di Giorgio Gori
Oggi avevo pensato di parlarvi “da sindaco”, per condividere con voi
le difficoltà di un ruolo costantemente in trincea e per raccontarvi
come tanti sindaci democratici siano riusciti – in una fase politica
decisamente non favorevole – a vincere le ultime elezioni
amministrative
Di come queste affermazioni siano nate dalla concretezza e dalla
prossimità. Soprattutto, dalla capacità di tenere insieme, ciascuno
nella sua città, crescita e inclusione sociale, innovazione e
solidarietà, apertura e appartenenza. Ma mi fermo qui.
La politica si fa nella realtà
In questi giorni ho ascoltato molti interventi e visto venire avanti
un’idea di fondo sul futuro del Pd: un’idea del tutto condivisibile dal
punto di vista valoriale e delle finalità ultime del nostro impegno.
Insufficiente però, a parer mio, a guidare la nostra azione politica
oggi e domani, nell’Italia degli anni Venti. Di questo dunque vorrei
parlare. Ho respirato molta idealità e poca realtà. E la politica,
invece, si fa nella realtà.
Si è parlato molto di giustizia sociale, di lotta alle disuguaglianze
e di redistribuzione della ricchezza. Tutti temi, ripeto, molto
condivisibili. Non altrettanto della formazione della ricchezza, anzi
per niente. Ha ragione Mauro Magatti quando dice che non conta solo la
dimensione della torta, ma anche chi l’ha fatta, quali ingredienti ha
usato, come vengono divise le fette. Ma conta anche la dimensione della
torta.
Non c’è stato un solo intervento che abbia affrontato i temi della
produttività, della crescita, del debito, della micidiale zavorra
rappresentata dagli interessi su quel debito. Anche a me sta a cuore la
giustizia sociale, insieme alla libertà. E’ per questo che faccio
politica. Ma un partito serio – se ci tiene – ha il dovere di chiedersi
come, con quali strumenti, nell’Italia degli anni Venti, quell’obiettivo
si possa realizzare. Io non credo ci siano molte alternative. Se
vogliamo arrivare a quell’obiettivo dobbiamo mettere il lavoro e
l’occupazione al centro dell’agenda del Partito Democratico e del Paese.
Il lavoro come chiave della cittadinanza
Il lavoro come valore, innanzitutto. Il lavoro come chiave della
cittadinanza e come antidoto all’insicurezza. Il lavoro inteso come
strumento di emancipazione personale, ma anche come leva insostituibile
di coesione e sviluppo collettivo. Il lavoro come fondamento
dell’identità di questo partito e del suo rapporto con la società.
Dobbiamo tornare ad essere il partito del lavoro e dell’occupazione! Di
tutti i lavori: di quello dipendente e di quello autonomo, del lavoro
precario e del lavoro d’impresa.
Nella mia provincia il tessuto produttivo è composto per oltre il 90%
da piccole e piccolissime imprese. Molte di queste sono state create da
operai o artigiani che un giorno hanno deciso di mettersi in proprio e
con fatica, magari lavorando 15 ore al giorno, piano piano hanno
costruito la loro azienda. Oggi sono imprenditori. Mi spiegate come
possiamo non stare dalla parte di queste persone? Se siamo un partito di
soli pensionati e dipendenti pubblici c’è decisamente qualcosa che non
va… Perché stare dalla parte del lavoro e dell’occupazione significa
avere una bussola.
E battersi così per la dignità del lavoro, dipendente e precario, e
per una giusta remunerazione; dare importanza alla formazione e alla
competenza; comprendere che l’innovazione tecnologica rappresenta
un’opportunità di emancipazione del lavoro e dei lavoratori, come
dimostrano i Paesi che più hanno investito in tecnologie e formazione –
Germania, Giappone, Corea del Sud – che hanno bassi tassi di
disoccupazione e un’occupazione di alta qualità – altro che tecnofobia;
significa riconoscere la transizione ecologica come un’occasione di
sviluppo, persino disporre di una chiave per l’integrazione degli
immigrati: attraverso il lavoro; e infine un indirizzo etico: perché
lavoro significa anche fatica, sacrificio e senso del dovere – e ce n’è
molto bisogno.
Investire sul futuro
Un libro che ho letto nelle scorse settimane – “La società signorile
di massa”, del sociologo Luca Ricolfi – mette in evidenza un dato
abbastanza sconcertante. In Italia lavora solo il 45% degli abitanti.
Per farvi capire: in Svezia lavora il 69% dei cittadini – tutti compresi
-, in Svizzera il 65%, in Inghilterra il 61%, il 60% negli Stati Uniti,
il 59% in Germania. In Italia il 45%, dato che sarebbe ancora più basso
– 43% – se si considerassero i soli italiani, e che un poco si alza
grazie agli stranieri, che lavorano per il 60%. 45 per cento. E gli
altri? Gli altri accedono al surplus – e non se la passano malissimo,
secondo l’autore, a giudicare dai consumi – senza lavorare. Se
escludiamo i minori e i pensionati, gli altri vivono grazie alla rete
familiare, alla ricchezza accumulata dai padri o dai nonni, a rendite di
vario tipo, a trasferimenti di denaro pubblico, all’evasione e allo
sfruttamento del lavoro servile (lavoro nero e sottopagato, perlopiù di
stranieri): una nuova forma di schiavismo.
