Intervista a Giorgio Tonini
Senatore Tonini, incominciamo questa nostra conversazione
con il governo Draghi. Le chiedo, adesso che la squadra è
completa, un giudizio sul governo. L’impressione è che, guardando
la vicenda dei sottosegretari, non sia partito con il piede giusto.
Trova esegerata questa affermazione?
Il mio giudizio è che, nelle condizioni date, si tratta del
governo migliore possibile per il paese. Del resto l’Italia, che
fatica ad organizzarsi in modo soddisfacente in via ordinaria, dà
sempre il meglio di sé nelle situazioni eccezionali. Dinanzi alla
triplice emergenza che dobbiamo affrontare – sanitaria,
socio-economica e politica – il presidente Mattarella ha chiamato a
raccolta tutte le forze politiche e sociali, attorno alla personalità
oggi più stimata nel nostro paese, che è anche l’italiano più
conosciuto e apprezzato nel mondo. A sua volta Mario Draghi, forte di
un largo consenso trasversale, ha composto un Consiglio dei ministri
di alto profilo, sia tecnico che politico, una miscela sapiente di
competenza e rappresentatività, che sono poi le due componenti,
ugualmente importanti, per dar vita ad un governo autorevole. Questi,
a mio modo di vedere, sono i dati politici essenziali. Dopo di che,
ognuno ha in testa il suo “dream team”, che si tratti della
nazionale di calcio o del governo del paese. Ma il fuoco, diceva De
Gasperi, si fa con la legna che si ha.
Sembra che la destra, in particolare la Lega, sia più a
suo agio nel governo. Per lei?
Il Pd e il M5S entrano nel nuovo scenario dopo la crisi del “loro”
governo, il governo giallo-rosso, il governo Conte2, quindi con un
sentimento misto, al tempo stesso di convinzione (soprattutto da
parte del Pd) e frustrazione (in particolare tra i grillini). Per il
centrodestra il passaggio di fase assume un significato assai
diverso. Da parte di Forza Italia, l’ingresso nel nuovo esecutivo è
vissuto come la fine di uno stato di esclusione dal governo che
durava dal 2011, a parte i primi mesi del governo Letta. E per la
Lega, che pure è costretta ad ammainare tutte le bandiere
“salviniane”, il terzo governo di questa legislatura è comunque
vissuto come un ritorno, quasi una rivincita. Nella sintesi
hegeliana, rappresentata dal terzo governo di questa legislatura,
dopo la tesi e l’antitesi dei due governi Conte, è inevitabile che
il centrodestra veda soprattutto la “negazione della negazione”.
Ma se dal punto di vista della sua base politico-parlamentare, il
governo Draghi è effettivamente la sintesi dei due stadi precedenti,
dal punto di vista del programma e della cultura politica che lo
sostiene, incarnati nella figura e nelle parole inequivoche di Mario
Draghi, il nuovo esecutivo non è affatto equidistante tra Conte1 e
Conte2, ma si pone semmai come la terza fase, quella conclusiva
(vedremo se anche definitiva) della liquidazione politica del
populismo sovranista e antieuropeo che tre anni fa era entrato da
vincitore nelle aule della Camera e del Senato.
La domanda sul governo era una specie di ouverture.
Arriviamo al vero argomento dell’intervista: il partito
democratico. Possiamo dire che la pandemia e l’esperienza del
governo Conte hanno nascosto il malcontento che ora sta emergendo nel
suo partito. Un malcontento che tocca la gestione del partito e della
linea politica portata avanti dal segretario Zingaretti. Le chiedo:
non è deleterio, in questo contesto complicatissimo (e con questo
governo), dividere il PD?
Dividere il Pd, in qualunque scenario, non solo in questo, è
molto più che deleterio, è un atto di irresponsabilità nei
confronti del paese. Vede, nessun paese europeo ha dovuto affrontare
la doppia emergenza, sanitaria e socio-economica, nel contesto di
debolezza, precarietà e instabilità politica dell’Italia. Tutti e
tre i governi di questa legislatura sono stati guidati da personalità
(prima Conte, poi Draghi) scelte fuori dal parlamento e dai partiti.
