EZIO MAURO
La Repubblica 5 aprile 2016
Là dove all'inizio del secolo si
poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza
incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è
completamente stravolta. La destra tradizionale soffre una crisi
parallela e simmetrica e crescono soltanto gli opposti populismi.
C'è una rosa appassita nel giardino
d'Europa. Sfiorisce e avvizzisce sulle pagine del'"Economist",
che dedica un lungo servizio al declino del centrosinistra in tutti
(o quasi) i Paesi del continente, come se il riformismo invece di
essere l'esito compiuto e finalmente risolto di una vicenda secolare
travagliata fosse in realtà la moderna malattia senile del
socialismo. Cifre e mappe sono implacabili. Là dove all'inizio del
secolo, dice il settimanale inglese, si poteva viaggiare da Inverness
in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese
governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta: i
socialisti governavano in Scandinavia, guidavano la Commissione
Europea, se la giocavano per la preminenza nel Parlamento di
Strasburgo, mentre ora il loro consenso elettorale si è ridotto ad
un terzo, faticano dove hanno vinto le elezioni come in Francia,
rischiano in Italia, si riducono a junior partner nel governo altrui
in Olanda e nel Paese più importante dell'Europa, la Germania. La
rosa perde i petali, dunque, l'uno dopo l'altro. E quei petali,
comunque, hanno via via perduto il loro colore e certamente il
profumo.
Fortunatamente numeri e grafici non dicono tutto,
altrimenti ci sarebbe da consegnare le chiavi della modernità a
qualcuno in grado di governarla, rinchiudendosi in casa. La destra
tradizionale - in Francia la chiamano repubblicana - soffre infatti
di una crisi parallela e simmetrica, mangiata viva dal radicalismo
xenofobo che non sa arginare e che s'ingozza delle paure dei
cittadini convertendole in una falsa moneta politica, tuttavia
redditizia. Crescono soltanto gli opposti populismi, a destra come a
sinistra, e la rabbia che non si appaga nello specchio di questa
semplificazione qualunquista antisistema ingrossa le fila del
"partito del sofà", dove siedono i delusi che si rifiutano
di partecipare e di votare, ritirandosi con la bassa marea politica
da ogni discorso pubblico.
Quel che le cifre non dicono è il
contesto. Quando questa vicenda è cominciata, nel 2007, sulle
democrazie dell'Occidente si sono abbattute tre crisi concentriche,
crisi delle banche, del debito, dunque della crescita. Negli ultimi
anni si sono aggiunte due emergenze epocali: l'onda lunga dei
migranti che cercano nell'Europa salvezza, sopravvivenza e futuro,
dunque l'unica speranza, e la sfida del Califfato che dopo le Torri
Gemelle ha annunciato la guerra all'Occidente e porta la morte
direttamente nelle città del nostro continente. Ciò che ne deriva è
un sentimento politico di insicurezza e dunque di sfiducia, la
ricerca di protezione in identità primitive di chiusura, la
solitudine repubblicana, lo smarrimento di ogni senso di
cittadinanza.
È la fine del "sociale", il venir
meno dei legami collettivi che non siano quelli di sangue e di clan
contrapposti agli "invasori", il ribaltamento del welfare
visto non più come una conquista da estendere ma come un egoismo da
difendere, la consumazione della politica che nel sistema occidentale
era nata proprio per organizzare tutto ciò, la società, il nesso
tra l'individuale e il collettivo, la sicurezza dello "Stato-
benessere" come strumento di coesione e soprattutto come
proiezione del lavoro e del suo valore sociale. Scopriamo
terrorizzati che tutta l'impalcatura - culturale, istituzionale,
politica - che ci siamo costruiti nel dopoguerra per difendere e
garantire l'incrocio tra la nostra vita e le vite degli altri è
entrata in crisi. Diciamo la verità: scopriamo che la democrazia non
basta a se stessa. È insediata ma non ci protegge, tanto da farci
venire il dubbio che funzioni veramente soltanto negli anni della
crescita e della redistribuzione, mentre quando cambiano i tempi si
fa da parte, cede il governo del sistema e contempla l'azione della
crisi. Siamo a un passo dal pensare che la società stessa, il suo
concetto, non siano esportabili dentro il territorio universale della
globalizzazione, quasi come se fossero creature dello Stato
nazionale.