E’ dagli anni 80 che gli italiani hanno smesso di investire nel
futuro, cercando di conservare la ricchezza più che produrla. E da
quando questo assetto a cominciato a scricchiolare – per il 50% della
popolazione, a causa della doppia crisi iniziata nel 2008, un 50%
concentrato soprattutto al Sud e nelle periferie, in cui forte è la
quota di giovani e di famiglie numerose – la paura di perdere il
benessere che si era acquisito è diventato il sentimento prevalente nel
nostro paese. Non stupisce che la modernità sia vista come una minaccia,
e la narrazione ottimista come uno schiaffo: perché la gente sente la
terra che si disfa sotto i piedi. Proteggere quel benessere che sta
svanendo è la prima preoccupazione degli italiani.
E lì trova chi le promette protezione: chi un reddito senza neanche
bisogno di lavorare, chi la pensione anticipata, chi un drastico taglio
delle tasse… Lì trova l’uomo forte che è capace di cantarle all’Europa,
quello che parla chiaro e che promette muri, difese, dazi, porti chiusi.
La Nazione come rifugio dal mondo. Come rifugio dalle novità che
sottratte ad ogni nostro controllo e contro ogni nostra volontà
fioriscono e impazzano nel mondo (globalizzazione, concorrenza,
asiatica, tecnologia, stranieri). Rifugio materiale e rifugio culturale.
La Nazione come scudo protettivo.
E’ un’Italia spaventata che mitizza il passato e che crede alle
favole dei populisti. Prima gli italiani! Potete immaginare qualcosa di
più consolatorio? Potete immaginare qualcosa di più illusorio? Di più
falso? Noi abbiamo il dovere di dire la verità. La verità è che non può
durare. Un Paese che non cresce è un Paese che va indietro, e il conto
lo pagano i più fragili. Che senza Europa saremo molto più deboli. La
verità è che questo Paese è fermo da 25 anni. E che quelli che lavorano
sono troppo pochi per andare avanti. La verità è che chi lo ha governato
negli ultimi anni della prima repubblica lo ha indebitato fin sopra i
capelli. Anche l’austerità è a suo modo un’illusione. Una necessità ma
anche un’illusione.
L’Italia deve tornare a crescere
Dal 1996 ad oggi l’Italia ha accumulato nel complesso un avanzo
primario medio del 2% all’anno (è la differenza tra entrate e uscite, al
netto degli interessi sul debito), nel complesso pari al 43% del PIL e a
circa 700 miliardi di euro ai valori attuali. 700 miliardi! Nessun
Paese occidentale è stato altrettanto virtuoso. La Germania non ha fatto
altrettanto, eppure… Nelle dinamiche del debito pubblico apparentemente
non c’è traccia di decenni di disciplina di bilancio italiano. Dal 2006
ad oggi il debito tedesco è sceso dall’86% al 68% del PIL. Nello stesso
periodo quello italiano è salito dal 104% al 134%. Perché?
Perché negli ultimi vent’anni le dimensioni dell’economia italiana
sono cresciute dell’0,5% medio, quasi nulla, contribuendo a far salire
il debito – su cui ogni anno si aggiungono decine di miliardi di
interessi (quest’anno 65, nel 2020 saranno 76) – e soprattutto il
rapporto tra questo e il PIL. L’economia tedesca è cresciuta tre volte
di più e soprattutto il debito tedesco è un quarto del nostro. E
sarebbe stato molto peggio senza l’euro e senza Draghi! L’austerità è
dunque necessaria ma inefficace.
Se l’Italia non riprende a crescere è come cercare con fatica di
riempire un secchio bucato. La verità è che senza crescita non abbiamo
futuro. E la crescita richiede impegno, fatica, intelligenza e
solidarietà: tutte cose oggi piuttosto impopolari. Dobbiamo evitare di
dirle perché sono impopolari? Se preferite possiamo accodarci all’onda
retrotipista, alla nostalgia del passato, e rituffarci nel ‘900, nella
critica del capitalismo sfruttatore, e fustigarci per aver fugacemente
creduto che il mercato possa determinare delle opportunità, abiurare il
jobs act e i governi Letta, Renzi e Gentiloni. In questi giorni ho
sentito parecchia gente suonare questo spartito. Porta voti? Ho qualche
dubbio.
E’ la stessa strada percorsa dai socialisti francesi. Se la
imboccassimo anche noi credo che Renzi avrebbe motivo di festeggiare…
Soprattutto non risolve i problemi dell’Italia. Non restituisce
benessere a chi ha paura di perderlo, non crea nuovi posti di lavoro,
non frena la denatalità, non evita la fuga di tanti giovani, non allarga
il welfare, non sostiene una vera svolta ambientale, non potenzia
l’istruzione. Non avvicina l’obiettivo della giustizia sociale. Senza
crescita non ci sono i soldi per fare cose di sinistra. Lo stiamo
vedendo con la legge di bilancio: per evitare l’aumento dell’Iva, che
sarebbe stato un disastro, e fare poco di più, facciamo 14 miliardi di
deficit e siamo costretti ad inventarci nuove tasse.