Tutto legittimo, sul piano costituzionale. Tutto necessario e anzi
obbligato, sul piano politico. Ma tutto anomalo sul piano
democratico. La politica italiana, questa è la verità, non è in
grado di svolgere la sua funzione primaria: esprimere leader e
assetti per il governo stabile del paese. La stabilità dei governi,
bene primario di qualunque sistema democratico, è per noi italiani
ancora un miraggio. Alla stabilità si può arrivare attraverso
meccanismi istituzionali (come nel caso della Francia, governabile
anche con partiti deboli o addirittura in crisi), o attraverso un
sistema di partiti parlamentari forti e durevoli nel tempo, come in
Germania o nel Regno Unito. Non si possono cumulare, come accade in
Italia, regole istituzionali pensate per indebolire i governi e
partiti deboli e precari. Un sistema democratico di tipo parlamentare
è sano e forte se ha pochi (idealmente due) partiti grandi e
duraturi, “a vocazione maggioritaria” come diceva Mitterrand,
attorniati da qualche forza minore. Non quattro-cinque partiti medi,
nessuno dei quali in grado di ottenere nemmeno un quarto dei voti,
circondati da un pulviscolo di formazioni politiche in perenne
metamorfosi, per lo più frutto di trasformismo parlamentare, o di
scissioni motivate da ragioni contingenti se non effimere. Se ogni
oppositore di Angela Merkel dentro la Cdu-Csu avesse dato vita ad un
suo partitino, oggi la Germania sarebbe messa come l’Italia.
Veniamo alle critiche mosse al Segretario. In particolare,
per l’area riformista, si fa osservare che il PD è stato troppo
schiacciato sui cinque stelle. Per cui, sempre secondo l’area
riformista, occorre tornare alla vocazione maggioritaria. Al di là
delle parole qui si tocca il problema identitario del PD. Un problema
enorme, che ancora non è stato definitivamente risolto. In un
contesto così drammatico (disagio sociale enorme, esplosione della
povertà, ricostruzione del Paese) quale identità per il PD?
L’identità di un partito, mi ha insegnato Alfredo Reichlin, è
definita dalla sua funzione. Il Pd è nato da una grande convergenza
e non da una scissione: dunque l’identità del Pd è la sua
funzione di unire il riformismo per portarlo al governo del paese. Il
Pd è la casa comune dei riformisti del centrosinistra, una casa
grande e plurale, retta da un progetto politico, rendere il
riformismo maggioritario nel paese per dare al paese quella stagione
di riforme che non ha mai conosciuto. E retta da una regola aurea, la
contendibilità di tutte le cariche e le candidature, per la quale
nessuna vittoria e nessuna sconfitta nella dialettica interna è mai
definitiva e irreversibile: il vincitore pro tempore non espelle gli
sconfitti e gli sconfitti pro tempore non spaccano il partito.
Progetto politico e principio democratico sono stati minati alle
fondamenta dalle tante scissioni, inutili e dannose, perpetrate
peraltro da chi dal partito aveva avuto ruoli di massima direzione,
come Bersani o Renzi. Possiamo andare ancora avanti in questa
diaspora, in questa deriva disperatamente nichilista, fino alla
completa distruzione, fino all’annientamento del più importante e
ambizioso progetto politico italiano di questo secolo. O possiamo
invece assumerci la responsabilità di rilanciare la capacità
inclusiva e la vocazione maggioritaria del Pd. Anche con un passaggio
straordinario, una nuova Costituente del riformismo italiano, nella
quale riscoprire e rilanciare le ragioni dell’unità in nome di una
comune visione del futuro del paese. In questo rilancio di un
riformismo ripensato e rinnovato deve esserci spazio anche per una
riflessione non rituale sul populismo. Il riformismo perde se non
ascolta, interpreta e rappresenta le ragioni del popolo. Le ultime
riflessioni di Emanuele Macaluso sono state un grido d’allarme
circa la gravità e l’aggravarsi progressivo della frattura tra
riformismo e popolo. È in questa chiave che è stato giusto aprire
un dialogo tra Pd e Cinquestelle: un dialogo che ho sempre sostenuto
e difeso. Un dialogo che ha prodotto risultati importanti per il
paese, a cominciare dal ritorno (e da protagonista) dell’Italia nel
“mainstream” europeo, un ritorno che ha contribuito non poco a
rendere possibile la “svolta keynesiana” della politica economica
dell’Unione. Un dialogo che non è riuscito tuttavia a mostrare
capacità espansive sul piano dei consensi, né in parlamento, né
nel paese. Forse perché impostato, da entrambe le parti, più sul
piano della divisione del lavoro e della spartizione di aree di
influenza e di potere, che sulla produzione di una sintesi politica e
programmatica più avanzata e persuasiva. Probabilmente, la crisi del
governo Conte2 ha in questo limite strategico le sue cause non
occasionali.
