'ingrediente fondamentale: il lavoro. Basta leggere i dati sulla disoccupazione, e quelli sul lavoro giovanile, per capire che il vero attore sociale colpito dalla crisi è il lavoro, che la nostra Costituzione codifica come un diritto e che dunque per molti è un diritto negato, uno strumento impossibile per affermare la propria dignità personale e pubblica, sapendo che senza libertà materiale non c'è una vera libertà politica. Non è un problema economico soltanto, che si può rinchiudere nelle statistiche del Pil. Perché il legame tra la democrazia, l'Occidente e il lavoro è intrinseco. Non solo perché il ciclo virtuoso delle democrazie europee si è basato sempre sul rapporto tra crescita, lavoro, occupazione, benessere, consenso. Ma perché la democrazia in Europa è nata come democrazia del lavoro, col lavoro e il reddito che ne deriva il cittadino provvede alla sua famiglia ma anche ai diritti politici e sociali di tutti. Se salta questa consapevolezza, salta ciò che tiene insieme capitalismo, Stato sociale, democrazia rappresentativa e pubblica opinione. Cioè cambia la fisionomia del sistema democratico occidentale così come lo abbiamo fin qui conosciuto.
Sono meccanismi che fino all'insorgere della crisi erano ormai accettati da tutti, destra di governo, sinistra riformista. Diciamo che in più la socialdemocrazia trovava in questo dispositivo politico-culturale la propria ragion d'essere. Qui infatti, proprio qui, ha operato per anni il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti delle diverse congiunture, legando il ricco e il povero - nella diversità dei loro percorsi e nella sproporzione dei loro destini - in un vincolo di responsabilità almeno in parte comune. Finché il vento della globalizzazione non ha rinchiuso anche quel tavolo e il moderno ricco che vive nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d'informazione non ha più nessun bisogno - nemmeno territoriale, neppure fisico - di sentirsi vincolato al moderno povero che vive nel sottosuolo degli Stati nazionali e che ha preso una nuova configurazione: è l'escluso che non si vede più, e di cui quindi si può fare a meno.
Una buona parte della sinistra non ha più un vocabolario autonomo perché ritiene che queste parole e questi concetti facciano parte del Novecento e non meritino di passare la dogana del secolo post- ideologico, perché suonerebbero retoriche. Così si parla con parole altrui e la neolingua della neodestra è l'unica che risuona. Ma proviamo a ribaltare il discorso per non rimanere prigionieri del luogo comune dominante: quali sono gli indici fondamentali della modernità, oggi, se non i diritti civili, la sicurezza sociale, la ricostituzione di una effettiva autonomia dell'individuo e di una reale libertà del cittadino, anche dalle paure che imprigionano la parte più debole e più esposta della popolazione? Perché la sola questione che valga oggi a sinistra, come dice il premier francese Manuel Valls, è appunto "come orientare la modernità per accelerare l'emancipazione degli individui, e dunque di ciascuno". Creando una nuova ragione sociale capace di tenere insieme gli esclusi, i salvati e gli emergenti, quei fabbricatori e manipolatori di simboli, come li chiama Alain Touraine, che comprano e vendono il moderno quotidiano di cui viviamo.
Il riformismo - che significa poi semplicemente sinistra con cultura di governo - ha sorprendentemente le carte più in regola per affrontare le esigenze della fase, e ha nel suo zaino gli strumenti più propri per riuscire: responsabilità, opportunità, solidarietà, la nuova triade di valori che può collegare la tradizione con la modernità e portare il guscio socialdemocratico (nelle sue diverse colorazioni e denominazioni) a ricostruire un legame sociale di soggetti capaci di pretendere e realizzare un cambiamento che consenta alla cultura politica occidentale di superare la crisi salvando se stessa. Sapendo che esiste un modello economico europeo di cui siamo scarsamente consapevoli: è l'economia sociale di mercato, che da Bad Godesberg in poi libera pienamente l'iniziativa economica capace di crescere e produrre lavoro e ricchezza, con la mano pubblica incaricata di mantenere con discrezione l'equità del sistema, realizzando così quel "capitalismo con correzioni sociali" che è stato una risposta concreta alle vicende del fascismo e del comunismo.
C'è dunque ancora qualcosa da fare, prima di disarmare. Anche perché dall'altra parte del giardino europeo, il pensiero liberale è oggi attaccato frontalmente come il principale nemico dai populismi xenofobi che stanno scalando il cuore del continente, nei Paesi che arrivano dall'Est. È il giardino stesso d'Europa che va difeso, dunque. E se infine provassimo ad annaffiarla, quella rosa?

.....il sinistro...

“Non sei all’altezza, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo”

lunedì 4 aprile 2016

4 aprile 1968

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.