Verrebbe da dire che tutto questo segna per forza
di cose la fine del "secolo socialdemocratico". Anzi, di
più, perché tutto congiura affinché il pesce socialista non possa
nuotare in un eco-sistema di questo tipo. Ma non abbiamo ancora
aggiunto l'ingrediente fondamentale: il lavoro. Basta leggere i dati
sulla disoccupazione, e quelli sul lavoro giovanile, per capire che
il vero attore sociale colpito dalla crisi è il lavoro, che la
nostra Costituzione codifica come un diritto e che dunque per molti è
un diritto negato, uno strumento impossibile per affermare la propria
dignità personale e pubblica, sapendo che senza libertà materiale
non c'è una vera libertà politica. Non è un problema economico
soltanto, che si può rinchiudere nelle statistiche del Pil. Perché
il legame tra la democrazia, l'Occidente e il lavoro è intrinseco.
Non solo perché il ciclo virtuoso delle democrazie europee si è
basato sempre sul rapporto tra crescita, lavoro, occupazione,
benessere, consenso. Ma perché la democrazia in Europa è nata come
democrazia del lavoro, col lavoro e il reddito che ne deriva il
cittadino provvede alla sua famiglia ma anche ai diritti politici e
sociali di tutti. Se salta questa consapevolezza, salta ciò che
tiene insieme capitalismo, Stato sociale, democrazia rappresentativa
e pubblica opinione. Cioè cambia la fisionomia del sistema
democratico occidentale così come lo abbiamo fin qui
conosciuto.
Sono meccanismi che fino all'insorgere della crisi
erano ormai accettati da tutti, destra di governo, sinistra
riformista. Diciamo che in più la socialdemocrazia trovava in questo
dispositivo politico-culturale la propria ragion d'essere. Qui
infatti, proprio qui, ha operato per anni il tavolo di compensazione
dei conflitti, che ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti delle
diverse congiunture, legando il ricco e il povero - nella diversità
dei loro percorsi e nella sproporzione dei loro destini - in un
vincolo di responsabilità almeno in parte comune. Finché il vento
della globalizzazione non ha rinchiuso anche quel tavolo e il moderno
ricco che vive nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e
dei flussi d'informazione non ha più nessun bisogno - nemmeno
territoriale, neppure fisico - di sentirsi vincolato al moderno
povero che vive nel sottosuolo degli Stati nazionali e che ha preso
una nuova configurazione: è l'escluso che non si vede più, e di cui
quindi si può fare a meno.
Una buona parte della sinistra non
ha più un vocabolario autonomo perché ritiene che queste parole e
questi concetti facciano parte del Novecento e non meritino di
passare la dogana del secolo post- ideologico, perché suonerebbero
retoriche. Così si parla con parole altrui e la neolingua della
neodestra è l'unica che risuona. Ma proviamo a ribaltare il discorso
per non rimanere prigionieri del luogo comune dominante: quali sono
gli indici fondamentali della modernità, oggi, se non i diritti
civili, la sicurezza sociale, la ricostituzione di una effettiva
autonomia dell'individuo e di una reale libertà del cittadino, anche
dalle paure che imprigionano la parte più debole e più esposta
della popolazione? Perché la sola questione che valga oggi a
sinistra, come dice il premier francese Manuel Valls, è appunto
"come orientare la modernità per accelerare l'emancipazione
degli individui, e dunque di ciascuno". Creando una nuova
ragione sociale capace di tenere insieme gli esclusi, i salvati e gli
emergenti, quei fabbricatori e manipolatori di simboli, come li
chiama Alain Touraine, che comprano e vendono il moderno quotidiano
di cui viviamo.
Il riformismo - che significa poi
semplicemente sinistra con cultura di governo - ha sorprendentemente
le carte più in regola per affrontare le esigenze della fase, e ha
nel suo zaino gli strumenti più propri per riuscire: responsabilità,
opportunità, solidarietà, la nuova triade di valori che può
collegare la tradizione con la modernità e portare il guscio
socialdemocratico (nelle sue diverse colorazioni e denominazioni) a
ricostruire un legame sociale di soggetti capaci di pretendere e
realizzare un cambiamento che consenta alla cultura politica
occidentale di superare la crisi salvando se stessa. Sapendo che
esiste un modello economico europeo di cui siamo scarsamente
consapevoli: è l'economia sociale di mercato, che da Bad Godesberg
in poi libera pienamente l'iniziativa economica capace di crescere e
produrre lavoro e ricchezza, con la mano pubblica incaricata di
mantenere con discrezione l'equità del sistema, realizzando così
quel "capitalismo con correzioni sociali" che è stato una
risposta concreta alle vicende del fascismo e del comunismo.
C'è
dunque ancora qualcosa da fare, prima di disarmare. Anche perché
dall'altra parte del giardino europeo, il pensiero liberale è oggi
attaccato frontalmente come il principale nemico dai populismi
xenofobi che stanno scalando il cuore del continente, nei Paesi che
arrivano dall'Est. È il giardino stesso d'Europa che va difeso,
dunque. E se infine provassimo ad annaffiarla, quella rosa?