Voi del PD avete chiaro chi sono i vostri elettori?
I nostri elettori attuali e reali sono prevalentemente ceti medi
urbani che vivono di spesa pubblica. Una parte pregiata, ma
strutturalmente minoritaria, del paese. Il Pd, come l’Ulivo prima
del Pd e in generale la sinistra e il centrosinistra dopo la fine
della “Prima Repubblica”, fatica a rappresentare, per dirla con
Claudio Martelli, sia il merito che i bisogni: sia i
competenti-competitivi sul mercato, sia i perdenti della
globalizzazione, a cominciare dagli operai. Vocazione maggioritaria
significa oggi in concreto saldare i (relativamente) garantiti dalla
spesa pubblica, con i competitivi da una parte e i perdenti
dall’altra. Il ciclo di governo a guida Pd della scorsa legislatura
(prima Letta, poi Renzi, poi Gentiloni) non è riuscito in questo
tentativo: un fallimento del quale mi sento, per la mia parte,
corresponsabile. Purtroppo nel Pd, dove si discute e soprattutto si
litiga in piazza ogni giorno su tutto, non si è mai avviata una vera
riflessione sulle cause e sui possibili rimedi di quel fallimento,
riassunto nella cocente sconfitta del 2018. Ci si è divisi su Renzi:
tutta colpa sua, cacciamolo, contro tutta colpa di chi lo ha
contrastato, cacciamoli. Come i milanesi durante la peste raccontata
dal Manzoni, invece di indagare le cause, ci siamo dedicati alla poco
nobile arte della caccia al colpevole. Né i renziani, né gli
antirenziani si sono chiesti perché nel giro di due anni, con lo
stesso segretario, il Pd è volato sopra il 40 per cento, per poi
precipitare sotto il 20. Dal massimo al minimo storico.
Torniamo al governo, non pensa che la lealtà,
assolutamente doverosa, non debba essere la sola caratteristica del
PD al governo, ma dovrebbe essere anche quella di un protagonismo
capace di creare una egemonia politica nel governo?
Il Pd non potrebbe non sostenere il governo Draghi, neppure se,
per assurdo, lo volesse. Perché sarebbe come non sostenere se
stesso, i fondamenti primari della sua cultura politica. Quindi
lealtà è troppo poco. Il governo Draghi per il Pd non è un
“governo amico”, è il “suo” governo. È il “nostro”
governo. Il protagonismo del Pd deve esprimersi in due direzioni.