Siamo in un loop di debito che cresce, interessi che si mangiano
tutto e pochi spiccioli che restano per fare le cose. Certo, c’è il
contrasto dell’evasione fiscale, ma non pensiate che basti. E’ da un
quarto di secolo che l’Italia non cresce, anzi decresce se si conta la
senescenza naturale degli edifici, delle infrastrutture e delle
conoscenze. Il problema è nella produzione. La Francia ha quasi la
stessa produzione manifatturiera con 800 mila addetti in meno. Un
addetto in Italia crea 60 mila euro di valore all’anno, in Francia 73
mila, e in Germania 77 mila. Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma
rischiamo il sorpasso da parte della Francia. Per cambiare marcia
servono più investimenti: privati, pubblici e delle multinazionali.
Bisogna convincere le aziende – i cui depositi sono cresciuti di 128
miliardi dal 2012 al 2019 – a investire nel digitale, in ricerca, in
nuove soluzioni organizzative, in capitale umano – esattamente com’è
stato fatto in Emilia Romagna e come abbiamo fatto anche noi con
Industria 4.0, muovendo 240 miliardi di investimenti, e come oggi
fatichiamo a fare. E perché le aziende si decidano ad investire servono
una pubblica amministrazione più efficiente, una forte semplificazione
delle norme e della burocrazia e una giustizia più rapida.
La distanza dagli alleati di governo
Difficile non vedere come questo punto – il lavoro, e cosa serva per
creare lavoro – segni una rilevante distanza dalla cultura dei nostri
attuali alleati di governo. Non ero contrario ad avviare una la
collaborazione, viste le alternative – ben altro è immaginare
un’“alleanza strutturale” – ma la qualità di un governo non si giudica
dalle intenzioni, si giudica dalle opere. E le opere, su questo
specifico fronte, lasciano molto a desiderare. I titoli li conoscete:
Ilva, Alitalia, Whirpool, Comau, riconversione dell’automotive,
fallimento del reddito di cittadinanza, frenata su Industria 4.0.
C’è un problema di egemonia culturale, che stiamo subendo.
L’impressione che diamo è che il governo non abbia abbastanza cuore la
crescita e la produttività, e a che a prevalere sia la cultura del
risarcimento assistenziale, accompagnata da un ritorno di statalismo.
Visto dalle regioni del Nord, questo determina una gravissima frattura
con i ceti produttivi, e non solo con gli imprenditori. E’ un problema
molto serio. Come ha scritto Dario Di Vico: “La Lega è già forte di suo –
anche qui, anche in Emilia Romagna – non ha bisogno di essere aiutata”.
Il modello Emilia Romagna
E a proposito di Emilia Romagna, la piazza delle “sardine” – l’altra
sera – è stata meravigliosa. Qualcuno ha osservato che era una piazza
principalmente “contro”, e non si vince se ci si ferma al “contro”.
Quella piazza, secondo me, era invece anche “per”: per un modello di
società che si accompagna ad un modello di economia. E che le “sardine”
stipate in Piazza Maggiore vogliono tenersi stretto. Quel modello, il
modello dell’Emilia Romagna, è fondato innanzitutto sul lavoro e
sull’occupazione, ed è un modello che tutta l’Italia vi invidia. E’ il
modello di una regione che in questi anni ha portato la disoccupazione
dal 9 al 4.8%. E che vanta un tasso di occupazione del 71,3%, il più
alto del Paese. Che ha raggiunto questi risultati partendo dal Patto per
il Lavoro – appunto – sottoscritto con imprese, sindacati, camere di
commercio, comuni, università e terzo settore. E che ha saputo attivare
investimenti per oltre 20 miliardi nelle opere pubbliche e nella
mobilità, nella tutela del territorio e nella casa, nella ricerca
tecnologica, nell’innovazione e nell’internazionalizzazione del sistema
produttivo, nella formazione, nella sanità e nel welfare. Investimenti
pubblici e investimenti privati. Che ha avuto la capacità di attrarre
investimenti privati nelle aree interne, chiedendo impegni nella
formazione i cambio degli incentivi.
Lavoro, occupazione, crescita. Lavoro, occupazione, crescita. Su cui
si fondano l’ampliamento del welfare, il contrasto della povertà e la
lotta alle disuguaglianze. La giustizia sociale che ci sta tanto a
cuore.
Questo è il modello Emilia Romagna, che quelle “sardine” vogliono sia
difeso. E che mi piacerebbe che fosse il modello di tutto il Pd.
Crescita e inclusione. Sviluppo e solidarietà. Apertura e comunità. È
esattamente la ricetta dei sindaci democratici. Con questa ricetta a
maggio abbiamo vinto, battendo i candidati della Lega.
Sono sicuro che ci riuscirà anche Stefano Bonaccini.