Innanzi tutto sul piano programmatico. Ho parlato prima del nostro
fallimento politico nella scorsa legislatura. A parziale nostro
discarico, possiamo invocare l’argomento della totale inadeguatezza
della linea di politica economica dell’Europa. L’allora ministro
Padoan parlava di un “sentiero stretto” lungo il quale l’Italia
doveva camminare a passi piccoli e prudenti: tra politiche
restrittive, per evitare il default del nostro gigantesco debito
pubblico, e politiche espansive, per evitare che la cronica
stagnazione della nostra economia reale diventasse recessione e
depressione. Quel sentiero era stato reso praticabile dalla politica
monetaria, marcatamente espansiva, della Bce presieduta da Mario
Draghi. Ma il sentiero restava stretto perché, come ripetutamente e
pubblicamente sottolineato dallo stesso Draghi, la politica monetaria
non era sorretta da una parallela politica economica espansiva a
livello federale europeo, l’unica in grado di compensare le
politiche restrittive necessarie nei paesi fortemente indebitati e di
sostenere le riforme strutturali, indispensabili per accrescere la
competitività delle nostre imprese sul mercato globale. Quella
svolta è ora finalmente arrivata. Il governo Draghi deve poter
dimostrare che la forza espansiva dell’imponente pacchetto di
misure keynesiane europee sarà impiegata dall’Italia per fare solo
debito “buono” (quello che si ripaga perché alimenta la crescita
e non si limita ad accompagnare il declino) e per sostenere le
riforme strutturali che rendano possibile e sostenibile la
distruzione creatrice, che è la chiave per accrescere la
competitività del nostro sistema e dunque la crescita e
l’occupazione. Il Pd deve scommettere senza riserve mentali sul
successo dell’Agenda Draghi: perché è l’unica chance per
l’Italia, ma anche perché è l’unica chance per il Pd, per
dimostrare a se stesso e al paese che è possibile una nuova
convergenza tra riforme e popolo, una credibile ambizione
maggioritaria del riformismo.
Questa è la prima direttrice del protagonismo Pd. La
seconda?
La seconda è più semplice, se si realizza la prima. La
componente cosiddetta “tecnica” del governo Draghi è perlopiù
incarnata da personalità che da sempre si riconoscono nel riformismo
di centrosinistra. Il Pd dovrebbe nutrire l’ambizione di diventare
abitabile, in via naturale e spontanea, per personalità, mondi,
ambienti che oggi fanno fatica a riconoscersi in un partito dilaniato
da incomprensibili baruffe tra piccoli leader di ancor più piccole
correnti.
Veniamo a Giuseppe Conte, qual è il suo pensiero su di
lui? Pensa che possa essere ancora il punto di riferimento per i
progressisti?
Non conosco personalmente Giuseppe Conte, ma gli riconosco il
merito di aver guidato con dignità e responsabilità una transizione
assai difficile. Sul suo futuro politico, non saprei. Spero che
decida di portare il suo contributo alla ricomposizione della
frattura tra riformismo e popolo. Sul proliferare di partitini
personali ho già espresso la mia opinione.
Non le preoccupa la crescita di Giorgia Meloni?
Certo. È un segnale di quanto sia ancora irrisolta la frattura
tra riformismo e popolo. Sul tempo medio, è un fattore di forza
tattica, ma anche di debolezza strategica del centrodestra. Forza
tattica, perché è del tutto evidente che il centrodestra, superata
(come speriamo tutti) l’emergenza e scelto insieme il nuovo
presidente della Repubblica, si appresta a chiedere il voto, convinto
di poter saldare in modo vincente il “partito del Nord”, che si è
ritrovato attorno all’asse governativo tra Forza Italia e Lega
(almeno parzialmente) “desalvinizzata”, asse sdoganato
dall’esperienza del governo Draghi, con le aree, geografiche e
sociali, del paese che mantengono un atteggiamento di diffidenza e di
protesta e che oggi tendono a riconoscersi soprattutto in FdI. Questa
forza tattica rischia tuttavia di capovolgersi in debolezza
strategica, se il partito della Meloni dovesse rafforzarsi in modo
tale da mutare in modo significativo gli attuali rapporti di forza
nel centrodestra. Molto dipenderà anche dal Pd: se saprà utilizzare
appieno il sostegno e anzi l’identificazione col governo
Draghi come propellente di un allargamento delle basi del suo
consenso nel paese, o se invece cederà questa opportunità al
rinnovato asse tra Lega e Forza Italia. Come avviene in ogni grande
coalizione, la collaborazione tra avversari non può che essere anche
una competizione: per il migliore posizionamento, in vista del
confronto elettorale futuro.